«The summer is magic
Is magic
Oh oh oh
The summer is magic
You have to imagine
Imagine
Oh oh oh
The summer is magic»
Playahitty, 1994
è arrivate lezzanzare!
Boia de sono Elon Bezos del Degrado! Ho delle intuizioni, chiamiamole così. Ho progettato il primo resort anti-scemi! Risultato? È già pieno.
Chiaro. Ma c’è da stare attenti, anzitutto alle incessanti richieste degli scemi, che sono in netta maggioranza, essendo essi in primis la maggioranza degli umani (non gli si deve volere male eh, è una questione numerica). Ho dovuto scremare. Non è difficile, basta aprire il profilo Instagram del candidato e dare una rapida occhiata, non serve molto tempo a capire se uno è scemo. Basta notare ciò che posta, come scrive, come posa nelle foto. Due secondi e hai il quadro clinico.
C’è da dire che tanto poi si sarebbero autoeliminati, perché una volta arrivati al resort avrebbero scoperto che in esso vige un grande Niente. Niente di instagrammabile, niente senza lattosio, niente di hype, niente da fare. C’è le carte, la tv con le partite, il calcetto. Gli scemi non possono reggere il Niente, che invece è l’essenza del tutto. Una persona di valore la misuri dal suo rapporto con la noia e con l’ozio. Come diceva sempre Bukowski: diffidate sempre dalle persone in tuta! E soprattutto, al resort vige un’altra regola: la gente ti dice in faccia ciò che pensa, è una delle poche regole. Non lo va a scrivere sui social, deve dirtelo de viso, pena l’espulsione. Il che è assolutamente ormai vietato nel mondo reale. Insopportabile per chiunque la verità altrui sarebbe presa come offesa, oltraggio, demonizzazione.
Si è preso un paesino dell’entroterra toscano lontano dal turismo, quindi purtroppo di per sé accattivante per i turisti che come locuste cieche e voraci cercano sempre il posto dei local, il posto sincero per avere il privilegio di colonizzarlo e devastarlo per primi e lo si è adibito a resort collettivo. C’è un circolo Arci coi vecchi in ciabatte e i calcagni di fuori che giocano a carte, ragazzi e ragazze normali che fanno gli sciocchi, commercialisti non se ne vuole così come burocrati, gente del Comune, della Regione, politici tutti esclusi a priori e attivisti nella maggior parte pure; una piazzetta col mercato della verdura. Le seggiole per la sera, quando si sta assieme e addirittura si è scoperto che la gente chiacchiera spontaneamente. Non mancano gli screzi, le antipatie, i litigi e le invidie. Non è un resort anti-umani, è solo antiscemi! Ma almeno si son selezionati umani umani.
Credo che questo sia il grande marketing del futuro, che sostituirà quei cazzo di lager agghindati per ricchi tipo Borgo Egnatia in Puglia. Per questo i resort anti-scemi non vanno pubblicizzati, non devono esserci articoli sui siti (i siti! Ecco il vero alverare dello scemismo, l’antenna irradiante che sparge il rincoglionimento sui passivi lettori che ormai santificano gli scriventi online. Messi in piedi da disperati che sono chiamati giornalisti anche quando sono solo dei lavoratori sottopagati che non lasciano la scrivania o degli odiatori seriali votati alla polemica per esistere, trovano il consenso di lettori privi di alcuna fede che cercano oracoli ovunque), non devono esserci reel. Prima regola del resort anti-scemi: nessuno deve parlare del resort anti-scemi!
Il cellulare non è che non lo puoi portare dentro al resort, qui non siamo come quegli integralisti che ti impongono il digital detox, non c’è nessun detox da fare, mavaffanculo se hai bisogno del detox non sei degno del resort anti-scemi. Non c’è nessun detox per la pigrizia!
All’inizio abbiamo avuto un problema con i fricchettoni di sinistra, che avevano preso il resort come una sorta di ecovillaggio. Loro sono parassitari, si annidiano su un concetto e lo smielano tutto spacciandolo per loro. Il risultato è che gli ecovillaggi sono dei santuari al contrario, demoniaci, in cui vigono perversioni per lo sporco, le canne e il puzzolente e odioso vino naturale del cazzo. Non proprio meglio che vivere come tutti allora, solo che sei in mezzo alla Natura. Si ma a una Natura matrigna!
Questo ha portato all’arrivo dei primi celebri di Instagram, non voglio nemmeno chiamarli influencer. Ma, come previsto, hanno resistito mezza giornata a dire “fighissimo”, “stupendo”, “posso fare yoga laggiù?” dato che la gente li ha ripetutamente mandati affanculo e presi in giro.
