BENGALA #166 - E festeggiare il presente? No?
contro il 1 maggio - Small Town - Il ragazzo morto e le comete - Cagnaccio il partigiano - poliziotto fotgrafo - GKN
“Chi se li ricorda, i tempi
di un tempo che fu, remoto, inaccessibile,
che compare, ogni tanto, in sogno, per chi sogna,
ancora.
Ma nessuno più sogna, credimi,
e questo è per voi, che venite di lontano,
l’ostacolo più grande: resistere
al sonno che vi invade, e annienta
la mente che ragiona. Dai sonni, lunghi e ramosi,
discendono i popoli dei sogni, che vi si appiccicano addosso,
come ragne liquorose nella cella
della mente.
Ma nessuno più sogna, qui, dal tempo
dei tempi che furono, e chi ci arriva, come voi, di lontano,
si abitua a non farne,
e così diviene simile a noi, ombra
come tutti”.
Giancarlo Pontiggia
Ciao Amico/a (non ə, quel segno grafico non lo reggo)
È quel momento dell’anno, quello della passione politica infranta, del festeggiamento coatto dei giusti, della seduta spiritica e del rituale passatista.
Amo la Resistenza e sono orgoglioso che l’abbiamo avuta; i tedeschi non l’hanno fatta, noi si. Mi leggo La pelle di Malaparte e godo. Napoli non l’hanno liberata gli americani, son stati i cittadini. Non ho bisogno di scrivere ora e sempre Resistenza sui social, anzi mi vergognerei tantissimo a farlo, mi sentirei così finto, un mendicante di like. Se un giorno dovessi mai farlo, mandatemi affanculo. Idem se comincio a postare roba su Gaza, guerre e cause umanitarie sul fottuto Instagram: il social delle tipe con le puppe di fuori e dei coglioni che sventolano i soldi. Ci sto anche io lì sopra e faccio la scimmia ammaestrata come tutti in cerca di consenso e visibilità. Provo a metterci dignità ma non so se ci riesco.
Non prendiamoci in giro, siamo tutti miserabili.
Detto questo vorrei nel calendario anche delle feste nuove, legate al presente.
Il presente è così privo di celebrazioni, di gaudio, di ritualità che non siano lo scudetto o la notte rosa e il gay pride (quest’ultimo ormai va scemando nell’interesse collettivo dopo lo sprint iniziale di carica eversiva, ridotto ormai a eventone dei brand per propinare artisti senza Arte, mangiare qualche pasticca e rimediare una chiavata tra la folla).
Ma il primo maggio è ancora più amaro del 25 aprile, perché il lavoro si che è il cancro di questo paese morto! Il lavoro è la prima inculata, tocca solo a chi nasce povero e quasi mai serve per evolversi socialmente, ma solo per diventare un indottrinato pagatore di tasse.
Lavora solo chi è costretto; quasi mai il lavoro nobilita l’uomo ma lo snerva, lo usa, lo rimpicciolisce. I ricchi di lavoro non fanno un cazzo, amministrano beni di famiglia, investono soldi fatti dai loro avi, incassano affitti di immobili e vivono di rendita. Giustamente, i ricchi non vanno a lavorare. Sono mica scemi! Fossi ricco farei lo stesso.
Si ok, si svegliano al mattino, fanno cose, sono stressati devono andare a yoga e dallo psicologo, ma non è come il nostro lavorare. Porcocane i ricchi non hanno problemi a fare un weekend a Ibiza.
I ricchi sono un’altra categoria; gente che non a caso sventola barche e bandiere della pace, capitali, milioni di views, accordi commerciali, ideali, carriere brillanti, incarichi. I ricchi si sposano tra loro. Difendono il loro privilegio, il loro terrore è la povertà (vedetevi l’ultima stagione di The White Lotus).
L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro. Si, degli stronzi come noi. A scapito nostro.
Il primo maggio dovremmo andare a crocefiggerci al ministero per il lavoro malpagato, precario e svilente; dovremmo far saltare qualche dente, invece secondo qualche pezzo di merda del sindacato, qualcuno a cui la merda deve aver occluso le sinapsi cerebrali, dovremmo essere grati per i concerti con Leo Gassman che canta Bella Ciao, Arisa, Elodie e Big Mama (leggetevi la bella critica che gli fa (Gennaro Marco Duello su Instagram). Come dice Profeta in una telefonata di pomeriggio: l’Italia non esiste.
