«L’Italia è ancora come l’ho lasciata, ancora polvere sulle strade, ancora truffe al visitatore, qualunque sia il suo atteggiamento.
C’è vita e animazione qui, ma non ordine e disciplina; ciascuno si cura solo di sé stesso, è vanesio, diffida degli altri, e gli uomini di Stato, anche loro, si curano solo di sé stessi».
Goethe, Epigrammi veneziani, 1790
Hola lettori,
come vi stimo che leggete! E che leggete me poi!
Vi faccio infatti un regalo…
Mi sono imbattuto in questo libro. Inizia così:
«Tanto per cominciare, l’Italia non esiste. È una semplice benché curiosa espressione geografica, uno stivale che s’allunga pigro nel Mediterraneo, una penisola incantevole purtroppo rovinata dagli indigeni.
L’idea di farne uno Stato, una Nazione con la maiuscola, come se fossimo la Spagna o l’Inghilterra, è una sciocchezza sesquipedale, che perdoniamo al conte di Cavour soltanto perché, maturato nella lingua e nella cultura d’Oltralpe, pensava in buona fede di vivere in Francia» (Fabrizio Rondolino, L’Italia non esiste)
Allora succede raramente di trovare delle risposte, specie a domande tanto grosse. E succede ancora con i libri!
Ma se nessuno crede alla giustizia, perché mai si dovrebbe essere giusti?
Voglio dire, siamo tutti felici di essere nati quaggiù sullo stivale invece che in Somalia o in Corea, per carità che bel clima, che relax, ma tutta la vita di un italiano è segnata da un unico grande conflitto, quello col proprio Paese. Mi ricordo quella frase degli Afterhours: e come può il mio amore essere limpido/ se è la mia nazione che l’inquina?. Già…
Che poi forse è un tratto in comune anche agli altri popoli (Thomas Bernhard ha costruito tutta la sua opera CONTRO l’Austria) però, basta guardare una puntata di Report o delle Iene per capire che siamo senza speranza. Se pure le Iene, che sono il niente, smascherano la tragedia quotidiana in cui viviamo, vuol dire che è veramente grossa.
Quindi diciamo che ogni giorno lottiamo con l’istituzione. Dalla Scuola fucina di perversione e appiattimento mentale, alla sanità pubblica ma solo per finta, alla corruzione, al clientelismo, alla mediocrità dei ministeri e dell’arte, l’INPS, il bollo auto etc.
Vivi in questo Paese e senti puzza di marcio ovunque.
Ci sei abituato da quando sei nato.
La sciocca parentesi unitaria che ancora ci affligge è dunque destinata a concludersi in ogni caso, vuoi per l’evaporazione della sovranità nazionale verso l’alto delle istituzioni europee o del mercato globale o dell’impero americano (o cinese).
L’Italia, per fortuna, è spacciata. Nell’ultimo secolo l’hanno tenuta insieme a forza prima Mussolini, poi i grandi partiti di massa, e infine – a modo suo, cioè suscitando un amore e un odio fuori misura – Berlusconi. (Fabrizio Rondolino, L’Italia non esiste)
Siete in un paese dove in pochissimi ormai leggono i libri. Ma non vi colpevolizzo. La gente deve lavorare, produre, essere figa, non ha tempo di leggere.
I miei amici sono disperati: io non leggo mai! mi dicono con senso di colpa. Come fai???
Rispondo sempre citando Houellebecq: devi veramente odiare tanto la vita per amare la lettura.
È ironico. H. ama la vita e io pure. Però diciamo che dedico ore e ore alla lettura. Non esco, non rispondo al telefono o alle email. Non mi devo sforzare di farlo, mi viene. Leggo perché è un pò come parlare con qualcuno che ha delle risposte.
Così come scrivere. Se dovessi sforzarmi troppo non lo farei.
Diciamo che lo considero un pò il mio compito.
Sfoglio un libro e ci trovo delle risposte, così ve lo condivido.
Non so… avete presente quel senso di rabbia di fronte al cavillo, alla norma, al regolamento, all’addetto allo sportello che vi dice che comunque la colpa è vostra e la multa la dovevate pagare entro un certo giorno perché anche se in piccolo la mora c’era e stava scritta in calce alla lettera? Ci vuole maestria per mettere su parola quel senso di inculata… Ecco:
Tre epigrammi di Prezzolini, dal suo Codice della vita italiana, fotografano la situazione:
In Italia non si può ottener nulla per le vie legali, nemmeno le cose legali. Anche queste si hanno per via illecita: favore, raccomandazione, pressione, ricatto, eccetera.
