BENGALA #142 - NUN SE MENA + COME 'NA VORTA!
LA GENERAZIONE ANSIOSA - BORGHESIA VIOLENTA - PANTANI - I MICINI DELLA BIBI
«La mia generazione ha un trucco buono
Critica tutti per non criticar nessuno
E fa rivoluzioni che non fanno male
Così che poi non cambi mai
Essere innocui insomma che sennò è volgare».
Afterhours, Baby Fiducia
Prendetemi con le molle, è un’espressione figurata ma qualcuno deve pur dirla: forse bisognerebbe tornare a menare le mani in faccia politici. Nun se spara + come ‘na vorta! Scherzo, è satira. La lotta armata era una cazzata ma la resa incondizionata alle inculate quotidiane che abbiamo cosa è?
I Pink Floyd si preoccupavano che diventassimo degli automi nel video di Another Brick in the Wall e quello è già successo, ma non solo: siamo anche le pile di un sistema che senza di noi contribuenti non funzionerebbe, ma che ci sfrutta e basta. Il solito Byung-Chul Han ci viene incontro: «L’eccesso di lavoro e di prestazione aumenta fino all’autoannullamento. Esso è più efficace dello sfruttamento da parte di altri in quanto si accompagna a un sentimento di libertà. Lo sfruttatore è al tempo stesso lo sfruttato».
E il ministro dell’Economia che si lascia sfuggire dell’ennesima manovra a carico di noi morti di fame, precari e partite IVA e poi subito la smentita del Governo. E la vita in un Paese che chiede solo e niente dà, che rende impossibile partire dal nulla e creare qualcosa, che tassa anche l’aria che respiriamo, in cui è difficile anche solo vincere un concorso pubblico (non) truccato ma il ministro della minchia non ha la laurea e fa finta di prenderla con esami universitari a porte chiuse e certificati con il 30.
Avete veramente rotto il cazzo. Due sberle non farebbero male.
Sto voto democratico che abbiamo serve solo a eleggere gente che vale mezza tacca.
Certo io ho 42 anni non faccio testo. Non servo al mercato, non servo alla logistica, sono solo condannato a lavorare e pagare. Pago per formarmi per non perdere il lavoro quindi si può dire che pago per lavorare. E lavoro per pagare: le tasse, le multe, le cose a rate che mi servono etc.
Mi sento come gli antichi egizi che costruivano le piramidi e morivano a migliaia, ma almeno loro avevano concluso qualcosa su cui ancora oggi ci meravigliamo.
Non ho seguito la storia del Governo che non vuole la manifestazione per la Palestina ma tanto se l’ha fatta il Governo è per forza una puttanata. Faccio tuttavia una riflessione: sono contento che tutti troviate il senso civico per andare in piazza NONOSTANTE la Questura, veramente. Se per caso vi venisse in mente di farlo pure per il precariato, per la sanità, per i diritti negati ogni giorno a chi ha anziani a carico, per le ingiustizie perpetuate sulle fasce più deboli della popolazione (sempre inculate fino alla morte) sarei anche più felice. E forse parteciperei. Sono un egoista, Israele è così lontano, mi dispiace per loro, per tutto, ma manco lo guardo al tg. Non ce la faccio, ho troppi cazzi qui. Il 30 giugno mi tolgono lo stipendio, devo risparmiare per non fare un’estate da fame, non ce la fo a pensare a Israele perché non posso permettermi il climatizzatore coi contratti del cazzo che mi fanno e ci saranno 32 gradi in casa e dovrò andare ai centri commerciali per prendere fresco e le vacanze non le potrò fare. Capisci?
Però una Capitol Hill italiana seria mi piacerebbe. Irrompere al tg con un colpo di stato non dei militari ma della gente mi darebbe un po’ di rivalsa. Avremmo bisogno dei giovani per questo, ma i giovani si sa sono impegnati a distruggersi il cervello col telefono e i social e non è un pensiero di un vecchio bacchettone, ma la ricerca di Jonhnatan Haidt ne la sua Generazione Ansiosa di cui vi parlo sotto. Dice Nicola Barra: «Ben lungi dall'evocare nuove derive "lottarmatiste", un interrogativo di fondo resta in chi si trova oggi ad aver a che fare per la prima volta con queste vicende: è possibile recuperare l'impegno politico di quegli anni, senza trascendere nella violenza?». Anche di questo parliamo più sotto in questo numero.