Guardo il panorama dal finestrino di ritorno sull’A1 e c’è un bel sole, mi rende quieto. Che cazzomenefregammé? Basta non filarsi gli ideologi di Instagram, non leggere Rivistastudio, non seguirei trend per stare bene. Fatemi un bocchino. Sono povero ma eterno, viro sulle alte vette, sto rileggendo Goffredo Parise, le poesie di Ferrari sul Macello, Ultras di Lamberto Ciabatti e Donnaregina di Teresa Ciabatti e scrivo poesie. Poesie che la Carnaroli non mi lega le scarpe, ma davvero.
Dico queste cose in memoria dell’ormai totalmente anacronistico concerto del primo maggio, detto anche concertone. Un grosso imbarazzo per tutti, direi. Incommentabile. Il fu trampolino di lancio di una fetta dell’industria culturale, il Woodstock di Repubblica, rispetto agli anni ‘90 in cui era il tripudio dei rastoni e del centro sociale Arci, tutto un NON CI AVRETE MAI COME VOLETE VOI oggi ce l’ha fatta! E non conta più niente per il pubblico che ci va solo perché è uno dei pochi eventi di piazza gratis rimasto. Il concertone È l’evento brandizzato delle case discografiche impegnate (cioè al banco dei pegni); sul palco gli ideologi da social, fighi e pieni di like che ce la menano con cause umanitarie distantissime da loro solo per avere consenso. Perfetto, sponsorizzato da Unipol, Intesa San Paolo e Eniplenitude (ahahahaha il Diavolo è spietato sull’humor, L’ENIIIII), è un’altro degli altari di consacrazione dei rappresentanti morali della cultura. I buoni! Devono essere pieni di messaggi e buoni, perché di accativante o di interessante non hanno mica nulla. Oltre al salotto di Fazio, all’ospitata da Gramello, allo studio di Riserva Indiana etc…
Se la sinistra è un cadavere, il concertone è necrofilia, Elly Schlein il Mostro di Firenze.
Dio**** ogni volta che Elly apre bocca un chiodo si pianta nel costato di Cristo re. Il Duce risorge, Berlinguer rimuore, Pasolini esplode, Aldo Moro schioda nella bauliera Renault, le BR si riformano, Mishima si riammazza, La Russa gli cresce il cazzo di un cm, Berlusconi lo amiamo come il nostro nonnino. Pure Razzi sembra auspicabile più di Elly. Fine parentesi.
Ogni anno, il primo maggio, la sinistra si autoinfligge un danno d’immagine peggio dell’anno prima e con essa tutte le sue cause, dall’antifascismo ai diritti di genere etc.
Perché una persona dotata di buon senso sente il puzzo di merda a un metro di distanza e dice: io con questa roba non ci voglio avere niente a che fare. Meglio apolitico/destrorso/complottista/fintofascio che de sinistra! Questo pensa la gente. Giuro. Me lo dicono.
La cultura italiana è stata rappresentata per decenni nell’editoria, nelle istituzioni, nei musei, negli enti pubblici, nelle piccole mostre, dalla sinistra. Infatti i danni sono incalcolabili. Non perché la destra non ne abbia fatti ma perché la gente di sinistra, una volta in posizioni strategiche decisionali, la dove doveva avvallare concessioni, bandi, appalti, spazi, tradiva il suo popolo: i deboli, gli ultimi, i sognatori. Che dei politici potessero avvallare mostre brutte, piccole cricche di poeti sfigati, amichettismi, ce lo aspettavamo tutti da quei berciatori di destra e dagli ex fasci. Che cazzo ne sapevano loro di cultura?
Ma dai difensori del giusto et coltissimi ex PCI, editori, viaggiatotri nel Chiapas, tesserati ANPI, magliettati Cheghevara, professori di filosofia marxisti col loden, sindaci, dissidenti, organizzatori di eventi, scrittori impegnati… no! Beh, questa gente in massa ha usato il potere culturale per un upgrade sociale. Peccato sia inutile, rimarrete sempre e solo dei poveri? Comunistiiii. Silvio ha consacrato l’anatema.