In Italia il governo non comanda. In generale in Italia nessuno comanda, ma tutti si impongono.
Per le cose grosse non si cade mai, per quelle piccine spesso. Ciò corrisponde al carattere italiano che subisce le grosse ingiustizie, ma è intollerantissimo per le piccole.
Ma se nessuno crede alla giustizia, perché mai si dovrebbe essere giusti? Che vantaggio c’è a comportarsi bene, a obbedire alle leggi in vigore, ad applicarne le norme, a rispettare i divieti? (Fabrizio Rondolino, L’Italia non esiste)
La classe dirigente.
Beh nessuno che io conosca e di buon senso crede che le cose possano cambiare da qui a poco.
Ancor meno, nessuno crede che la politica sia salvifica in questo senso. Per quanto la Meloni sia fascio, per quanto Elly sia (boh non so cosa sia), siamo tutti consapevoli che la politica non farà mai niente per noi.
Torno sul libro:
L’Italia non ha classe dirigente: è cosa ben nota. Non l’ha mai avuta, dalla caduta dell’impero romano in poi, e con ogni ragionevolezza non ne avrà mai una. Le classi che comandano – nella politica, nell’economia, nella cultura – non dirigono alcunché: gestiscono più o meno bene (e spesso molto male) la sopravvivenza quotidiana, accrescono i piccoli e grandi benefici di cui godono, e si assicurano che i propri figli possano ereditare serenamente ciò che essi stessi hanno ereditato dai loro padri: il potere di continuare a esistere. Senza classe dirigente, com’è evidente, non può esistere né una nazione, né uno Stato: c’è dunque una logica intrinseca nello sfascio italiane.
Oppure:
All’origine dell’Italia moderna (e della politica italiana) non c’è dunque Machiavelli, ma il suo totale, implacato fraintendimento. La sua frase più famosa, la battuta che ne dovrebbe riassumere lo spirito e il lascito, non compare in nessuno dei suoi scritti: «Il fine giustifica i mezzi» è un’invenzione dei Gesuiti resa popolare dalla Controriforma, e impiegata sul finire del Seicento, non senza un’involontaria ironia, per porre all’indice anche le opere del segretario fiorentino.
Il trasformismo è la modalità con cui le classi dirigenti possono dividersi, litigare e muovere a battaglia con la certezza che nessuna delle parti perderà mai veramente la guerra (proprio come accadeva nel Rinascimento). È una sorta di rete di protezione in grado, quando c’è bisogno, di stemperare il conflitto riassorbendolo in un accordo compromissorio che salva tutti i contraenti e garantisce la continuità del potere.
Lo scambio delle parti in commedia, le transumanze, i rovesciamenti di campo sono dunque la norma, non l’eccezione. Nel gioco dei quattro cantoni si sceglie sempre l’angolo più vicino, e che importa quale sia il suo colore; chi resta in piedi sa che al prossimo giro con ogni probabilità troverà la sua seggiola.
Ora, voglio dire, se cercate online informazioni su Fabrizio Rondolino viene fuori uno scandalo legato a una macchina del fango da lui proposta per email a Renzi quando era il suo spin doctor e varie infamate che gli lanciano Scanzi, Travaglio e altri. Tutta gente discutibile direi.
A me non me ne frega niente, io non so niente del suo passato e ho letto il libro in tre ore perché è scritto da dio. Il libro è illuminante.
Ho chiamato Piemme e mi hanno detto: non mandiamo copie cartacee e non diamo il contatto dell’autore per intervista. Bella politica del cazzo cari di Piemme visto che dopo questo numero in molti compreranno il libro. Ne ha scritto, oltre a me, credo solo Il Foglio. Evidentemente a Piemme non interessa venderne copie.
Ma anche di questo me ne fotto. Gli uffici stampa spesso sono inutili come in questo caso, altre volte per fortuna no. Pensano che una newsletter conti meno di un giornale e non hanno capito nulla.
Io mi baso su Rondolino e il suo libro che è un saggio storico e antropologico che spiega il carattere italiano e le ripercussioni che ha avuto nella storia. L’influenza nefasta della chiesa, la mentalità di giocare al ribasso, l’impossibilità che qualcosa cambi.