Se siete qui è perché cercate qualcosa, una risposta. Ma ancora di più credo perché cercate dei vostri simili. Bengala è a tutti gli effetti una comunità, non un fottuto brand, non un podcast fatto con la vocina da podcast gne gne, non una messa di valori snocciolata sui social. Non Thlon, non Will, non il Corriere, non Repubblica, non Lucy. A volte ci divertiamo e spariamo cazzate altre volte facciamo robe serie come questa.
Non sono i libri in sé, non è nemmeno l’ultima figata che vi propongo, non è una conoscenza in più che vi cambia le cose quanto piuttosto un approccio diverso. Non si legge nemmeno tutto Bengala, perché è troppo lungo! Non importa, l’importante è che ci sia perché sapete esattamente che qui non troverete marchette, cazzatine da ufficio stampa e favori. Se una cosa non mi piace lo dico, se mi piace pure.
Non ho editori, non ho nessuno da accontentare. Se volete comprarvi l’abbonamento e sostenermi mi fate un gran favore, altrimenti sticazzi.
Vent’anni fa compravi una rivista o un inserto culturale perché ti fidavi, ti raccontava un mondo, ti dava dei consigli. Oggi gli inserti culturali sono quelli che hanno dedicato paginoni ai Ferragnez raccontandoli come una royal couple, quando era evidente a chiunque che fossero dei casi umani. E se li criticavi eri invidioso dei loro soldi.
Brave peore, bel lavoro! Mi garberebbe averci davanti quelli che hanno deciso l’Ambrogino d’Oro per la coppia, grande intuito. Non si capiva se erano le istituzioni che cercavano di aquisire follower corteggiando i “giovani” o i “giovani” che si erano trasformati in vecchie corporation in grado di vendere la loro merda come oro, proprio come ogni sistema capitalistico ti insegna fin da piccolo.
Dice: c’è Tony Effe al TG1 e i fatti di Taylor Mega, i bocchini della Boccia, Fedez con gli ultras, Sangiuliano e Giuli, tutti questi grandi racconti di gossip. Ecco il dibatitto pubblico. Argh!
Su Fedez come sugli scrittori pacco, i film brutti, i festival brutti, le trame noiose ma likeabiki, i giornali hanno semplicemente rincorso i numeri, i like, credendo che parlando degli influencer o di fenomeni da baraccone del web, si sarebbero potuti avvalere del loro pubblico. Cosa sbagliatissima. Nessun ascoltatore di Fedez spenderebbe mai un euro e cinquanta per leggere un articolo su di lui su Repubblica. Lo vuole gratis online, come tutto ciò che è online.
A quel punto i giornali hanno cominciato a dire: ok non vendiamo più ma almeno facciamo accessi ai siti e monetizziamo quelli, profiliamo i clienti, cerchiamo di agganciarli con abbonamenti brevi, brevissimi e diamogli l’articolo su Fedez gratis.
Poco importa una redazione, un team di veri giornalisti che dice: forse non serve che Fedez sia un milionario che si dichiara nullatenente per aggirare il fisco, non serve che si fotografi in giro con i bodyguard affiliati alla camorra e deleghi a loro il compito di picchiare la gente che gli sta antipatica, non serve tutto questo per capire che è una sega. Potremmo fargli delle domande vere invece che le solite interviste bocchino. NO!
Non si può. I redattori dei giornali sono stati sostituiti da impiegati compilatori di testi online, i pochi veri cronisti sono stati rilegati in altre zone della redazione a fare il loro lavoro (cercare davvero delle notizie) e il resto è sparito.
Così anche i media sono spariti e la gente non aveva più un posto oggettivo in cui cercare i tesori, perché i libri erano tutti sponsorizatti quando erano marchette (scritti da amici, recensiti per avere favori da case editrici, recensiti bene per arrufianarsi lo scrittore o l’editore) e la roba di qualità lasciava il posto alla roba dei grandi numeri. Solitamente alla robaccia.
