BENGALA #157 (reissue) - IL FUORI ONDA DELL'ESISTENZA
ne rimarrà soltanto uno: speciale Thomas Bernhard - Moana e Schicchi - McCarthy - Giorgio Falco - Arnulf Rainer - Beware of Dog
Sono troppo sotto col lavoro. Questa settimana ripropongo un vecchio Bengala su Bernhard che per il solstizio d’estate è l’ideale. A voi.
«I paroloni e le frasi altisonanti io li ho sempre presi per quello che sono: manifestazioni di incompetenza alle quali non bisogna far caso».
Thomas Bernhard, La cantina, Adelphi
Gira e attecchisce per il mondo un nuovo piglio comportamentale, un’ignorantismo roboante, caciarone, smargiasso, pigliatutto. Se è la prepotenza il punto di forza dei dominanti, questa è per loro una nuova era dell’oro. La De Crescenzo al Tg1 è questo.
Che siano affaristi miliardari, che siano creator di TikTok, il mondo è di che se lo prende, a costo pure di saccheggiarlo. Questo assalto è praticato ogni giorno e subito dalle classi subalterne: i timidi.
Tanto tutta la storia del potere è una storia di prepotenza. Anche quello mediatico. La televisione ce lo insegna, i social pure, il dibattito pubblico anche. Ma d’altro canto non si sono visti tanti poteri miti.
Adesso è l’era del potere dei numeri che per ottenerli devi far casino, essere virale, essere un pò leggero, non durare più di un reel. E mi sta bene.
Mi devasta invece che anche nel mondo della cultura ormai sia così.
La cultura è come la sinistra: devastata per decenni da un mondo di professori noiosi e salvata ogni tanto da qualche giovane, una mosca bianca, che ribaltava tutto e portava talvolta allegria (scapigliati, beatnick, cannibali, Pazienza, Bene, Ramones etc). A causa della pesantezza degli assessorati, dell’arte statale, delle piccole realtà e delle solite mosse senza rischi delle grandi città, la cultura è oggi un settore di marketing come la cosmesi, le piante, l’arredamento. Booktok è quello di cui si parla sulle pagine culturali dei quotidiani. Ci sono tanti ottimi artisti, scrittori, musicisti, poeti, pittori, artisti digitali, grafici, Per carità c’è tanto del buono, ma di loro si parla quasi mai. Il settore è infestato da prodotti di massa creati per il mercato.
Io sogno una Woodstock della cultura senza sponsor, senza Salone, senza Strega. Se dovessi credere in un messia lo incontrerei in un festival di tre giorni da qualche parte pieno di tipi strambi e interessanti. Che non se la menano, che non me la menano, che fanno libri dischi quadri perché ci godono.
Tarantino, Aphex Twin, Cyndy Sherman, Vivian Maier, Lisetta Carmi, Giorgio Moroder, Palahniuk, Bret Easton Ellis, Fincher, Cronenberg, Lynch, Pazienza non si sono messi a fare quello che facevano sapendo che sarebbero arrivati al successo economico. Sapevano di aver trovato un filone d’oro dentro se stessi e hanno scavato. Poteva andar loro bene come no. È andata meglio a noi che a loro che li abbiamo trovati.
Tra qualche anno i colti potrebbero essere assunti dai nuovi ricchi solo perché il sapere è tornato un trend ma adesso non lo è. Adesso l’unico trend è il denaro, il successo. Lo è sempre stato ma prima la cultura lo vedeva come uno status volgare. Fino a che la cultura in Italia è stata di sinistra era giusto essere ultimi e poveri come i cantautori, la Merini, Bukowski, anzi era quello il marchio di fabbrica della credibilità, non eri finito a leccare il culo a un editore o a un magnate, te spaccavi perché eri fuori dal sistema. Oggi i cantanti che posano con le mazzette di soldi in mano sono espliciti, quello è il nuovo fascino.
Nella mazzetta di soldi di un cantante c’è lo stipendio annuale di una partita iva o di uno stagista. Coloro che dovrebbero disprezzarlo invece lo ammirano, inchinati e proni alla mazzetta, sbavanti come i cani con l’osso. Invece di detestarla la bramano, invece di attaccarlo lo lisciano. Ma nemmeno questo non è un problema. Il problema è che la mazzetta diventa il fine, non tutta la trafila di divertimento che c’è nel mezzo per arrivarci. I trapper sono tutti presi male. Si sparano, vanno in galera, hanno sempre il muso lungo, gli fanno il daspo. Dove è il divertimento?