Nel resort anti-scemi la gente si manda pure affanculo, piano piano smette di usare i social per esprimersi perché riscopre lo stimolo del confronto faccia a faccia. Si attivano le endorfine, ci si incazza, qualcuno si mena, c’è chi scopa. Insomma la vita come era fino al 2010. Avendo a che fare con i propri pari ci si isola meno, ci si diverte. La maggior parte dei nostri ospiti racconta che nell’ultimo anno era riuscita a malapena a passare una cena con un amico senza che quello stesse al cellulare tutto il tempo o gli mostrasse dei fottuti reel. Ecco, nessuno vuole vedere i tuoi reel.
Non lo dite a nessuno!
Bengala non è arrivato per due settimane! È il periodo lavorativo più stressante degli ultimi anni, quindi abbiate pazienza.
Senti mai di dover andare
sotto la stella diversa sotto il lampione
a cercare altre luci,
a mesmerizzare, scordarti chi sei,
non appartenere, dissolverti?
Solo che è il silenzio di sparire che ci uccide
il nostro dolore è tutto ciò che ci mantiene vivi.
Nelle carcasse vuote delle ciminiere
nei cassoni dei cami che ci dormiva i ladri
videro uomi fare i fuochi la notte
cercare riparo nei viaggi di fuga
a ritroso
scappando da loro stessi.
***
Torno a casa
trovo pezzi di legna e vetro a terra
penso sia stato il gatto
poi vedo l’orologio rotto.
Era lì da 40 anni… com’è possibile?
Allora penso al fantasma del nonno, magari un suo dispetto.
Sono stremato, soverchiato dagli eventi
Italia uno urla irritanti musichette,
raccolgo i cocci nella cassetta
e d’improvviso mi rallegro per la composizione creata…
Lancette, vetri, pezzetti, pare un quadro espressionista.
Un orologio vecchio fracassato da buttare
gli faccio una fotografia
quello sono io visto dall’aldilà.
Segnali oscuri mi dicono di rallentare.
c’è saggezza nei muri, nel buio
in me invece alberga un silenzio stonato.
Gipi si faceva le canne con Andrea Pazienza. Gipi faceva fumetti dimmerda su Cuore, settimanale di resistenza umana. Gipi ha fatto un film strano presentato a Venezia: ne hanno parlato in tanti ma non l’ha visto nessuno. Gipi fa le graphic novel e non se lo cagano molto fino a LMVDM (La mia vita disegnata male) che ottiene un grande successo e allora Gipi diventa mainstream, candidato al premio Strega, interviste sui fashion magazine e videoclip con Manuel Agnelli. Gipi che sposa una bella figa ex di Nanni Moretti, esce dai social di merda dopo una shitstorm su Instagram e va a vivere a Roma. Questo è quello che so di lui, ma quello che non so è spiegare è la magia che scatena quando scrive. Sono stato felice che in “Zaky e gli altri” non ci sia mezzo disegno, i suoi disegni mi fanno cagare. E invece quei periodi brevi, crudi, semplici ma potenti ti inchiodano. Ha sessant’anni ma scrive come un adolescente, ed è tutto lì il segreto, forse. La storia, l’intreccio, la profondità dei personaggi si sentono e sono robusti, ma è la sua scrittura pirotecnica la protagonista che insegui per tutto il romanzo.
Estratti dal libro di Gipi:
Masamba ha un uccello così. Un tubo nero. È normale, dice. È un negro. È naturale. Però questo tubo è proprio un tubo, un tubo di gomma. Non gli diventa mai davvero duro. Questo è lui che lo dice, Masamba, non è voce di paese.
Qualunque idea si possa avere della gelosia, a quel punto, dopo una conoscenza di quattro parole soltanto, quella di Zaky appariva un tantino prematura.
Il fatto è che Zaky, sentendo pronunciare "Los Angeles" e “San Francisco", aveva immaginato la ragazza in ginocchio, a spompinare dei negri in canottiera da basket. Chiarissimi erano i numeri sulle maglie: trentotto, quarantacinque, sedici.
E poi l'aveva vista in un locale, una discoteca di Frisco. Era un po' ubriaca. Voleva scopare. Aveva ricevuto una chiamata del fidanzato, un tipo mezzo tonto al quale aveva spillato montagne di dollari in cambio di qualche sorriso, molte bugie e dei pompini rari ma indimenticabili, che lasciavano lo scemo nel letto, in uno stato di semi incoscienza, mentre lei deglutiva, beveva un sorso d'acqua liscia alla bottiglia, deglutiva ancora, gola appiccicosa, e usciva, con una scusa, una cosa inventata, per andare a farsi scopare DAVVERO da qualcun altro.