Però dei pezzettini di potere se li sono presi.
A livello di marketing, la cultura è ancora de sinistra, da Zoro a Massini, da Valerio a Scurati. Quando vedete quella gente inspiegabile, negata, come i due sopra che ha un programma in tv dovete ammettere: ce l’hanno fatta. Hanno occupato un loro settore di mercato. Si sono posizionati. Hanno messo in piedi un efficace circolino. Se vuoi esistere sui giornali come autore, scrittore, attore, fotografo, devi farne parte. O sei in quota Valerio, o sei in quota Gramello, o sei in quota Fazio, o in quota Zoro o in quota Repubblica etc. Insomma uno sponsor lo devi avere. Mica può essere che ti scopre un giornale, o un programma tv.
I giovani i giovani i giovani, i giovani sono importanti stocazzo. Faccelo entrare un giovane in pagina sul Corriere della Sera a meno che non sia virale, instagrammabile, condensabile in un titolo che si dimentica poche ore dopo. O che non abbia l’endometriosi, la depressione, qualche storia di disagio, la malattia mentale etc. Oggi se nascessero i Ramones in Italia non se li inculerebbe nessun giornale. Quelli vogliono Bebe Vio in copertina. Jova Beach Cazzi!
Le redazioni sono piccoli lager in cui degli impiegati della parola, devono smistare comunicati stampa, far contento l’editore che fa i bocchini al cliente. Perché mai un quotidiano dovrebbe parlarvi di Small Town portraits di Diddeen (è una sorpresina che vi faccio io oggi)? Devono promuovere l’ultimo di Piperno! Zerocalcare! Di Marcello Veneziani si parla solo sui giornali de destra, idem per tutti gli altri che non sono allineati al credo di Rai3, di Farenheit etc.
I giornali, che avrebbero ampi mezzi per fare questo lavoro, non lo fanno. I giornalisti sono impegnati a tessere rapporti con editori, enti, premi e a lisciare il pelo a scrittori futuri famosi con cui poi vantare un selfie, una prefazione, una presentazione. I giornalisti sono tipo Andrea Laffranchi del Corriere o Luzzato Fegiz. Selfie con la star e lisciature di pelo! Ogni tanto si trovano delle eccezioni, alcune pagine de Il Foglio, di Domani, Alias, Dagospia, l’inserto culturale de Il Giornale curato da Gnocchi, i pezzi di Mascheroni, molte cose che scrive Langone e via dicendo, ma di solito il modello è La Lettura. Mui Mal.
Non si stronca più perché se parli male di un prodotto artistico parli male del suo autore. è u non-like e in questo modello di società è inaccettabile.
Non si dice più quello che si pensa per paura di rovinarsi i rapporti. Tipo quella fava di Massimo Coppola ha fatto una scenata in un brutto podcast (ps: i podcast fanno TUTTI cagare) ma nessuno gli ha fatto notare che l’ha fatta solo perché aveva un signor nessuno davanti. Come dice la Soncini, Coppola è famoso solo per non aver pagato la gente di ISBN. Inutile che fai l’antifascista, non ci crede nessuno. Da Fazio saresti stato zitto, Coppola! E quelli che lo difendono, stanno tutti a Milano e un giorno sperano di lavorarci assieme (perché poi, se quello è famoso per non pagare? Perché faffigo!).
Il nepotismo è di sinistra come di destra. E per tutti noi millennials colti il posto ideale non è nel cda di un’anzienda, ma in quei lavori romantici tipo l’inviato! L’insider politico!
Tipo io leggevo Salvatore Merlo sul Foglio e mi piaceva abbastanza. Quando ho scoperto che è il nipote di Merlo mi è presa un pò male. Non che non sia bravo eh, però ti puzza sempre un pò sta roba qui, no? Cioè è già vicedirettore de Il Foglio alla mia età!