Rita De Crescenzo invece non ci lascerà manco i meme tanto fa cagare (Rita è un mostro di cui abbiamo bisogno per sentirci superiori ma ci vergogniamo a dirlo. Quando la presentano in tv dovrebbero dire: ecco il subumano del giorno ahhahah guardate che faccia ohmamma ahahaha è analfabeta ahahah è della camorra. Guardiamola come si guarda una bestia allo zoo. Invece dicono: ecco la tiktoker. Ha diritto a fare politica! Si certo, come no. Sono dei bugiardi, la usano come un animale di scena, si lavano la coscienza e la circuiscono con mille salamelecchi).
Quelli come me, dicevo, potrebbero tornare in voga tra qualche anno, quando la nuova elite di ricchi o semplicimente di visibili, avrà bisogno di colmare un’insicurezza. Ci faranno fare lavori tipo il maestro personale, il cultural coach. Ci useranno per non rimanere in silenzio alle cene d’affari. Leggevo di un’Elettra Lamborghini incazzata perché un giornalista le ha chiesto chi è Lucio Dalla e lei non lo sapeva. Diceva che non è giusto metterla in difficoltà! Idem con Mastroianni. Diceva di sentirsi attaccata con domande scomode. effettivamente ero sconvolto anche io da come un cronista de Il Fatto potesse prendere a pesci in faccia un famoso. Non succede mai. Che guizzo.
Qui su Bengala invece è abbastanza la norma. Su Bengala ci trovate solo quello che ci deve stare. Io non sono di quelli che la cultura è meglio dell’ignoranza. Io sono per i singoli. Se trovo uno che mi esalta non me ne frega niente di tutto il resto. Mi basta scoprire un Thomas Bernhard (che vi propongo oggi) così come il vecchio al bar che mi parla di complotti e scie chimiche.
Io sono per il divertimento.
Tony Effe è lugubre e noioso, il trash della De Crescenzo è imbarazzante, la tv che ci ronza attorno è fastidiosa, l’industria dello spettacolo italiano è qualcosa che manco l’ASL.
Qui fottiamo tutto, qui ci divertiamo.
A sabato prossimo.
Le bidelle
dal grembiulino blu
scrollano il telefono
il capo chino ingiù
L’astro nefasto di Pescia, copre
Di luce di luna notturna,
l’abitato di questa landa di scarogna.
Nell’anime umili abitano disastri
misti a piccole estasi
Ogni uomo è uno scrigno
Sgrulla l’uccello in bagno, schizza la tavoletta,
in cuor suo,
Fissando le mattonelle rosa in controluce,
Cercando a tentoni lo scarico,
Egli trova l’infinito.
Pisciata che sa di panino,
Sega del mattino,
Fisso lame di luce bianca fare a pezzi il giardino.
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Mamme scazzate
perchè i figlioli si rovesciano addosso da bere
Nemmeno ci dovessero pulire loro
La gente al burger king cerca di essere mondana
Ma il quotidiano ti svernicia dentro
Questo luogo è spettrale
Ci sono onde anomale di energie sbagliate
Io ci son nato le so
Mi piacciono i suoi tratti mistici
Il banchetto di Scientology al mercatino del Borgo
Due o tre bar di vecchi
Per il resto è impestato di plastica e deliri
Le vedo io ma anche i miei pari
Le subiamo tutti
Le incassiamo
Ma non corriamo al riparo
Come se qualcuno potesse reggere tutto questo
Nessuno, nemmeno il più sano.
Strepitoso. Andando a camminare nei campi con le cuffie mi sono imbattuto in queste registrazioni casalinghe di Cobain usate per il documentario Montage of Heck. L’ho visto, alcune le conoscevo, ma non avevo mai sentito i dischi tutti di fila. Si tratta di due LP nell’edizione deluxe.
Fanno effetto. Sembra di essere in una stanza con lui che ti canta accanto usando solo chitarre scordate e facendo delle prove. Fatte in camera sua sembrano canzoni normali, sembri te che improvvisi e scazzi con la chitarra. Però al tempo stesso si sente che sarebbero state altre hit, altri tesori. Per me è una seduta spiritica.
Uscito negli USA nel ‘94 arriva anche da noi questo testo teatrale scritto da McCarthy a poca distanza da Meridiano di sangue, con cui non condivide niente. Ricorda piuttosto Sunset limited che era un dialogo bellissimo tra un uomo che tenta di suicidarsi buttandosi sotto a un treno e l’uomo che lo salva. Ci avevano fatto un film con Tommee Lee Jones e e che da noi non è mai uscito.
Se proprio dovete leggere un pezzo di teatro leggete Sunset. Questo Tagliapietre è una piccola tragedia mccarthiana, un pò tirata via, un pò debole rispetto al resto. Si legge, è del maestro, è bello, ma non si vola.