Io odio il mondo. Odio tutti quelli che ci camminano sopra. No. Non so perché. Che mi ricordi, è sempre stato così. Le volte che ho sorriso, ho finto.
Marion era rientrata dal bagno. Era salita in ginocchio sul letto, lo aveva baciato sulla fronte. “A cosa pensi?" gli aveva domandato. "A niente."
Lei lo aveva abbracciato stretto ed era rimasta là, con la testa poggiata sulla sua spalla. I capelli profumavano. Quel profumo lo faceva incazzare ancora di più.
Mi fa schifo vivere.
Lei gli aveva chiesto se stava bene e lui aveva risposto “Sì", due volte. Poi si era alzato.
"Ma ora devo andare di corsa. Devo fare un sacco di cose."
"Per lavoro?" aveva domandato Marion stendendosi sul letto.
Odio tutto.
“Si. Anche per lavoro. Un sacco di cose.”
"Perché Dio ha fatto i culi?"
Masamba sembrava serio. Una domanda seria.
"Perché li ha fatti così?"
"Così come?" aveva chiesto il Biondino, che non aveva capito.
"Così belli."
"Non sono mica tutti belli. Ci sono dei culi che fanno cagare.
Masamba, aria sognante:
“Per me sono tutti belli.”
Scopo dell'andare a brutte era il praticare il gioco crudele del fingersi veramente affascinati e interessati (Zaky aveva fatto un sacco di domande alla ragazza al suo lato ed era stato ad ascoltare pensando ad altro e cercando di non ridere vedendo l'amico nero che faceva lo stesso con la sua brutta), suscitare desiderio e speranze e infrangerle. Era una vendetta, probabilmente, nei confronti delle ragazze molto belle, di tutti i loro no, di tutti i muri impossibili da oltrepassare che Zaky e Masamba avevano incontrato sul loro cammino, dal momento della scoperta dell'esistenza delle donne. Zaky ne aveva avute molte, ma nessuna veramente bella.
Nessuna veramente intelligente o simpatica. Era stato un frequentatore di semplicità, camminava fiero su prati d'erba di un verde poco vivace dove poteva sentirsi fulgido e superiore. Adesso pensava che aveva fatto bene. Aveva fatto bene a scegliere sempre donne che non gli piacessero veramente, l'unica volta che aveva infranto la regola si era rovinato.
Ho incontrato Andrea Pazienza quando avevo diciotto anni, forse diciannove, non lo ricordo con precisione. Ero un ragazzino allora, passavo le giornate sulla panchina di un giardino pubblico con i miei amici di sempre. Passavamo il tempo sputando, facendoci tagli con le lamette, giocando a suonare e frequentando con passione ogni maledetta sostanza alterante. Leggevo le storie di Pazienza e avevo l’impressione che parlassero di noi. Di me e dei miei amici intendo. Facevamo le stesse cose che venivano raccontate nelle storie. A volte le anticipavamo pure, altre volte le riproducevamo, e c’era una certa stupida fierezza nel “sentirsi raccontati” nelle storie più truci. Quando disegnavo, in quegli anni, disegnavo come lui, ma male. E quando provavo a scrivere, scrivevo come lui, ma malissimo. Un giorno, dopo che la mia prima fidanzata vera mi aveva lasciato, seppi che Pazienza teneva un corso di fumetto, alla “Libera Università di Alcatraz”, a casa di Jacopo Fo, in Umbria.
I miei genitori mi dettero i soldi per il corso. Costava parecchio, probabilmente era una truffa, ma pure dalle truffe si può imparare se si ha una buona predisposizione. Comunque sia, quella truffa contribuì in modo determinante a farmi diventare un disegnatore di storie. Soprattutto, in quei giorni, al corso, conobbi i miei disegnatori amati. Pazienza, in testa, e poi Scòzzari, e Muñoz e Vincino e altri. Incontrare dei disegnatori “veri” per me che venivo dalla mia panchina tra gli sputi fu una rivelazione. Esistevano persone che erano davvero dei disegnatori. Gente che viveva di storie da disegnare e raccontare. Esisteva quella forma di vita. Era possibile. Ora sembra una stupidaggine, ma questa specie di verbo in carne fu per me una illuminazione. I ricordi sono confusi poi. Lontanissimi. Mi resta in mente il fascino di Pazienza quando parlava e la paura che mi faceva Scòzzari mentre girava intorno al tavolo. Ricordo i discorsi sulle droghe e questa cretina vicinanza che alcune sostanze mi parevano darci. E poi ero piccoletto. Non riuscivo a spiccicare più di due parole in fila. Non avevo uno stile, non avevo tecnica e non avevo talento. Ero sempre in imbarazzo. Le cose che Pazienza diceva le mettevo nella memoria e le ripetevo dentro di me, per non dimenticarle.