Guardavo le foto nello studio ovale di un giovane Bechis e ho pensato: wow questo è bono e pure giovane e guarda che roba! Fa le domande a Trump! Ah ma cazzo! è figlio di Bechis padre. Maddalena Crepet esordisce con Mondadori, Il figlio di Gad Lerner pare sia un genio ma non ho mai letto niente di suo ma è del ‘92 ha un programma su Radio3, si è laureato alla Columbia, pubblica con Piemme. C’è la fila di sta roba in Italia dove vai a coprire delle cariche spesso in base al tuo cognome. Federico Vespa, ha appena pubblicato il suo libro sulla depressione. È dell’87, su Wikipedia dice: «È il primo dei due figli del giornalista Bruno Vespa. Inizia la sua carriera giornalistica nel marzo 2002, collaborando con il quotidiano sportivo La Gazzetta dello Sport e commenta le partite casalinghe della Roma per l'emittente radiofonica Radio 101 One o One. (Inizi direi quantomeno alti, che di solito sono dei punti d’arrivo per la gente comune ma se sei figlio di allora sono inizi). (…) Dal marzo 2007 al giugno 2020, con suo padre, ha condotto Non Stop News Raccontami, approfondimento settimanale in onda su RTL 102.5 il venerdì mattina dalle 8:00 alle 9:00».
Poi Bruno dice: «lavorerebbe di più con uno pseudonimo»… mah.

Dice rosichi: non tantissimo, lo so come va il mondo! Mica sto lì a menarla, però un pò mi sdubbia.
Io manco se mi presento di persona a un assessorato o a un ente pubblico mi si filano. Manco se glielo succhio in ginocchio mi degnano. Eppure qualcosina ho fatto. Ma non basta. Non sono del giro. Perché sono una fava! Potevo esserci, bastava leccare qualche altro culo, lisciare le persone giuste, uscire con tizio e caio, presenziare. Mavaffanculo, domani si schiatta tutti. Non c’è tempo per sta roba.
Ma non sono i figli d’arte il problema. Sinceramente se mio padre fosse Gad Lerner io non mi farei nessuno scrupolo a fare il giornalista di successo. È una bella vita!
Il vero danno lo fanno quelli venuti dal nulla che si sono affermati perché stabilivano un nuovo standard di mediocrità e adesso ce li troviamo ovunque. Ale Cattelan, Coppola, Pif, Massini su tutti.
Massini il male supremo, è riuscito a scalfire Cattelan perché Cattelan è innocuo, è il niente! Massini invece cazzo fa danni. Ogni volta che recita fa un danno al teatro, ogni volta che parla fa sballare il retoricometro. E gli affidano incarichi della madonna, progettoni, cultura. Nato sul palco del Primo Maggio, rilanciato su La7, ora con Nazione Indiana ogni sera ce lo troviamo a cena a casa.
E non perché è serio ma perché è serioso. Intervista gli altri non facendoli parlare, usando tutto per parlare di sè. Un’ego spaventoso e una noia abissale per chi lo deve stare a sentire. Uno che ti viene solo da bullizzarlo.
Niente, mi è presa la mano. Si fa per ruzzare, dai. Coppola, Massini, lo so che tutti vi vogliono baciare il culo, spero quindi che sia tollerabile un’unica flebile critica di un rancoroso provinciale sfigato come me.
E poi questa newsletter da cinque anni tira bastonate e consiglia libri che nessuno mai. Un unicum.
Quindi ora passo a fare lo spaccino di robe ganze.
Iscrivitevi. Hasta siempre motherfuckers. Cazzoduro.
Mi piacciono le storie dei marginali, ne ho già parlato nel numero dedicato al libro bellissimo di Davide Bregola, ma in questo caso mi vengono in mente due fotografi. Oltre ai celebri casi tipo Vivian Maier, ogni tanto si scovano delle perle.
Chiaramente non ho scoperto Small Town Portraits (Murmur Books, 2020, 49 euro) di Dennis Diddeen su Robinson o La Lettura, ma sul sito di Setantabooks.
Diddeen era un barman irlandese che negli anni ‘50 aveva montato una piccola camera oscura sul retro del pub e per decenni ha fotografato i clienti e la gente del posto.