Lo vado a vedere questo weekend ma sono curiosissimo. Amo gli anni d’oro del porno italiano. Amo Schicchi e son convinto che Castellitto attore sia meglio del regista e che abbia fatto una grande parte. (a distanza di tempo: l’ho visto. Carino. Su Caste la penso ancora così).
Siccome i libri tipo Filosofia di Moana si trovano su internet a centinaia di euro, siccome le opere scritte da lei non sono più editate, dobbiamo affidarci a dei testi intermedi. Blackie ha pubblicato questo libro della Pellas che ha un pregio: è bello da vedere. Questo rosa metallizzato lo vorresti accarezzare. Il testo di accompagnamento è buono in molti punti, quelli su Moana, meno nelle lunghe autocelebrazioni dell’autrice che interviene un pò troppo raccontandoci della sua vita. Un pò come quando i rapper reinterpretano una canzone inserendoci delle barre (quelle rime di merda che fanno) in cui parlano dei fatti loro.
Tuttavia è una lettura piacevole. Sarà il tema.
Il libro è introvabile e su eBay va dai 200 ai 1000 euro. Numerosi stralci sono racchiusi nel libro di Blackie Edizioni.
Il romanzo è il “fuori onda” della nostra esistenza. Mi spiego: noto sempre di più, ma già lo avevo intuito da un pezzo, che in Italia c'è continuamente una verità “ufficiale”, ci sono sempre parole ufficiali, e poi c'è la verità-vera. Spesso la verità-vera, chiamiamola così, è sempre espressa in camera caritatis (come si diceva un tempo, se non sapere cosa significa andate a vedere su Google, senza problemi). Si dice qualcosa, e poi si dice qualcos'altro, spesso di ordine opposto, ma si dice in camera caritatis, appunto. Ti intervistano? Ok, bene. Mentre registrano si parla in un certo modo, si dicono le cose ordinarie, quelle che vanno dette. Successivamente si dice tutt'altro e lo si dice fuori dalla registrazione. Si parla per radio rispondendo alle domande, fuori onda si dice spesso qualcosa di molto più interessante e, spesso, più vero e realistico.
Questo avviene in ambito culturale, che è il contesto da me più conosciuto, ma anche quando ero con politici e persone di altri ambienti, la solfa era spesso la stessa. Tutto emerge solo quando si entra in confidenza, fuori scena, a cena dopo essersi rilassati, dopo tre bicchieri di vino, dopo essersi tolti di dosso la maschera o i vestiti di scena, dopo un litro e mezzo di birra. Non so se si tratta di diplomazia o di una forma di difesa o qualcosa d'altro. Non so nemmeno bene se sia un problema solo italiano o se sia un problema tout-court del mondo occidentale. Però so che i buoni libri, i libri che a un certo punto dicono la verità-vera, sono spesso romanzi. Sono i buoni romanzi.
Sono i romanzi che raccontano quel che sta fuori dalla scena e in qualche modo sono romanzi osceni, osceni nel senso etimologico del termine, cioè ex-scena. Quando qualcuno mi parla di serie TV, di saggi, di arte in genere, spesso mi parla di opere d'intrattenimento. Le opere e i "lavori" d'intrattenimento hanno certo una loro dignità, ma non sono riconducibili a quelle opere la cui ambizione consapevole o meno è di testimoniare o raccontare la verità-vera. Per me il romanzo, checché se ne dica, nonostante lo stereotipo della sua crisi, nonostante il mercato e il commercio e nonostante l'aspetto economico, per profondità di sguardo, approfondimento e senso di verità, a oggi rimane per me lo strumento più importante per dire la verità, rimane l’unico capace di entrare nell'ambito della complessità esprimendo la verità-vera; sa farlo con le parole più giuste, i registri più appropriati, una certa dose di incoscienza disinteressata e mantiene una sua classicità per la quale non è mai di moda e quindi non sarà mai fuori moda. Mi rendo conto che alcuni mezzi siano accattivanti: serie TV, social, certa musica, giornalismo abbiano, nel migliore dei casi, un loro fascino, ma il romanzo letterario ha una capacità pervasiva, invasiva, speculativa totalmente diverse.
Quando leggo un buon romanzo è come se mi arrivasse un booster nel cervello e mi risvegliasse intuizioni primordiali. Il buon libro mi esalta, mi fa sentire superiore agli altri (gli altri che non si rendono conto e dicono solo la verità o ascoltano solo la verità) e con più strumenti di interpretazione del reale. Non sto parlando si sapere, non sto parlando di cultura, non sto parlando di istruirsi, non parlo di didattica, parlo proprio di possibilità individuale e intuizione, parlo di doping. Il romanzo letterario è un vero e proprio doping. Deve esserci qualcosa di neurologico che avviene nella testa, ma non so che dire sul tema delle neuroscienze, questa è solo un’ipotesi e la butto lì per i più esperti, ma qualcosa avviene nella testa e avviene solo col romanzo, coi libri.