Lo vidi disegnare e rimasi di sasso. Mi ricordo anche Scòzzari che voleva farci scrivere con il pennello e la china. Io non riuscivo neppure a tenerlo in mano, il pennello, figuriamoci a scrivere. Ricordo anche il giorno (mille anni dopo) in cui mi ritrovai a scrivere correntemente con il mio W&N serie 7 numero 4. E il sorrisino furbino che feci e il ringraziamento interno e privato che telepaticamente inviai a F. S. Insomma, allora ero piccolino. Mi ricordo che al corso passai tanto tempo in una macchina con una ragazza molto più grande di me, pensando che mi piaceva molto ma che era TROPPO più grande di me e ricordo che ci litigai, le detti una spinta e si ruppe un braccio e mi sovviene che, stupidamente, tutto questo mi appariva perfettamente accordato con l’essere un disegnatore da due lire e un mezzo drogadicto. Non so se a diciotto anni si è scemi per forza. Forse no. Comunque, io lo ero.
Pazienza lo incontrai una seconda volta a Lucca. Lucca comics. Ero nel bagno. Ero stato a guardarlo disegnare allo stand, di nascosto, senza trovare il coraggio di farmi avanti e dirgli “ehi, sono quello di Alcatraz, il drogadicto con cui parlasti di droghe pesanti e andasti in giro in macchina”. Ma non lo feci.
Andai al bagno e quando stavo per uscire lo incrociai mentre entrava. Mi riconobbe e mi salutò (ed è buffo che lo ricordi ancora) e mi chiese se ero andato a “farmi” nel bagno. Risposi di no. Che ero diventato buono. Non era vero. Ma lo sarebbe stato, più avanti.
Il suo modo di scrivere e di disegnare fu una maledizione per me, per tanti anni. Non riuscivo a staccarmi. Poi successe. Non so nemmeno come, probabilmente a un certo punto me ne sono fregato. Dello stile intendo. La voglia di disegnare e raccontare deve avere avuto il sopravvento sui pensieri e sui desideri. Credo che sia andata così.
In una intervista video recente dissi che Pazienza aveva rotto il cazzo. Usai proprio questa espressione antipatica. Pensavo che dovevo usarla, che era necessario per trovare altre parole e per guardare avanti, che è una cosa obbligatoria per i bipedi. Era un momento in cui Andrea Pazienza (il nome, sopratutto, non il lavoro) veniva usato da un sacco di coglioni nostalgici degli anni Settanta, e da ex teste di minchia della “lotta armata” che si erano impropriamente sentiti “cantati”da A.P. E c’era pure tanta gente che seguendo un’onda nuova se ne faceva amico e portavoce. Insomma, c’era da stare da un’altra parte, anche con parole a sproposito, secondo me.
Un anno fa ho visto delle tavole di Pazienza ad una mostra, a Cremona. Accanto a me c’era Paolo Interdonato. Ho visto questi bei disegni a pennarello ed erano bei disegni a pennarello di tanti anni fa e sembravano fatti da un ragazzino. Era così, infatti. Erano i disegni di un ragazzino. I nasi avevano le forme che si disegnano da ragazzi. E pure le ombre erano quelle. Io ero un quarantenne che guardava i disegni di un ragazzino che non c’era più. Mi sono arrabbiato e poi commosso. E poi (come sempre) ho pensato alle parole di Bill Pilgrim: “così è la vita” mi sono detto. Ho tirato su col naso e sono uscito. E Bill, come tutti sappiamo, ha sempre ragione.
Ora non so cosa resta del disegno di Pazienza nel mio disegno. Niente, mi viene da dire.
E anche la scrittura, è cambiata così tanto. Ed è cambiato il mondo, e assai.
Spesso mi dico che se lui non avesse fatto quello che ha fatto, nel racconto e nel disegno, io non avrei scritto una sola riga. Ma come si fa ad esserne sicuri? Ed è importante, alla fine?
A volte, quando incontro il mio amico più caro, e lo vedo mangiare, gli domando:
“stete magnende giovanotte?”.
Di Vincenzo Pagliuca ho già parlato in
un precedente Bengala dedicato al suo bellissimo libro mònos. La fotografia di architettura non è il mio genere, non la capisco perché per me è troppo difficile e la sua precisione a volte mi sconcerta, ma Pagliuca mi porta sempre dentro al luogo in cui scatta.