Il Barocco, se lo si scrive con la maiuscola, fiorisce e trionfa nel Seicento; ma l’Italia, come abbiamo visto, è già barocca da almeno un secolo: e lo resterà per sempre. L’artificio, la retorica, l’apparenza, l’esibizione, la ridondanza, l’ornamento, lo spettacolo sono altrettante caratteristiche delle classi dirigenti italiane che troveranno, nel Barocco storico, una meravigliosa occasione di espressione e di diffusione. Nessun Paese, sul principio dei Seicento, è barocco come l’Italia, e Roma diventa ben presto la capitale mondiale del Barocco – e tale è rimasta fino a oggi.
Mindset paraculo.
Può un libro di Baldassare Castiglione del 1518 spiegare tutt’ora il nostro paese? Pensate ai premi letterari, ai David di Donatello, ai grandi ammucchioni di massa degli intellettuali italiani sempre sulle cause più scontate. Aldo Grasso, Cattelan, Massiniiiiiiiii 🤮🤮🤮, Cucciari etc…
Poi aprite il libro al libro! Analisi de Il Cortigiano.
La domanda cui vogliono rispondere i quattro dialoghi che lo compongono è semplice: come si può far carriera senza perdere il favore dei propri padroni?
E altrettanto semplice è la risposta: bisogna fingere, sempre.
Mai farsi notare troppo, mai assumere un’iniziativa, mai distinguersi dagli altri. E, quando si fa qualcosa di buono, assicurarsi che ci sia un pubblico in grado di apprezzare e ricompensare. Ogni azione, ogni gesto, ogni parola dev’essere oggetto di un calcolo attento, insieme analitico e sistematico.
(…)Né io voglio che egli [il cortigiano] parli sempre in gravità, ma di cose piacevoli, di giochi, di motti e di burle, secondo il tempo.
La chiacchiera vuota, superficiale e sempre piacevole esclude programmaticamente dalla conversazione i discorsi seri, «metafisici», impegnativi: il cortigiano disprezza gli intellettuali perché annoiano il principe.
L’idea di nazione.
Non lo sapevo ma grazie al libro scopro che pure il tricolore è una bufala. Nato in epoca napoleonica è semplicemente una bandiera francese alterata. Ridicolo.
L’Ottocento, aveva ragione Leopardi, è un secolo stupido e pericoloso. Innamorato delle magnifiche sorti e progressive, figlie di una visione distorta dell’Illuminismo che disprezza l’individuo nel nome dell’Idea con la maiuscola, l’Ottocento ha inventato il nazionalismo, cioè la giustificazione morale della guerra moderna, che non distingue fra militari e civili e distrugge indifferentemente case e caserme.
L’idea stessa di nazione, a ben vedere, non è che un’altra espressione di quella «morale degli schiavi» che Nietzsche, con ruvida efficacia, indicava come l’origine e la natura del nascente socialismo, che presto diventerà reale e poi nazionale. È infatti l’invidia a muovere i nazionalisti: vorrebbero anch’essi essere partecipi di quella sovranità universale che, appunto, invidiano all’imperatore, ma non sanno, ignoranti e presuntuosi come sono, che la vera sovranità tende all’impersonale.
I nazionalisti, che ignorano queste elementari nozioni, dapprima spezzettano la sovranità sovranazionale in tanti frammenti, assegnandosene uno per ciascuno nella speranza di diventare tanti piccoli imperatori; s’accorgono poi che la sovranità non esiste, se non come ombrello dell’autogoverno; accortisi di non aver nulla in mano, costruiscono da sé un nuovo potere, fondato sull’omologazione dei costumi, delle tradizioni, delle lingue e delle opinioni, e, simmetricamente, sull’oppressiva invasività dello Stato in ogni meandro della vita civile, economica, privata, intellettuale. Lo Stato moderno, lo Stato-nazione dei nazionalisti, è un abuso di potere sulle comunità e sugli individui inermi.
L’unità europea cui stanno stancamente lavorando frotte di burocrati nazionalisti ha di buono che, recuperando l’idea sovranazionale, finisce giocoforza col mettere in crisi l’idea di nazione, svelandone l’intima inconsistenza. La nazione appartiene a tutti gli effetti alle brutture del Novecento, il quale a sua volta è la sanguinosa messa in pratica delle bizzarre idee del secolo precedente.

Ecco, ecco la nostra vita in fila per richiedere il modulo e fare domanda. Ne aveva scritto Burroughs: uno stato di polizia funzionante non ha bisogno della polizia (Il pasto nudo, Adelphi, 2006, pag.47). Oppure: a questa gente non bisognerebbe soltanto impedire di imparare a leggere, ma anche di imparare a parlare. Non c’è bisogno di impedirgli di pensare, c’ha già pensato la natura». (idem).