Basta poco, anche un ottimo romanzo di carta, 100 pagine, eppure corro più forte, salto più in alto, m’incazzo meglio, rido con più gusto e sono, ovviamente, più disperato. Con altri mezzi "culturali" questo booster non arriva. Non c’è videogame che possa essere paragonato, non c’è film o altro all’altezza di quel doping. Forse solo certi tipi di droga possono darti un’esperienza simile, ma siamo nell’ambito degli allucinogeni e dei divieti, per cui… Chi non legge romanzi non può saperlo, ma è così. Gli è che leggere un romanzo, oggi, è faticoso. Tra messaggini, squilli del cellulare, scroll e distrazioni momentanee, prendere in mano un romanzo e iniziare a leggerlo sembra un'operazione paleolitica, vecchia, obsoleta, fuori contesto storico, geografico, sociale, retrogado. Ma è solo un'illusione culturale imposta da altri Media e dallo spirito del tempo. I romanzi letterari rimangono ciò che di più approfondito e vero ci propone la tradizione occidentale. I romanzi letterari sono ancora un’avanguardia Esagerato? Forse. Ma il romanzo è ciò che rimane della verità-vera. E’ il fuori onda che ci manca. Esaltante. È un booster. È un ormone della crescita. È pensiero puro e azione. È esattezza. Il romanzo è sempre un'approssimazione più precisa rispetto ad altre interpretazioni del Mondo e degli uomini meno precise, ancor più approssimative. Il mondo è complesso? No, non è così. Spesso il mondo è solo complicato. La complessità è un antidoto contro ciò che è complicato. I buoni romanzi ti danno soluzioni e ciò che è complicato te lo fanno capire subito. Il romanzo ti suggerisce anche uno stile di vita. Non è una diretta conseguenza riconducibile ai contenuti di un libro specifico, ma è una disciplina irregolare. Frequentando i romanzi acquisisci un certo stile. Soprattutto un modo di pensare e poi quel modo di pensare si ripercuote nella propria vita e persino nel corpo. Il romanzo è qualcosa di molto più corporeo di quel che si può pensare di primo acchito. Ha a che fare con gli ormoni, la sensualità, l’eros: penso agisca attraverso le endorfine, ma leggere una pagina buona e le sue parole precise può essere esaltante.
In questi giorni ho letto e subito dopo riletto un libro di 141 pagine. E’ un grande libro di narrativa. E’ stato pubblicato nel 2009. S’intitola L’ubicazione del bene ed è stato scritto da Giorgio Falco per Einaudi. E’ un libro che parla di noi, della nostra società, di noi singoli individui. Sembra non raccontare nulla e invece racconta tutto di noi con parole esatte. E’ un libro, eppure diventa un’atmosfera. Un libro senza trama in cui ci sono topi, scimmie allo zoo, bancari, contratti di lavoro, uomini e donne che si sposano, fotografi di matrimoni, campeggi per camperisti, ragazzi con problemi psichiatrici, donne trascurate e randagie, attrezzi da palestra in casa, villette a schiera, giardinetti in case zona PIP, auto in coda alle porte di Milano, parchi giochi, urologi. E’ un libro su di noi, noi esseri umani. Nessuna morale, nessuna risposta, solo sguardo sull’oggi, sulle nostre burocrazie, i nostri sogni piccoli piccoli, le nostre assurde scelte, le piccole gioie e le disperazioni. L’ubicazione del bene è più di un trattato di sociologia, è più di un manuale di procedura penale, è più di un reality, è più di una scrollata su Instagram, è più di PornHub, è più di ore e ore di chiacchiere fatte in un podcast, è più di un manuale di storia contemporanea e di filosofia, è più di un doppio album scaricato da Spotify eppure li racchiude tutti dentro. Li ha tutti dentro, in 141 pagine. In più ci mette dentro la precisione. E’ un booster vero e proprio. Lo leggo e sento che il mondo ora è più interpretabile di prima. Provo più pietà per me e per gli altri esseri umani. Mi sento migliore perché mi ha dato la possibilità di compatirmi e di avere contezza dell’oggi, degli uomini, di quello che ci sarà tra 40 anni, di quel che c’era 40 anni fa. Sono più disperato di prima, ho meno speranza e paradossalmente sento di gioire. L’ubicazione del bene mi porta avanti. Ed è solo un piccolo libro di 141 pagine del 2009. Ce ne sono altri di libri così? Ne è pieno il mondo. I romanzi, i libri, sono i fuori-onda della nostra esistenza e io provo a stare lì. Lì dove c’è la verità-vera che mi dà gli strumenti necessari per capire la semplice verità che si racconta e mi dà gli strumenti per allontanarmi, spostarmi, abbassarmi, innalzarmi. Faccio schifo ugualmente, come tutti. Ma faccio schifo un po’ meglio di prima.