Così è sparita pure la critica, che nuoceva ai rapporti tra editori e partners.
Quando poi il materiale da leggere è diventato obsoleto, sono spariti i lettori.
NOI NO! NOI NON MOLLIAMO NIENTE!
LUNEDI 7 OTTOBRE ORE 20 DIRETTA INSTAGRAM
Bengala Night BookClub, libri letti a voce alta
E di cosa parliamo anche? Dei giovani ancora. Quell’oggetto misterioso e sconosciuto che sono…
Si è data la colpa alla crisi economica e climatica, ma i suicidi e le malattie mentali dal 2010 non si sono impennati per quello tra i giovani di tutto il mondo occidentale. Haindt in La generazione ansiosa lo spiega bene, nei momenti di crisi le popolazioni fanno squadra, tirano fuori le palle, reagiscono. Quando non lo fanno è perché sono isolate e impaurite. Ecco i social e i telefoni…
La colpa è la dipendendenza da algoritmi e social network, dati alla mano, utile alle multinazionali ma devastante per la Natura. I giovani de na vorta, come analizzato in Borghesia Violenta, il bellissimo podcast/libro a cura di Spazio70 per GoG, almeno facevano qualcosa. Quelli di oggi sono solo una generazione sacrificata. la Repubblica: «Negli Stati Uniti i tassi di depressione e ansia negli Stati Uniti - abbastanza stabili negli anni 2000 - sono aumentati di più del 50% dal 2010 al 2019. Il tasso di suicidi è cresciuto del 48 %per gli adolescenti dai 10 ai 19 anni. Per le ragazze dai 10 ai 14 anni, è aumentato del 131. L'italia purtroppo conferma il trend: da inizio pandemia a oggi, per esempio, sono aumentati del 40% di accessi di giovani e giovanissimi al Pronto soccorso del Bambino Gesù per ansia o tentativi di suicidio».
«Sean Parker, uno dei primi dirigenti di Facebook, in un’intervista del 2017 ha ammesso che lo scopo dei fondatori di Facebook e Instagram era creare un “circolo vizioso di conferma sociale […] esattamente il genere di cosa che escogiterebbe un hacker come me, perché sfrutta una vulnerabilità della psicologia umana”». (La generazione ansiosa, Jonathan Haidt).
Dal testo:
«La crisi della salute mentale verificatasi a partire dal 2010 affonda le sue radici nell’aumento delle paure e dell’iperprotezione da parte dei genitori degli anni Novanta. Dimostrerò come gli smartphone, uniti all’iperprotezione, abbiano agito da «inibitori delle esperienze», rendendo difficile a bambini e adolescenti ottenere le esperienze sociali «corporee» di cui più avevano bisogno, dai giochi rischiosi e dall’apprendimento culturale ai riti di passaggio e ai legami sentimentali».
“Possiamo quindi affermare che smartphone ed ecosistema social basato sui selfie, “come li conosciamo oggi, sono emersi nel 2012, con l’acquisto di Instagram da parte di Facebook seguito all’introduzione della fotocamera frontale. Nel 2012, molte teenager avranno avuto la sensazione che «tutti» ormai possedessero uno smartphone e un account Instagram, e che tutti passassero il tempo a confrontarsi con gli altri.”
“Sean Parker, uno dei primi dirigenti di Facebook, in un’intervista del 2017 ha ammesso che lo scopo dei fondatori di Facebook e Instagram era creare un «circolo vizioso di conferma sociale […] esattamente il genere di cosa che escogiterebbe un hacker come me, perché sfrutta una vulnerabilità della psicologia umana».”