Risultato? Eccolo…

Da FotoRoom
Dennis era proprietario di un pub e fotografo nella cittadina di Macroom, nella contea di Cork, in Irlanda. Gestiva il Dinneen's Bar , che ospitava anche il suo piccolo studio fotografico e la sua camera oscura, che operava sotto il nome di Macroom Photographic Service , dove scattava fototessere e ritratti per la gente del posto. Fuori dallo studio, si occupava di tutto: matrimoni, eventi sportivi, pantomime, cerimonie religiose, premiazioni e persino scene del crimine documentate per la polizia locale.
Come hai scoperto il lavoro di Dinneen e perché ritieni sia importante che venga visto da più persone?
Mi sono imbattuto in quest'opera circa 15 anni fa. Ho vissuto a Macroom dal 1995 al 2011 e la famiglia Dinneen gestiva ancora il bar. Le pareti sono ricoperte dalle immagini di Dennis che ritraggono personaggi, eventi, paesaggi locali, ecc. e le ho sempre trovate molto interessanti.
Nel 2011 un fotografo locale, Seán Mac Suibhne, ha prodotto un libro di oltre 500 immagini del lavoro di Dinneen per beneficenza. È una fantastica raccolta di immagini locali che ha avuto un enorme successo nella zona. Dopo aver visto il libro, sono diventato curioso di saperne di più. Nel 2013 ho chiesto alla famiglia se potevo dare un'occhiata ai negativi. Una volta iniziato a guardare, sono rimasto sbalordito da una serie di immagini . C'erano fotografie che non avevo visto né nel libro né sulle pareti del bar: il nuovo lavoro che stavo scoprendo, per me, era molto più interessante del resto. Ne sono rimasto subito affascinato. Sentivo che c'era molto di più di Dennis Dinneen che meritava di essere visto al di fuori di Macroom e dell'Irlanda.

Cito da questo sito:
Dal 1948 al 1990 Arnold Odermatt è stato fotografo al servizio della Polizia cantonale di Nidvaldo per rilievi fotografici. La fotografia era per lui lo strumento per l'acquisizione di prove. Dopo il pensionamento, suo figlio, il direttore Urs Odermatt, scoprì le spettacolari immagini fotografiche nella soffitta dell'appartamento dei genitori. Una selezione delle foto di incidenti stradali fu mostrata alla Biennale di Venezia nel 2001 e subito la sua opera acquisì fama mondiale.
Le foto di incidenti di Odermatt sono ben più di semplice fotografia documentaria, riflettono infatti con fredda precisione tutto il caos connesso all'incidente. Tuttavia l'osservatore rimane affascinato dall'estetica del momento – non senza provare un brivido di raccapriccio. Il curatore dell'esposizione Harald Szeemann presentò a Venezia la serie di immagini di incidenti di Arnold Odermatt con il titolo Karambolage («Carambolata»), definendole «moderni paesaggi romantici con incidente». Odermatt, effettivamente, non riprendeva solo l'incidente come tale, ma anche il teatrale cielo nuvoloso, il panorama alpino ricoperto di nebbia e i curiosi in arrivo. Era molto attento a fissare con esattezza ogni particolare, dato che per ragioni di costi era possibile effettuare una sola ripresa per incidente con la sua macchina fotografica Rolleiflex. Delle dieci fotografie in possesso della Mobiliare, soprattutto una è rilevante: Hergiswil, 1961. Il 2 agosto 1961 Odermatt dovette rilevare le circostanze del più terribile incidente automobilistico mai avvenuto fino ad allora sulle strade svizzere. Un autobus cadde e affondò nel Lago dei Quattro Cantoni, costando la vita a 16 turisti.
Ad Arnold Odermatt non sarebbe mai venuto in mente, come capo della Polizia stradale, di assurgere a fama internazionale come documentarista dei drammi della vita e delle piccole città svizzere. Nel suo libro In zivil («In civile») presenta momenti autobiografici dall'album di famiglia – e nel volume Feierabend («Dopo il lavoro») note sulla vita quotidiana locale. Infatti Odermatt, mentre fotografava come poliziotto cantonale, fotografava anche come padre di famiglia, cronista del paese e ritrattista del mondo delle associazioni.
Arnold Odermatt è nato a Oberdorf/Nidvaldo (Svizzera) nel 1925, vive a Stans (Svizzera).