Shhh. Silenzio.
Nel vociare indistinto della massa, se ci concentriamo, riusciamo a scovare dei suoni impercettibili, eppure fondamentali. Suoni di voci che risuonano uniche, riverberi, echi. Sono difficilissimi da individuare perché il rumore di fondo è troppo forte, però ci sono e fanno la differenza e una volta che le hai scovate, certe voci ti parleranno per sempre.
Questo rappresenta per me Thomas Bernhard.
Ogni decennio circa entra nella mia vita un nome tutelare. Penso che il decennio, o il quinquiennio, siano l’arco di tempo necessario per far spazio a qualcuno che ti accompagnerà per sempre. Come nella vita abbiamo pochi amici veri, verissimi, più veri degli altri, che ci portiamo fino alla fine, nell’anima abbiamo dei miti. Pochissimi.
In questo numero parlo di miti letterari.
Baudelaire a sedici anni, DeLillo a venti, Burroughs, Houellebecq, Bukowski, McCarthy, Steinbeck dai trenta in poi. E adesso è arrivato Thomas Bernhard.
Se dovessi raffigurarlo col volto di un amico, saprei assolutamente quale usare. Bernhard è l’amico che molti di noi hanno avuto in vita ma che poi hanno scelto di smettere di frequentare, per salvarsi. Troppo intelligente, troppo crudo. È Rust Cohle di True Detective ma vero, e nato a Salisburgo. In una parola: pesante. Necessariamente pesante in un mondo di leggerezza. Pesante soprattutto perché ha sempre ragione, quindi subito irrinunciabile.
Molti di voi diranno: e chi cazzo se ne frega?
Beh, ho letto una storia terribile che mi è rimasta in testa per giorni. C’è un signore in carcere che non può uscire dalla cella da anni perché è in carrozzina. La carrozzina non passa dalla porta e così non fa l’ora d’aria, passa gli anni chiuso in una sudicia cella carceraria italiana. Quando deve cagare usa i sacchetti per la stomatite che puntualmente finiscono, quindi caga, dalla pancia, in quelli della spesa, rischiando di infettarsi. Non c’è acqua calda in cella e spesso non funziona il riscaldamento.
Per questo caso ha intrapreso scioperi della fame e della sete, ha scritto pure al ministro. Niente, sono anni che va avanti e nonostante un pezzo su Il fatto quotidiano, nessuno se lo è filato. E pure dopo l’articolo niente è cambiato.
Io ho lo stomaco ribaltato quando penso alla politica italiana, alla macchina burocratica in azione che impedisce a noi stessi di avere una decenza. Mi capita spesso di finire in uno stato di profondo sconforto per un pensiero del genere e l’unico riscatto da questa sensazione, di solito, lo trovo nei libri. Scrive Bernhard «in un paese simile sono incapaci di evolversi e di questa incapacità di evolversi sono anche consapevoli, un paese simile ha bisogno di persone che non si rivoltino contro la sfrontatezza di un paese simile, contro l’incapacità di intendere e di volere di un paese simile e di un simile Stato, uno Stato pericoloso per la comunità, uno Stato in totale rovina, in cui ormai regna solo il caos, anzi il caos assoluto. Questo stato ha sulla coscienza un numero sterminato di persone come Reithamer». O ancora: «perché se i governi informassero la loro società, verrebbero in brevissimo tempo annientati da questa società che hanno informato»; oppure «La nostra democrazia non era che un’enorme truffa! Il nostro paese stava sullo stomaco all’Europa, era indigest come un piede deforme trangugiato nell’incoscienza più totale».
Bernhard scrive e non va a capo, sfogliate i suoi libri e a prima vista sembrano finti. Sono dei blocchi di testo unico. Una volta letto il suo stile, se siete degli scrittori, cercherete invano di imitarlo per sempre, se siete dei lettori ne rimarrete stregati. Come si fa a provare il cinismo più sconfinato misto alla leggerezza? Come si fa a dire sempre e solo la verità e in pratica schiacciare a canestro a ogni singola palla? Parlando solo di Austria, madre, nonno, pochissimi amici e pochissimi fatti? E raccontare la vita di tutti noi! Solo Bernhard è così.
Bernhard ripete soggetti e riferimenti fino allo sfinimento dentro una frase. Ci vedeva qualcosa di musicale che in effetti rimane pure in traduzione.
Bernhard sembra colto dal cinismo più nero e senza speranza e in effetti lo è. Ma è anche ironico, sagace, inattaccabile.