“I social network basati sul prestigio hanno violato uno dei più importanti meccanismi di apprendimento degli adolescenti, distogliendo tempo, attenzione e comportamento imitativo da una serie di modelli che avrebbero potuto fare loro da mentori e aiutarli ad avere successo nelle comunità del mondo reale. Invece, a partire dai primi anni Dieci, milioni di ragazze della Gen Z hanno indirizzato i più potenti sistemi di apprendimento verso un numero ristretto di giovani donne la cui principale dote è quella di accumulare follower da influenzare. Al tempo stesso, molti ragazzi della Gen Z hanno indirizzato i loro sistemi di apprendimento sociale verso influencer uomini che propongono immagini di virilità estrema e potenzialmente inapplicabile alla vita quotidiana.”
Repubblica: Negli Stati Uniti i tassi di depressione e ansia negli Stati Uniti - abbastanza stabili negli anni 2000 - sono aumentati di più del 50% dal 2010 al 2019. Il tasso di suicidi è cresciuto del 48 %per gli adolescenti dai 10 ai 19 anni. Per le ragazze dai 10 ai 14 anni, è aumentato del 131. L'italia purtroppo conferma il trend: da inizio pandemia a oggi, per esempio, sono aumentati del 40% di accessi di giovani e giovanissimi al Pronto soccorso del Bambino Gesù per ansia o tentativi di suicidio.
La soluzione? C'è. Imparate a dire di no ai figli. No ai social fino almeno ai 16 anni e stateci assieme educateli e sbattetevi se li mettete al mondo.
Da Booktobook: Nel 2010 gli smartphone si dotavano delle telecamere frontali, nel 2012 Facebook acquisiva Instagram. «Questo ha fatto sì che aumentasse in modo esponenziale il numero di adolescenti che postano curatissimi video e foto della propria vita perché siano non solo visualizzati da coetanei ed estranei, ma anche valutati», scrive Haidt. È così che la Generazione Z è diventata «la prima della storia ad attraversare la pubertà con in tasca un portale che la distoglieva dalle persone vicine e la attirava verso un universo alternativo esaltante, instabile, che creava dipendenza» e, come dimostra Haidt nel libro, «non era adatto a bambini e adolescenti. Ottenere il successo sociale in quell’universo richiedeva ai ragazzi di dedicare gran parte delle energie, continuamente, alla gestione del proprio brand online. Era necessario per ottenere l’approvazione dei coetanei, che è l’ossigeno dell’adolescenza, e per evitare lo shaming online, l’incubo dell’adolescenza».
«Abbiamo deciso che il mondo reale era talmente pieno di pericoli che i bambini non avrebbero dovuto esplorarlo senza supervisione degli adulti, anche se dagli anni Novanta del XX secolo, il rischio di reati e violenze sui bambini è calato vertiginosamente.1 Al tempo stesso, ci è parso troppo disturbo ideare e richiedere limitazioni online in base all’età e abbiamo lasciato i bambini liberi di vagare nel selvaggio West del mondo virtuale, dove le minacce per loro abbondano.
Per fare un esempio della nostra visione miope, uno dei più grandi timori di molti genitori è che il loro bambino finisca nelle mani di un maniaco sessuale. Oggigiorno, però, i maniaci sessuali trascorrono gran parte del tempo nel mondo virtuale perché tramite internet è facilissimo comunicare con i bambini e trovare e diffondere video sessuali e violenti che coinvolgono minori. “Wall Street Journal» ha condotto un’inchiesta secondo cui «Instagram mette in connessione i pedofili e li indirizza verso venditori di contenuti tramite sistemi di raccomandazione che si distinguono nel collegare chi condivide interessi di nicchia».
«Il bias di conformità li motiva a imitare ciò che appare più diffuso. Il bias del prestigio li motiva a imitare chi appare più affermato e prestigioso. I social network, che sono ideati per coinvolgere totalmente, sabotano l’apprendimento sociale e soffocano la cultura della propria famiglia e della comunità locale, attirando l’interesse dei bambini verso influencer dal valore discutibile.
L’apprendimento sociale avviene durante tutta l’infanzia, ma potrebbe esserci un periodo sensibile per l’apprendimento culturale che va più o meno dai nove ai quindici anni. Le lezioni apprese e le identità formate in questi anni hanno maggiore probabilità di imprimersi, o aderire, rispetto a qualsiasi altra età: sono gli importantissimi anni sensibili della pubertà. Purtroppo, sono anche gli anni in cui gran parte degli adolescenti dei Paesi industrializzati riceve il telefono e sposta la propria vita sociale online».