Ha questa prospettiva frontale sul paesaggio senza mai essere pretenzioso, un modo di concepire l’inquadratura che su di me funiona sempre. Io una sua foto mi fermo sempre a guardarla.
Dopo monos (comrpatelo è fantastico) si è concentrato sui bunker e la cosa devo dire mi ha toccato. L’altro giorno leggevo un pezzo (forse ironico, non so) de Il Blast sul bisogno di una bella guerra per risorgere e mi sono cascate le palle. Se i giovani devono avere come pensiero un’idea così vecchia come quella fallimentare dei futuristi di cento anni fa allora largo ai vecchi. Guardo le foto di Pagliuca e mi rendo conto che la guerra è veramente un incubo, un orrore di cemento armato mimetizzato tra le foglie, dove speri di rifugiarti per ammazzare e non essere ammazzato, una corazza per l’animo che invece è senza scampo.
Dice il comunicato: Per il suo secondo libro in programma, Vincenzo Pagliuca prosegue la sua ricerca visivo-documentaria sulle immagini archetipiche dell'abitare, iniziata con la serie "mónos". Questa volta esplora i bunker del Vallo Alpino. Una rete di fortificazioni progettata dal regime fascista alla fine degli anni '30 per proteggere il confine settentrionale dell'Italia, rimasta sotto controllo militare fino al 1993. Pagliuca si concentra sulle strutture ancora disseminate in Alto Adige, dove la costruzione di circa 300 bunker fu completata con un impiego di risorse senza precedenti. Le architetture monolitiche emergono così dall'oblio. Le sue immagini suscitano l'interesse dello spettatore per i peculiari metodi di mimetizzazione e per le relazioni che gli edifici hanno sviluppato nel corso dei decenni con il loro ambiente naturale e sociale. I bunker rappresentano un'eredità difficile, che ricorda un periodo storico drammatico nell'Europa centrale, segnato dall'ideologia nazionalista e dall'incapacità di risolvere i conflitti con mezzi pacifici: un'epoca che pensavamo fosse ormai tramontata... La pratica fotografica di Vincenzo Pagliuca (*1980), attraverso un approccio seriale, si concentra sul paesaggio e sull'intervento umano sul territorio, con un particolare interesse per il tema della casa e dell'abitazione. Il suo lavoro è stato esposto e pubblicato a livello internazionale. Bunker è il suo terzo libro. Vive e lavora a Brescia.

Ho conosciuto Azzurro 80 ai tempi di Agip di cui mi pento tantissimo di non aver comprato l’LP. Non so spiegare cosa succeda con la sua musica ma mi fa l’effetto di una vaporwave pop, qualcosa di strettamente legato alla biografia di chi è nato negli anni 70 e 80. Direi che è il suono di quando eravamo piccoli, delle ore passate d’estate coi ghiaccioli a mille lire che si scioglievano in mano a guardare un amico giocare a Street Fighter al bar.
Il tutto però senza essere melanconico, melenso, forzato. La musica di Azzurro 80 suona reale, del nostro tempo, ma è rivolta al passato. Non so, è come Ellroy che scrive solo degli anni dal 1930 al 1960 e per lui non esiste altro. Ellroy non scriverebbe mai di altro, così come forse Azzurro 80 fino a ora non ha mai esplorato altro. Il passato è la sua casa.
Questo Flashback lo metto in sottofondo come se fosse la prosecuzione di Agip, senza nemmeno leggere i titoli dei pezzi, lasciandoli scorrere uno dietro l’altro. Miami Vice, il colore della luce nelle vhs dei tramonti in Florida, il Lazio, la Lazio, il conduttore del tg di lato allo schermo con la giacca a quadrettoni, la simmenthal a pranzo. Ho sette anni, Baggio sbaglia il rigore, piango col mio amico Lorenzo sventolando un tricolore fuori la porta di casa. Maradona ci chiama figli di puttana, soffro.
E poi via col Ciao di mia nonna, che non lo potevo usare e cascavo a terra e mi sbucciavo.Ma era una bicicletta a motore! Come resistergli? Così come a questi suoni di synth, di Blade Runner in chiave pop, italodisco melodica, Akai, drum machine. A volte pensi che manchi solo la voce a questi pezzi, invece no. La loro voce è il timbro. Insomma, per me Azzurro 80 è veramente bravo.
Ok è tutto. Ci vediamo la settimana prossima. In fondo a Bengala troverete sempre e soltanto una frase di Charles Bukowski. Sappiatelo.