Bernhard non è lo scrittore più bravo degli ultimi cinquant’anni ma è il più intelligente. Ogni sua pagina illumina.
Lo trovate tutto pubblicato con Adelphi e potete leggere quasi ogni opera come se fosse connessa all’altra, in un’unica grande opera. Nei romanzi succede pochissimo, nelle autobiografie si scava a fondo.
Ultimamente Adelphi ha ripubblicato la storica Autobiografia in versione economica e l’ultimo romanzo uscito è Camminare.
Il mio preferito rimane Estinzione, seguito da Gelo e dall’Autobiografia.
Questo pezzo sulla sua città, non potrebbe essere sulla tua?
«La città, popolata di due categorie di persone, gli affaristi e le loro vittime, è abitabile per colui che ci viene per imparare e studiare soltanto in maniera dolorosa, disturbante ogni indole naturale, col tempo perturbante e devastante, molto spesso unicamente subdola e micidiale. Da un lato le esasperate condizioni atmosferiche, irritanti, snevanti, e comunque ammorbanti per chi vive nella città, e dall’altro l’architettura salisburghese, che in queste condizioni atmosferiche ha effetti sempre più disastrosi sulla costituzione di questa gente.
Tutto in questa città è contro la creatività e se anche si acconsente sempre più e con cosciente veemenza il contrario, l’ipocrisia è il suo fondamento, e la piattezza la sua passione più grande, e ovunque e comunque si manifesti in questa città la fantasia, essa subito viene messa al bando. Salisburgo è una infida facciata su cui il mondo dipinge senza posa la sua falsità e dietro la quale il creativo (elemento o persona) non può far altro che guastarsi e degenerare e perire. La mia città d’origine è il realtà una malattia mortale e in questa malattia i suoi abitanti vengono partoriti e avviluppati e, se non scappano via al momento decisivo, essi compiono prima o poi, direttamente o indirettamente - date le orribili condizioni che vigono nella città - un repentino suicidio» (Thomas Bernhard, L’origine, in Autobiografia, Adelphi, 2024)
«ci si butta a capofitto in mezzo alla gente ordinaria e si cade sempre più in basso, molto più in basso di loro. (…) Mi sono buttato a capofitto nello sporco mondo ordinario. Ho sempre sentito che gli appartenevo, infatti sono rimasto in basso».
Gelo, Adelphi
«oggi non esistono più vere persone, solo maschere mortuarie di vere persone. Tutto è talmente orribile perché si tratta di una mostruosa mutilazione operata della ragione che si trasmette da noi ai nostri simili nel cervello.
Gelo, Adelphi
«L'errore più grande che possiamo fare è credere che le cosiddette persone semplici siano in grado di salvarci. Ci rivolgiamo a loro in uno stato di angoscia estrema, li imploriamo letteralmente di salvarci, e quelli invece ci spingono ancora più a fondo nella disperazione».
Il Soccombente, Adelphi
«Noi siamo condannati a vivere una vita, e dunque la nostra è una condanna a vita, per uno o più delitti, chi lo sa?, che non abbiamo commesso, oppure che commettiamo di nuovo per altri che verranno dopo di noi. Non siamo stati noi a chiamarci in vita, tutt’a un tratto siamo esistiti e già in quell’istante ci hanno resi responsabili. Abbiamo acquistato in capacità di resistere, nulla ormai può farci capitolare, non siamo più attaccati alla vita ma nemmeno la svendiamo a un prezzo troppo basso, questo era quello che avrei voluto dire, ma non l’avevo detto. Tutti qualche volta alziamo la testa credendo di dover dire la verità o quella che sembra la verità, e poi di nuovo la incassiamo nelle spalle. Questo è tutto».