Intervista all’autore su Repubblica:
«Gli esseri umani sono mammiferi e per milioni di anni l’infanzia si è basata sul gioco, che serviva a costruire le capacità per la vita adulta. Verso il 2010 è rapidamente cambiata nella maggior parte dei paesi sviluppati: c’è molto meno gioco libero e tutto è basato sugli smartphone. In teoria poteva funzionare, ma nella realtà è stato un fallimento globale. La salute mentale declina in tutto il mondo, in particolare tra le adolescenti».
Perché sostiene che sia colpa di smartphone e social?«La ricerca è complessa, perché non sono come le sigarette, che fanno male a tutti nello stesso modo. Milioni di bambini vengono danneggiati in maniere differenti. Alcuni sono vittime di estorsioni da adulti sconosciuti che vogliono immagini sessuali, altri dalle sfide su TikTok a soffocarsi, la perdita di sonno, le centinaia di connessioni virtuali che tolgono tempo a quelle reali, il confronto con gli altri, l’indebolimento dei legami familiari, la mancanza di luce solare. I bambini hanno bisogno di stare all’aperto e giocare, invece passano la maggior parte del tempo a guardare i telefoni».
Lei critica anche i genitori iperprotettivi. Cosa sbagliano?
«Il gioco è una necessità biologica per sviluppare il cervello. Negli anni ’80 e ’90, per ragioni di sicurezza non legate ai social, abbiamo iniziato a impedire ai figli di fare le cose che facevamo noi da bambini, ossia giocare e muoverci in maniera indipendente. Ciò ha bloccato il loro sviluppo, ma il declino della salute mentale ha accelerato dal 2010 in poi».
Che prove ha?«Nei grafici la curva delle malattie mentali e delle ragazze che si fanno del male si impenna intorno al 2012. All’improvviso sono state super collegate a piattaforme che usavano gli algoritmi per diffondere contenuti su malattie mentali e autolesionismo, generando ansia. Non sono impressioni, ma dati di ricoveri al pronto soccorso. Una causa è il contagio comportamentale, che colpisce maggiormente le ragazze perché sono più aperte alle relazioni e influenzabili dagli amici. Per i ragazzi i danni vengono da videogiochi e pornografia. Ciò spinge tutto il resto fuori dalla vita e produce livelli di stimolazione del cervello molto alti. Il mondoreale non offre le stesse esperienze e quindi diventa noioso. Questo genera comportamenti che interferiscono con lo sviluppo».

Lei cita Émile Durkheim e l’anomia. La mancanza di norme e senso nelle nostre vite acuisce l’emergenza?«Il libro racconta la storia di una tragedia in due atti: prima la perdita dell’infanzia basata sul gioco, poi l’affermazione di quella basata sul cellulare. Dopo averlo finito, ho capito che c’era anche un terzo atto importante, la perdita della comunità. Devastante per la società americana, la democrazia e la salute mentale. Quando perdi capitale sociale e fiducia civica, segue il decadimento, perché gli esseri umani non possono fiorire senza relazioni».
Cita Pascal, quando diceva chenel cuore degli uomini c’è un vuoto a forma di Dio. La secolarizzazione contribuisce al problema?«Gli esseri umani hanno una vita spirituale, e lo dico da ateo. Quindi ho ritenuto necessario studiare anche gli effetti che l’esistenza basata sul telefono ha su noi adulti, oltre ai vantaggi pratici. Tanto Gesù, quanto l’antica saggezza di altre religioni, ci invitavano a non giudicare, a meditare, perché la calma apre i cuori alla bellezza intorno a noi. La vita basata sui social fa l’esatto opposto: devi giudicare, rapidamente, e se non lo fai sarai giudicato per non aver giudicato. Porta al degrado».