Ma attenti a fare troppo gli antitaliani, ecco le conseguenze:
Parlar male degli italiani è diventato nel corso del tempo un alibi per tutti: per i politici che regolarmente hanno fallito e disatteso le promesse, patologicamente inadatti a tradurre le parole in azioni, e le azioni in fatti; per gli imprenditori regolarmente sussidiati dallo Stato e pronti un attimo dopo, in nome di un libero mercato che non hanno mai frequentato, a sputare nel piatto in cui si sono pasciuti; per gli stessi intellettuali, sistematicamente incapaci di comprendere il Paese in cui vivono. Per tutti costoro – per tutti i loro fallimenti – la via d’uscita è sempre stata la stessa: non c’è niente da fare, gli italiani sono un disastro senza rimedio.
Si potrebbe sostenere che l’Italia è un disastro perché gli italiani sono convinti ormai da secoli di essere un disastro, e si sono sempre regolati di conseguenza. Quel che appare certo, è che l’autodenigrazione è l’ingrediente fondamentale, la pietra angolare del carattere degli italiani.
(…) L’antitaliano non contesta l’idea di Italia ma, al contrario, se ne considera l’unica incarnazione possibile: è lui l’italiano vero, e tutti gli altri vanno educati, redenti e in definitiva disprezzati. Quasi tutti gli intellettuali e gran parte della sinistra italiana si considerano antitaliani, e questa è senz’altro una ragione sufficiente per comprenderne il protratto fallimento.”
Essere antinazionalisti si, se sei Thomas Bernhard o Carmelo Bene. Loro hanno costruito monoliti contro la mediocrità di stato. Ci ho fatto dei Bengala interi.
Perché non esiste un italian dream?
Se devi realizzarti vai in America, in Inghilterra, in Australia, a Bruxelles. Ovunque. non ti viene di andare a Roma, a Caserta o Genova. Se pensi a qualsiasi città italiana come luogo per realizzarti professionalmente ti viene uno scompenso. Ti sembra sempre che ci sia quella tipica peste italiana che ingessa le energie di un luogo e lo rende scrigno maligno e malinconico e sabbia mobile.
Come mai siamo rimasti così indietro? Ecco il libro:
Proprio quando nasce una cultura europea, l’Italia si chiude nelle stanze in penombra dei collegi gesuitici.
La separazione degli intellettuali dal corpo vivo della nazione, e la loro sostanziale ininfluenza nell’Italia di oggi, nascono da questa arretratezza. Gli uomini di cultura da noi non contano nulla semplicemente perché, come tali, non esistono. La controprova viene dal dilagare dell’esterofilia provinciale, cioè di quell’abitudine ad abbeverarsi con entusiasmo a questo o a quel pensatore straniero, allestendo con regolarità un calendario di «scoperte» e di celebrazioni che sembra ubbidire più ai capricci della moda che al bisogno, tuttora acutissimo, di sprovincializzare la cultura italiana.
La verità è che il moderno, nella sua terribile complessità, ci è sempre stato estraneo: lo temiamo con l’ignoranza dell’ominide che nutre un sacro terrore per la folgore, oppure non riusciamo ad andare oltre la rimasticatura o l’imitazione.”
In quei due secoli e mezzo, fra la fine del Quattrocento e l’inizio del Settecento, in Europa prende forma la modernità: la scoperta dell’America, la scienza sperimentale, la Riforma protestante, il pensiero liberale, le due rivoluzioni inglesi, l’Illuminismo – e soprattutto, per il discorso che qui stiamo facendo, lo Stato moderno centralizzato e legittimato da regole condivise.
Da tutto ciò l’Italia è completamente tagliata fuori.
L’unico evento significativo occorso in Italia nei duecent’anni che hanno definito e costruito l’Occidente così come lo conosciamo oggi – e che evento! – è la Controriforma: che è anche, certo non per caso, la più articolata e feroce controffensiva che la modernità abbia mai dovuto affrontare, e che ancora oggi di tanto in tanto affronta.
Un pò di storia. Tutto quel pretame…
Una volta si andava alla messa. Adesso il rito è abolito. Si guarda il Papa alla tv. Tutto sto ragionare del Papa, sapere cosa pensa il Papa, preoccuparsi del Papa è forse quanto di più perverso ci sia. E lo dico da simpatizzante cattolico.