“Per tutta la vita io sono stato un disturbatore, e sempre sarò e rimarrò un disturbatore della pubblica quiete, così sono sempre stato definito dai miei parenti, già mia madre, per quanto posso ricordarmi, mi chiamava disturbatore della pubblica quiete, e così il mio tutore e i miei fratelli, e in effetti in ogni mio respiro, in ogni riga che scrivo sono sempre rimasto un disturbatore della pubblica quiete. Per tutta la vita la mia esistenza non ha fatto altro che disturbare. Io ho sempre disturbato e ho sempre irritato. Tutto quello che scrivo, tutto quello che faccio, è disturbo e irritazione…Giacché richiamo l’attenzione su dei fatti che disturbano e irritano”
da cinquantamila.it
Bernhard ha quarantacinque anni e per la prima volta fa un bilancio della sua vita: il padre mai conosciuto, morto suicida dopo essere scappato in Germania; la tormentata madre; il nonno, scrittore, antico maestro, anticonformista, unico modello di dedizione all’arte; il collegio e l’annientamento della personalità, la tendenza a «opporsi e a essere contro tutto»; i primi istinti suicidi; le prime immobili forme di evasione, il violino, poi il canto (passione materna); lo sradicamento, l’andirivieni tra l’Austria e la Germania nazista, l’apprendistato in bottega come garzone; la «pleurite umida» che perseguita lui e i suoi personaggi – «per un banale raffreddore che mi ero preso scaricando un carro di patate durante una bufera di neve»; l’ospedale, la morte del nonno, ricoverato qualche stanza più in là; la morte che lui stesso sfiora, tanto che gli viene somministrata l’estrema unzione; il periodo al Mozarteum, il tempio del vero e del falso talento; la tesi su Artaud e l’arte della decomposizione («lo scelsi perché sapevo che nessuno della commissione aveva idea di chi fosse»). «Cantavo e scrivevo poesie, a tempi alterni», un’iniziazione obbligata perché non aveva molto altro da fare durante il ricovero e il giro dei sanatori. La prosa arriva qualche tempo dopo in forma di racconti. «Volevo diventare famoso, e il mezzo mi era del tutto indifferente». Nei primi anni Cinquanta per mantenersi fa il cronista giudiziario per il Demokratisches Volksblatt, ed è una palestra cruciale per l’imitatore di voci: «Mi affascinava l’idea di scrivere qualcosa e di poterlo leggere già alle 7 del mattino successivo. Di solito scrivevo cose inventate ». Tra apostrofi e silenzi c’è perfino spazio per l’autocompiacimento: Bernhard considerava Amras la sua opera migliore – «una specie di funivia in prosa, un libro sonnambulicamente esatto», lui che ha sempre scansato gli osanna e mal tollerato i premi beffardi che madre Austria di tanto in tanto gli conferiva. Era scontato che a un certo punto Hamm finisse lì, e Bernhard recita a copione: «Tutto è ridicolo se si pensa alla morte»; poi precisa: «Non sono affatto attratto dalla morte. Chi è davvero attratto dalla morte non potrebbe mai scriverne. Affascina i miei personaggi, certo, ma questa è un’altra cosa». Quando la stanchezza prende il sopravvento c’è la visione più bella: «Tutte le mie opere teatrali potrebbero essere una sola nella quale tutti i personaggi entrano in scena contemporaneamente. Un unico palcoscenico e un’unica quinta, nei quali calarli e fargli recitare i loro ruoli alla rinfusa».
Bernhard non menziona mai l’«unica persona amata», Hedwig Stavianicek – compagna di 37 anni più vecchia, che invisibile, e all’occorrenza tramutata in zia, gli starà vicino fino alla morte; e c’è un solo un cenno «al suo più caro amico» Ferdl, qui solo «il manovale che sta a casa mia». Sono omissioni che pesano, ma appartengono a un livello più profondo e sarebbero servite almeno altre dieci bottiglie di vino.
Se i volti di Bernhard avessero una rappresentazione, sarebbero le foto dipinte/distrutte e scarabocchiate di Arnulf Reiner, gigante dell’arte austriaca.
Da Treccani
Pittore, incisore e fotografo austriaco (n. Baden, Vienna, 1929). Figura centrale dell'arte austriaca della seconda metà del sec. 20°, la prima produzione artistica di R. subì l'influenza sel surrealismo. In seguito furono l'espressionismo astratto americano e l'informale francese a lasciare tracce visibili nelle sue opere, che dal 1950 in poi non furono più solo pittoriche.
vita
Insofferente all'insegnamento accademico (nel 1949 frequentò solo per pochi giorni l'Accademia d'arte di Vienna), si è formato essenzialmente da autodidatta, elaborando suggestioni dal surrealismo e dall'informale. Dopo aver partecipato al surrealismo fantastico della Hundsgruppe (1950-51), R. ha continuato la sua ricerca sperimentale, segnata da automatismo e gestualità ma sempre più tesa verso la consapevolezza e la visualizzazione di processi psicofisici e stati emozionali estremi, delle relazioni tra vita e morte, sacrificio e redenzione. Rappresentante dell'Austria alla Biennale di Venezia del 1978, professore all'Accademia di Vienna (1981-95), R. ha ricevuto numerosi riconoscimenti (Gran premio austriaco per la pittura, 1978; Premio Beckmann di Francoforte, 1981; premio dell'International center of photography di New York, 1989). Nel 1993 è stato aperto a New York un museo a lui intitolato.
"Scrivi anche qualcosa e spariamo su Bengala, mi garba!". Questo è stato l'invito di Ray e per me che ho una regola interiore la quale impone al fotografo di stare zitto il più possibile e di scrivere poco, ché le fotografie non si raccontano ma si leggono, è stata dura ma ce l'ho fatta.