Come dicevo sto leggendo Parise, che ho scoperto tardi. Purtroppo.
Gli anni della guerra e di una città spettrale, forse Venezia, sono raccontati dalle voci sullo sfondo di Squerlos che vive in cantina con un barbagianni, Fiore, Massimino con gli occhi disegnati perché è morto.
L’ho letto due volte di fila, in poche ore. Avevo bisogno di capirlo davvero.
La magia aleggia nel silenzio. Le comparse sono protagoniste. La guerra non è quasi mai nominata ma ancora è in corso e si capisce solo in sporadici momenti.
Cito Perrella: «Vede bene Geno Pampaloni quando scrive che “mentre i neorealisti di tipo espressionista si accanivano a denunciare una società in rovina, gridando, sul fondo, l’avvento, di necessità retorico, di un mondo nuovo, il Parise trovava la forza di dare l’estremo addio ad ogni immagine di speranza, e trascinava in questo addio l’incanto della sua adolescenza su cui la guerra era caduta come una mannaia inesorabile”».
La guerra non minaccia tuttavia la voglia di vivere, la sensualità dei cimiteri, la volontà di un quindicenne di scoprire il sesso.
Parise scrive questo libro a vent’anni. Non ho quasi altro da aggiungere.
Ecco Il ragazzo morto e le comete, Adelphi.
Se dovessi illustralo con le immagini, sceglierei le foto di Barbey, in mostra prolungata fino al 18 maggio a Pordenone, assieme a Italo Zanner.
«In queste case antiche, con gli scuri che penzolano da anni dove i vetri sono stati sostituiti con pezzi di lamiera e carte da parati, abitano zitelle, famiglie di fruttivendoli ambulanti e di vecchi orologiai, un sarto con grandi scarpe ortopediche, un fotografo-ceramista e Antoine. Il ragazzo di quindici anni abitava non lontano da quel luogo quando aveva sette anni e viveva nella custodia di biciclette assieme al nonno che è morto»
Sembra lo spettro del paese in cui vivo, dove dalla Pappinella, il bar mezzo abusivo costruito nella casa del proprietario, si vendono ancora sigarette sfuse e un’anziana con la stampella manda spergiuri ai passanti.
«Occhio di Nuvola, oltre a vendere giornali e a essere guardia di finanza, fabbricava sigarette false che vendeva in giro nei paesi; poi diventava fruttivendolo in tempo di fiera e mezzano quando gli si presentavano i clienti».
Non c’è posto per la retorica, laddove risiede la saggezza popolare, i modi di dire, le voci di paese.
«Diceva sempre: «Piova e sole, il diavolo si pettina». D’estate, dopo un temporale, continuava a ripeterlo. Ma quando io andrò da lui, allora, non lo dirà»
Ci siamo spaventati per un blackout e siamo tutti così idealisti. Chissà cosa faremmo noi in caso di guerra, se saremmo tutti partigiani, oppure fuggitivi nei boschi in cerca di riparo.
Altro che studiare! Ecco quello che facevamo. Studiavano i paurosi, quelli che avevano paura delle bombe e si erano rifugiati in campagna. Noi eravamo rimasti e così la città era nostra. Altri ragazzi non c’erano perché alla sera tutti partivano e andavano in campagna a dormire in mezzo alle mucche; una sera ci andammo anche noi ma non fu possibile dormire a causa delle bestie che ci sbattevano la coda sulla faccia.
«Peccato che proprio in quella notte bombardassero la città mentre noi eravamo fuori; non avevamo mai perduto un bombardamento e lo spettacolo degli scoppi e delle colonne di fumo che salivano nel cielo arroventato ci diede la malinconia e ci guastò il sonno».
«Dio è morto da un mucchio di anni e non ci ha lasciato in eredità che minacce e terrori. Le case sono andate in polvere, la gente è saltata in aria, lo hai visto anche tu, è stata una grande paura; ma a me non importa niente. Io vado in pallone, per conto mio so come salvarmi. Lascia andare, Fiore, la realtà è quella che è, fatta di tante cose! Non vale la pena di pensarci. Pensa piuttosto a te stesso, a farti bello e a non guardare più nessuno. Ormai soltanto l’assurdo è la speranza, l’estrema salvezza».