Tiro sempre in ballo Burroughs: «sta alla larga dalle chiese, figliolo. E non lasciare che si avvicini un prete quando stai morendo. L’unico posto di cui hanno la chiave è il merdaio. E giurami che non porterai mai un distintivo di poliziotto» (Burroughs, Strade Morte, Elliot, p.69).
L’Italia, per la presenza dello Stato pontificio e per l’assenza di una classe dirigente nazionale, era naturalmente destinata a diventare il quartier generale e l’arsenale meglio rifornito della Compagnia: e nessun popolo più del nostro s’impregnò di gesuitismo.
Il nostro Paese è un gigantesco Stato pontificio. Anziché liberarcene, con l’Unità d’Italia lo abbiamo nazionalizzato.
Dalla Roma dei papi abbiamo ereditato le due principali caratteristiche del nostro Paese, i due tumori maligni che l’hanno ridotto alla larva imbelle che è: la tenace convinzione che corruzione e inefficienza siano le sole modalità possibili della vita pubblica, e l’abitudine a baciare la pantofola di chiunque possa concederci un favore o un’assoluzione.
L’Europa di metà Ottocento è serenamente laica, e il papa è considerato una stravaganza: più o meno come apparve il Dalai Lama ai primi esploratori inglesi che proprio in quegli anni, colmi di meraviglia, scoprivano il Tibet.
Francesi e spagnoli, che pure erano e sono cattolici, hanno sempre tenuto a distanza il papa, come si fa con uno zio invadente e crapulone – e ancora oggi non lo prendono troppo sul serio.
L’Italia avrebbe potuto forse salvarsi, o per lo meno mantenere una parvenza di laicità, se avesse rinunciato a Roma, ai suoi colli fatali e ai suoi preti. La sopravvivenza di un’enclave teocratica nel centro della penisola avrebbe forse consentito agli italiani e ai loro governi di trattare la Chiesa per quello che effettivamente è: un’altra San Marino, pienamente sovrana sul suo territorio ma sostanzialmente inutile, e soprattutto inoffensiva al di fuori del suoi confini.”
estratto, si parla dei primi '90 in Italia
«Era un sistema che ormai suscitava ribrezzo: non c’era più un solo appalto che non dovesse sovvenzionare la politica in quote prestabilite, mentre alcune imprese potevano conoscere in anticipo i vincitori delle varie gare, in barba al libero mercato e in ossequio a un «cartello» che escludeva la concorrenza. I costi erano falsati e c’era un capitalismo – dirà l’economista Guido Rossi – «senza mercato». Maggioranze e opposizioni politiche fingevano di contrapporsi e conducevano un pubblico gioco delle parti, ma, dietro le quinte, diveniva solo complicità e spartizione degli affari. Spesso c’era un cassiere unico che ridistribuiva i soldi agli altri partiti dopo averli presi da un altro cassiere unico di parte imprenditoriale. A ben vedere, non si può dire che ci fosse un autentico racket malavitoso. Non è che i politici vessassero dei poveri industrialotti che faticavano a comprare un’Aston Martin per i loro figli: tra partiti e imprese, semmai, c’era una dinamica talmente oliata da rendere impossibile capire chi avesse il coltello dalla parte del manico. Gli imprenditori, infatti, ai primordi di Mani pulite, parleranno dapprima di ricatto dei politici, mentre i politici parleranno, viceversa, di pressante assedio degli imprenditori ansiosi di offrire: nell’insieme, il quadro illegale appariva come»
«la linea 3 della metropolitana milanese, per dire, era “costata 192 miliardi di lire a chilometro contro i 45 della metropolitana di Amburgo; il passante ferroviario milanese aveva previsto 100 miliardi a chilometro e dodici anni di lavori, mentre il passante di Zurigo fu terminato in sette anni, e ogni chilometro, di miliardi, ne era costati 50».
Poi sprazzi di lucidità: «I soldi, quindi, non finirono perché si finanziavano partiti o si organizzavano congressi o campagne contro il genocidio dei tibetani, né, tantomeno, perché si era comprata una Spider alla stagista di turno. I soldi finirono perché il debito e la crisi economica avevano fatto calare la spesa pubblica, e con essa i servizi, gli appalti e il giro di giostra».