Sì perché credo che quando i fotografi si inerpicano sulla montagna della verbosità possono fare dei danni incalcolabili in quanto come dissero due molto bravi, "in fondo la fotografia è quel mezzo che consente anche a un idiota di ottenere qualcosa per cui prima occorreva del genio, ma è anche quel mezzo che costringe un genio a ottenere qualcosa per cui sarebbe bastato un cretino" (Nadar completato da Ando Gilardi).
Mi presento: sono Trisorio, Fabio Trisorio, ogni tanto fotografo e soprattutto ho sempre sognato di presentarmi come faceva James Bond dicendo due volte il cognome e una volta il nome. Perché è Trisorio quello che conta non Fabio, chiunque potrebbe chiamarsi Fabio ma Trisorio no.
Quindi partiamo che prima iniziamo e prima finiamo.
Cos'è oggi la fotografia?
La risposta naturale a questa domanda potrebbe essere solo "Ma io che cazzo ne so scusi?", citando uno dei filosofi-web contemporanei.
Eppure dovrei aver capito qualcosa visto che la frequento da quasi quarant'anni, e qui potrei attaccare il *pippone (*discorso lungo e devastante) citando chi ha scritto migliaia di pagine sulla fotografia, ma la noia straziante ci condurrebbe a cercare la scogliera a strapiombo sul mare più vicina, quindi non lo farò.
Quello che posso dire al di la di tutti i discorsi complessi e psico-filosofici che si possono fare sulla sua importanza sociale e non, arrivando all'osso della questione, è che ancora oggi la fotografia è uno straordinario strumento al servizio della memoria. Visto? Ho detto una cosa semplice.
Altra cosa che ho capito almeno per quanto riguarda il mio modo di scattare, è che la narrazione fotografica non dovrebbe scollarsi troppo dalla realtà altrimenti si trasforma in marketing, e sappiamo che quest'ultimo ha poco a che fare con la realtà la quale certamente necessita di una narrazione per essere raccontata (come disse la dottoressa Grazia Alcatso), altrimenti diventa spazio profondo e freddo silenzio siderale. Basterebbe trattare la realtà con il giusto garbo narrativo, diciamo così.
Ed è così che qualche anno fa iniziai ad avere un approccio più rude e umorale dietro l'obiettivo, sparendo come un fantasma per le strade e cercando di lavorare sulla sottrazione dell'ego cicciotto che solitamente possiede chi maneggia una fotocamera. Questo per evitare di essere uno stupido che fotografa ma concedendomi ogni tanto di essere un fotografo stupido.
Quindi per anni ho scattato fotografie in giro senza chiedermi del perché lo stessi facendo, in realtà già lo sapevo, e soprattutto scattavo fotografie senza fare sopralluoghi, senza attendere la golden hour, a volte senza portare la fotocamera all'occhio, riprendendo solo un gesto o un'intenzione, insomma non facevo tutto quello che si fa quando si fotografa con la F maiuscola. Per darmi un tono mi piace dire che queste sono fotografie del frattempo, cioè nel frattempo che si attende accada qualcosa io scatto.
Il risultato di tutto questo è 'Beware of DOG/GOD' dentro il quale troverete fotografie spesso disperate, come d'altronde siamo tutti noi, o strappate con violenza al buio per evitare che le divorasse. Distante dalla narrazione del 'progetto fotografico' ad ogni costo, penso sia più un discorso scomposto di fotografia istantanea dove spesso è tutto 'bona la prima', perché in strada (e spesso anche nella vita) raramente puoi avere un 'bona la seconda', e in quelle situazioni quando scatto è tutto quel che ho: una veloce possibilità.
In 'Beware of DOG/GOD troverete della dolcissima misantropia alternata a momenti di empatia canina e/o umana, strade, auto, marciapiedi, palazzi, lavoratori assonnati in viaggio e altro. Insomma ci troviamo la vita tutta, non come ci appare ma vista attraverso una personale interpretazione. Ma c'è la critica alla società? Sì, credo si possa trovare leggendo attentamente tra le righe. Ma le fotografie sono scattate con il cuore? Non solo, a me piace usare tutte le frattaglie quando scatto. Ma è un lavoro escatologico? E la morale, c'è la morale? Ma il bianco e nero è una tua precisa scelta stilistica per questo lavoro o scatti sempre così? Ma perché Beware of DOG/GOD?
Aho basta! Siamo su Bengala mica a Belve, e comunque vi ringrazio per le domande e spero di ringraziarvi presto per le risposte. Beware of DOG/GOD.
Ok è tutto. Ci vediamo la settimana prossima. In fondo a Bengala troverete sempre e soltanto una frase di Charles Bukowski. Sappiatelo.