«Nei giorni di festa questa città è deserta; per le strade s’incontrano biciclette che scompaiono subito verso il lago, automobili antiche di gente di campagna che viene al cinema e gruppi di orfanelli inebetiti, con la testa rapata, che guardano com’è fatto il mondo. Il sole e il cielo, invece di muoversi nel modo consueto, stanno immobili ad aspettare che la gente esca dalle funzioni».
«Per essere come sono io bisogna fare tante sciocchezze; parlare con grazia, essere belli e deboli, essere derisi e fischiati, e nello stesso tempo godere di tutte queste cose; a me dispiacevano, ma le facevo ugualmente; andavo dietro agli altri, con il rossetto e il profumo. Quando tornavo a casa pensavo a tante cose. Ho scritto perfino poesie, per un po’ di tempo ho creduto di essere un poeta, ma anche questa idea se n’è andata in fretta com’era venuta. Ho scritto ad alcune donne; lettere piene d’amore, perché devo dirti che sono stato innamorato di qualche donna; tuttavia non le ho spedite, non ne valeva la pena».
Lo spiegava bene Staglianò in Hanno vinto i ricchi, gli scioperi di un giorno non hanno senso. Serve lo sciopero a oltranza, l’occupazione. In un disastro totale che è l’Italia il caso GKN sembra una piacevole mosca bianca.
Da Domani:
L’ex Fiat è stata spostata da Firenze nord a Campi Bisenzio nel 1993, per permettere un’enorme operazione immobiliare nell’area. A Campi Bisenzio la Fiat è diventata Gkn, continuando però a produrre l’85 per cento dei semiassi Fiat. Nel 2018 – storia recente – il gruppo Gkn è stato infine venduto al fondo finanziario Melrose, motto “compra, migliora, vendi”. Infatti il 9 luglio 2021 lo stabilimento Gkn di Campi Bisenzio è stato chiuso da un giorno all’altro, con una mail, a poche ore dall’uscita dell’ultimo pezzo: i 422 dipendenti destinati a restare senza lavoro.
Al posto di rassegnarsi, però, l’intera comunità, le organizzazioni sindacali e il collettivo operaio si sono coalizzati e hanno sconfitto i licenziamenti. Ne è nata anche una proposta di norma antidelocalizzazioni. La fabbrica dal dicembre 2021 è venduta, ma il lavoro non è tornato: decine di tavoli istituzionali, di promesse, di presunte svolte, con l’effetto di “ipnotizzare” l’opinione pubblica.
Nell’ottobre 2023 la nuova proprietà ha riavviato i licenziamenti. Sono stati di nuovo sconfitti: il tribunale del lavoro ha sanzionato per la seconda volta la condotta antisindacale. Eppure gli operai, in assemblea permanente, sono stati lasciati in un limbo: senza proposte, stipendio, lavoro. Con il sospetto che si tratti dell’ennesima operazione di speculazione immobiliare sulla chiusura di una fabbrica.
di Cava31 alias Andrea Cavalleri
Non c’è niente di più retorico della retorica antifascista. Bella Ciao suonata il 25 aprile in piazza da Manu Chao in un tripudio di foulard verdi mentre il partigiano compagno Gualazzi Ugo, nome di battaglia Prezzemolo, ad anni 102 biascica di giustizia, pace e libertà su di un palchetto in mezzo ad una piccola folla di autonomi rollanti. Ma questa è solo la parte tenera e imbarazzante della storia, perché poi ci sono i professionisti dell’antifascismo, ed è lì che braccia e palle cadono per terra e rimbalzano. Vecchi squali da Buvette del Senato, direttori di giornaloni, giovani leoni della nuova nuovissima politica e ras dell’intellighènzia social che cavalcano tendenze, dirigono dibattiti, mettono e tolgono castagne dal fuoco dell’eterna polemica tra fasci e partigiani. Siamo condannati al brain rot quindi? Forse, ma si può scartare di lato, tornare indietro e ricordare uno che antifascista è stato davvero, ma in modo figo. Ed era pure un signor artista: Natalino Bentivoglio Scarpa, detto Cagnaccio di San Pietro.