Le sparatorie nelle scuole dipendono in parte da questo?«Non commento i casi specifici perché bisogna conoscere i dettagli degli autori, però noto due cose. Primo: molti killer si supportano a vicenda attraverso Internet, ispirano generazioni future di killer. Secondo: in America dobbiamo svegliarci davanti all’evidenza che i nostri ragazzi stanno fallendo clamorosamente a scuola, sul lavoro, nella società. Buttano via le vite, e la perdita di senso e comunità, sommata alla cultura di Internet che celebra qualunque cosa ti renda degno di nota, motiva questi comportamenti».Lei offre alcuni rimedi. Primo, tornare al gioco libero. Perché?«A un certo punto ci siamo ossessionati perché i risultati dei nostri studenti nei test calavano rispetto agli stranieri. La risposta è stata ridurre ricreazioni, sport, lezioni di arte, per inchiodarli alla sedia. Il risultato è che odiano la scuola e vanno anche peggio. Ci sono prove biologiche e psicologiche che dimostrano l’importanza del gioco non supervisionato».Poi vorrebbe bandire gli smartphone: ma le pare possibile?«Non solo è fattibile, ma sta avvenendo alla velocità della luce. Interi Stati e centinaia di distretti scolastici diventanophone free. Gli insegnanti li odiano».
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Ascolta qui il podcast Borghesia Violenta

un testo di Nicola Ventura:
E' mercoledì 2 ottobre quando, accingendomi a scrivere queste righe per la newsletter del gentile Ray, do un'occhiata alle classifiche Spotify. Il nostro Borghesia violenta si trova al quinto posto dei podcast più ascoltati in Italia, stabilmente in "top ten" ormai da diversi giorni. Un risultato sorprendente, se si pensa che la medesima graduatoria è di regola dominata da alcune consolidate realtà del "podcasting" italiano.
Io e David Barra, autori dell'omonimo libro dal quale la Emons Record ha appunto tratto una eccellente versione audio, utilizziamo spesso una metafora "nautica" per spiegare simili fenomeni. La nostra attività, prevalentemente conosciuta sul web sotto la sigla "Spazio70", se confrontata con certe realtà editoriali, non è altro che un piccolo vascello, in un mare di voci e proposte, capace però di intercettare quasi sempre porzioni non residuali di un pubblico notoriamente difficile come quello italiano.
Convogliare l'interesse su un contenuto scritto, oppure su un podcast, rappresenta una sfida complessa. Di solito i percorsi narrativi o di ricerca che vanno per la maggiore hanno assai poco a che vedere con le vicende legate ai cosiddetti "anni di piombo", trattate appunto in Borghesia violenta. Pur essendo cronologicamente dietro l'angolo, gli anni del terrorismo e della lotta armata appaiono oggi molto lontani. Forse, però, non lo sono poi così tanto, come normalmente si dice, visto il tentativo continuo di esorcizzarli e ostracizzarli dall'ormai pressoché inesistente dibattito pubblico. Non se ne parla a scuola, né sui grandi mezzi di comunicazione. I poveri, nuovi, redattori non ne sanno niente, tanto è vero che quando per forza di cose devono fare i conti con la dipartita di qualche protagonista di quel periodo, se la cavano con un paio di nozioni apprese su Wikipedia. All'interno dei social network, poi, l'argomento è ormai praticamente bandito.
Ecco il podcast:
Quello dei "maledetti '70" appare quindi un eterno, ciclico, ritorno.
Probabilmente non si sono mai fatti davvero i conti con questa storia del nostro Paese, né tantomeno "si è scritto tutto". D'altronde la specificità di simili temi è evidente e non si può nemmeno ragionare per analogie. La distanza con il cosiddetto "true crime", attualmente uno degli filoni narrativi che vanno per la maggiore sulle varie piattaforme audio-video, è evidente. La storia, o forse sarebbe ancor meglio dire "la cronaca degli anni Settanta italiani", non è infatti ascrivibile alla categoria della "nera" né tantomeno della criminalità comune. Una simile banalizzazione era già stata tentata quarant'anni fa per ragioni tutto sommato comprensibili, legate alla volontà di non riconoscere politicamente un fenomeno che dopo il Sessantotto, il cosiddetto "Autunno caldo" e poi la strage di piazza Fontana, cresceva nelle piazze e nelle fabbriche del Paese. Oggi una semplificazione di questo genere la si potrebbe fare soltanto per ignoranza.