«Il neonato 1990 era l’anno dei Mondiali italiani di calcio affidati all’inesperienza del quarantaduenne Luca Cordero di Montezemolo (prima partita l’8 giugno) e sarà anche l’anno in cui la compagnia telefonica Sip lancerà la prima rete mobile con i primi «telefonini» portatili, il Motorola Micro Tac e il Nokia Cityman. Costavano l’equivalente di 1.500/2.000 euro e a suo modo fu una rivoluzione anche quella. Quanto ai Mondiali, si spenderanno migliaia di miliardi di lire che corrisponderanno – spiegherà la Corte dei conti – a più del doppio di quanto era stato preventivato per opere e infrastrutture. I lavori per l’ampliamento dello stadio Meazza, a Milano, erano durati più di due anni ed erano costati 180 miliardi; quelli dello stadio di Barcellona li avevano terminati in diciotto mesi al costo di 45 miliardi. Ma non crollava il mondo, per queste cose, perché c’era di mezzo il calcio e soprattutto perché erano gli ultimi fuochi del celebrato benessere degli anni ottanta, quando il Pil era aumentato del 18 per cento e l’Italia aveva superato la Gran Bretagna divenendo la quinta nazione più ricca del mondo, dopo gli Stati Uniti, il Giappone, la Germania e la Francia. Erano classifiche un po’ così...».
Ho per le mani le centinaia di pagine di questo grande tomo di Facci che non si capisce cosa sia: un libro di storia, un grande romanzo elloryano sugli anni di Tangentopoli o tutte e due le cose assieme
Secondo me è destinato a diventare uno di quei libri iconici a metà tra Il paese mancato di Crainz e Mani Pulite di Gomez e Travaglio. Solo che è scritto meglio di tutti i precedenti perché a differenza loro Facci ha stile narrativo.
Fantastico.
Lasciate perdere ogni vostra considerazione sull'uomo, sulla sua presunta antipatia (a me sta simpatico ma poi quando mai è detto che uno per essere bravo debba starvi simpatico?) e affacciatevi alla lettura. È una sorta di Don Winsolw padano, senza morti, con dei morti vivi al posto delle vittime impersonati niente meno che da noi.
Ottima lettura.
"Conosci la terra dove fioriscono i limoni, dove le arance brillano come l'oro in un'oscurità frondosa..." Johann Wolfgang von Goethe, 1796
Ne avevo parlato su un vecchio Benga e di sicuro è uno stile che non mi appartiene però Sonata mi piace un sacco. Vi metto qualche foto.
dal sito di MACK:
SONATA è un ampio corpus di lavori fotografici realizzati da Aaron Schuman in Italia negli ultimi quattro anni. Anziché tentare di catturare e trasmettere una realtà oggettiva, queste immagini sono consapevolmente filtrate attraverso le molteplici idee, fascinazioni e fantasie associate al Paese e a ciò che ha rappresentato nell'immaginario degli innumerevoli viaggiatori che lo hanno visitato nel corso dei secoli. Traendo ispirazione dal Viaggio in Italia di Johann Wolfgang von Goethe (1786-1788), Schuman persegue e studia ciò che Goethe descrisse come "impressioni sensoriali", ribadendo molte delle domande introspettive che Goethe si pose durante i suoi viaggi in Italia: "Mettendo alla prova la mia capacità di osservazione, ho scoperto un nuovo interesse per la vita... Posso imparare a guardare le cose con occhi limpidi e freschi? Quanto posso comprendere in un solo sguardo? Si possono cancellare i solchi delle vecchie abitudini mentali?" Le immagini che ne risultano sono curiose, interrogative e di un'atmosfera ammaliante, e trasmettono la sensibilità di uno straniero per i dettagli, le stranezze e i misteri: crepe che si insinuano tra antiche statue e pareti di musei, sentieri modellati e calpestati nel corso dei millenni, gli occhi penetranti e la presenza incombente di santi e dei tutt'intorno, accumuli di polvere, ossa, luce solare e monetine portafortuna. Utilizzando la classica forma sonata – tre movimenti che si muovono attraverso esposizione, sviluppo e ricapitolazione – come guida, Schuman ci invita a esplorare un'Italia tanto mentale quanto mondiale: un'Italia immersa nell'euforia e nel terrore, nell'armonia e nella dissonanza delle sue eredità culturali e storiche, eppure costantemente nuova, rinvigorente e risonante nelle sue suggestioni sensoriali e psicologiche.
Ok è tutto. Ci vediamo la settimana prossima. In fondo a Bengala troverete sempre e soltanto una frase di Charles Bukowski. Sappiatelo.
Definitivamente il mio Substack Preferito!