Natalino ha ventitré anni ed è in cerca di una strada. È un artista autodidatta con scarse esperienze accademiche. Reduce della Prima guerra mondiale, sul Piave ha perfino incontrato Filippo Tommaso Marinetti e ha avuto una sbandata per il Futurismo, ma poi ha deciso che quel movimento non è roba per lui: provinciale, selvatico e troppo abituato a dar retta solo al suo istinto, preferisce rimanere a dipingere fuori dal mondo, a San Pietro in Volta. E vuole sviluppare uno stile personale, lontano dai dogmi futuristi. Dopo i primi quadri firmati “Scarpaccio” e “Cagnaccio Scarpa”, decide che “Cagnaccio di San Pietro” sarà il suo alias definitivo. E nel 1920 la strada viene tracciata: “La tempesta” è il capolavoro che prelude al realismo magico che ne caratterizzerà tutta l’opera.
Cagnaccio è affascinato dalle prostitute, alle quali dedica una trilogia tematica: Primo denaro, Zoologia e Dopo l’orgia. Sono opere di potente realismo e molto spinte per i tempi: a fare da modella per i corpi magri e tormentati delle donne protagoniste del trittico è una giovane prostituta che Cagnaccio accoglie in casa. In Dopo l’orgia l’artista decide di provocare il regime fascista evocando il protagonista maschile (assente dal quadro) con bombetta, guanti bianchi e un polsino che riporta un gemello con disegnato un fascio littorio, in seguito ritoccato. L’opera, considerata uno dei capolavori di Cagnaccio, viene rifiutata dalla giuria della Biennale di Venezia del 1928, presieduta da Margherita Sarfatti, amante di Mussolini e protagonista assoluta della vita culturale del Ventennio.
Il 15 giugno Hitler, nel corso di una visita di tre giorni al Duce, si fa accompagnare da un gruppo di gerarchi a visitare la diciannovesima edizione della Biennale. Davanti a “Il randagio”, il Führer esita, si ferma e fissa a lungo l’immagina del giovane mendicante veneziano. Un cenno ai suoi uomini. Adolf Hitler vuole comprare l’opera di Natalino Scarpa. Il Cagnaccio non crede ai suoi occhi. Recalcitra, subito rifiuta inventando di essere fortemente indebitato e di non poter vendere il quadro perché gravato da ipoteca. Ma poi gli argomenti del gruppo devono essere convincenti, perché l’artista cede.
Dorsoduro, 1943
Refrattario ad unirsi a qualunque gruppo, movimento o consorteria, Cagnaccio rifiuta più volte la tessera del partito fascista. Il suo dissenso al regime lo porta ad azioni coraggiose: durante la resistenza nasconde per mesi nella sua casa in Calle dello Zucchero due partigiani ricercati da polizia e SS: i fratelli Armando e Danilo Gavagnin. Successivamente, ospiterà anche un altro antifascista ricercato, Gigetto Tito, figlio del suo maestro Ettore.
Venezia, 1946
Dolore, povertà e malattia. Questo sono gli ultimi anni di Cagnaccio. Sofferente da anni di ulcera, prova prima a porre rimedio con due operazioni chirurgiche, e poi con l’abuso di droghe: laudano, morfina ed eroina che lo costringono a lunghi periodi in ospedale per curarsi e disintossicarsi. Gli ultimi lavori, numerosi nonostante la malattia, sono ancora potenti e virano verso la spiritualità. Natalino Bentivoglio Scarpa detto Cagnaccio di San Pietro muore a quarantanove anni il 29 maggio 1946.
Dal 12 aprile al 31 agosto Cagnaccio è il protagonista, assieme a Pyke Koch, della mostra Realismi Magici al MART di Rovereto.

Auroro Borealo è un generoso e dona al mondo uno storico live de Il Culo di Mario in occasione del compleanno di Alessandro Mannucci. Gli avevo dedicato un Bengala a questo splendido duo. Lo trovate qui sotto. Intanto, al posto del concertone, sparatevi questo concertino tutto stonato, scassato, lofi. Vero.
Ok è tutto. Ci vediamo la settimana prossima. In fondo a Bengala troverete sempre e soltanto una frase di Charles Bukowski. Sappiatelo.
Splendida