Il podcast "Borghesia violenta", così come il libro, si divide sostanzialmente in quattro parti, ciascuna capace di aprire una porta verso un contesto politico e "antropologico" di notevole interesse: Valerio Fioravanti, Marco Donat Cattin, Alessandro Alibrandi e il caso Ramelli. Le vicende narrate, di particolare gravità, suggeriscono di evitare mistificanti "mostrificazioni" — a nostro avviso inutili ai fini di una laica comprensione degli eventi.
Quella di Fioravanti è la storia di un ex bambino-prodigio del cinema italiano, poi divenuto figura apicale dei NAR, i cosiddetti Nuclei armati rivoluzionari, che a cavallo tra anni Settanta e Ottanta insanguineranno le strade della Capitale (e non solo) con azioni di inaudita, nichilistica, violenza. Accanto a lui, o meglio al fratello Cristiano, agiva un altro ragazzo di quegli anni: Alessandro Alibrandi. Reduce dal Libano come altri operativi dei NAR, era figlio di un giudice romano di riconosciute simpatie missine. "Alì Babà" — così era noto negli ambienti della destra romana — sembrava caratterizzarsi per una personalità scissa, capace di ispirare spietatezze estreme nei confronti degli avversari (politici) quanto gesti di sconfinata amicizia verso i propri sodali.
C'è poi la figura di Marco Donat-Cattin.
Figlio di Carlo Donat-Cattin, più volte ministro e vicesegretario della Democrazia cristiana, il "comandante Alberto" è stato uno dei maggiori esponenti di Prima linea — in quegli anni, di fatto, la seconda organizzazione armata attiva in Italia dopo le Brigate rosse.
Qui, il filone narrativo si dipana almeno in due direzioni. Da un lato, non può forse essere esposta la storia di Donat-Cattin figlio senza capire chi sia stato il padre. Un discorso che per certi versi riguarda anche Fioravanti e Alibrandi, ma che per questa storia appare ancor più decisivo. Non è quindi un caso che "Contro il padre" sia stato il titolo che si è deciso di utilizzare per uno dei cinque episodi dedicati al "comandante Alberto".
C'è poi il tema dell'inestricabile rapporto con la storia di Prima linea, organizzazione armata finita nel "cono d'ombra" brigatista almeno nell'ambito della pubblicistica sugli anni di piombo.
Se da un lato sono numerosi i contributi sul tema del terrorismo rosso, e soprattutto sul caso Moro, dall'altro appaiono a tutt'oggi molto rari i lavori sui "piellini". Da noi contattata sul tema, un'importante figura dell'organizzazione ha sostanzialmente tradotto questo aspetto nella difficoltà di "piegare" la storia di PL ai fini di una strumentalizzazione di carattere "complottistico", come avvenuto per altre vicende relative agli anni Settanta italiani sulle quali sarebbero poi state costruite operazioni editoriali di successo. Una versione interessante, ma a nostro avviso non risolutiva.
Resta infine la storia dell'omicidio di Sergio Ramelli.
L'episodio, avvenuto a Milano nella primavera del 1975, è abbastanza noto soprattutto negli ambienti di destra. Tuttavia, caso forse più unico che raro, abbiamo scelto di far parlare chi di fatto preparò ed eseguì il pestaggio ai danni del giovane militante del Fronte della gioventù. L'agguato, eseguito con le terribili chiavi inglesi Hazet, avrà come epilogo la morte di Ramelli dopo alcune settimane di agonia. I responsabili? Studenti di medicina prossimi alla laurea, militanti in Avanguardia operaia — una organizzazione di estrema sinistra al tempo molto attiva a Milano. Vennero individuati praticamente tutti, a metà anni Ottanta, in piena "Milano da bere", quando erano ormai medici abbastanza affermati. Molti di loro hanno confessato, scontato quello che c'era da scontare, e poi continuato a esercitare la professione senza particolari intoppi. Alcuni di loro diventeranno primari.
La decisione di dare grande spazio alle deposizioni processuali di questi ex militanti, ormai quarantenni, rappresenta di fatto un unicum nell'ambito della pubblicistica sul caso Ramelli. Le loro parole, pur tra non poche omissioni e ritrosie, sono tutto sommato illuminanti per istruire un doppio contesto. Prima di tutto quello della militanza "anni Settanta", fatta, come spiegerà uno degli ex AO, a volte anche di una violenza amministrata da parte dei gruppi più forti a danno di altri, della stessa parte politica, ritenuti poco avvezzi allo scontro armato. C'è poi un'altra dimensione, a nostro avviso interessante, successiva, più privata ed esistenziale: quella fatta di posizioni lavorative, formazione di nuclei familiari, nuove identità, ma anche solitudini private e collettive, alimentate o silenziate da viaggi, esperienze, incontri casuali e sguardi, tra "reduci", che tutto dicevano senza bisogno di parole.
Ben lungi dall'evocare nuove derive "lottarmatiste", un interrogativo di fondo resta in chi si trova oggi ad aver a che fare per la prima volta con queste vicende: è possibile recuperare l'impegno politico di quegli anni, senza trascendere nella violenza?
Il quesito necessiterebbe di una risposta articolata, che, per ovvie ragioni, non potrà essere fornita in questo spazio. In poche battute è però possibile fissare qualche aspetto del problema. Se i Settanta si sono caratterizzati per l'impegno politico e le grandi mobilitazioni di massa, è altrettanto vero che in quel decennio hanno potuto "dialetizzare" tra loro almeno due elementi fondamentali, tipici di tutti i contesti (pre)rivoluzionari: una società giovane e un pensiero politico forte (oppure religioso-radicale, come in altre parti del mondo).
Due aspetti certamente caratteristici dell'Italia di quegli anni, che, grazie alle sue particolari condizioni, avrebbe vissuto un livello di conflittualità sociale (e poi armata) senza eguali, per durata e intensità, in tutto il mondo occidentale.
* Ideatore e amministratore del progetto "Spazio70", già autore, con David Barra, di "Maledetti '70. Storie dimenticate degli anni di piombo" (2018) e "Borghesia Violenta (2021)", entrambi editi da GOG Edizioni.

La sequenza di facce cui ha dato vita Enrico Pantani è un formidabile esempio di art brut. Tra Jean Dubuffet ed Enrico Baj, il suo segno raw si incide nella memoria, creando una incongrua sensazione di déjà-vu. Tuttavia, a poco a poco si insinua un sospetto: e cioè che il grottesco e la serialità con cui questo quaderno di volti è costruito trasformino lo sberleffo che attraversava i suoi illustri progenitori in un atto di acre rivolta. Non solo quindi dada e patafisica: ma in un certo senso, longhianamente, «grottesco per disperazione formale». Ecco, ironia, umorismo, sarcasmo non sono che il fondo di un gioco troppo serio, dove un segno così greve finisce per costituire una manifestazione viscerale di odio e amore: odio e amore pari solo alla delusione dell’autore nel notare che gli uomini del suo tempo non sono all’altezza delle sue aspettative.


Le volontarie di Pescia e Pistoia e Capannori recuperano gatti continuamente e hanno l’obiettivo di sterilizzare le femmine. Tutto questo ha un costo e spesso aiutare non è così semplice.
L’iniziativa degli eventi servirebbe a sensibilizzare le persone sull’importanza della cura e della sterilizzazione dei randagi e raccogliere i fondi per continuare l’attività di volontariato.
I disegni di Beatrice Beneforti saranno messi in vendita sul suo profilo IG sotto forma di stampe, t-shirt, borse, felpe e cappellini. Tolte le spese tecniche, il ricavato va direttamente nella cassa comune delle volontarie.
Ogni spesa sarà documentata e postata sul canale delle volontarie che si chiama “Cats and the city” dove i donatori potranno controllare l’operato delle volontarie.
Indeciso se essere the coolest man on heart, un maledetto post hippie sciroccato o un turista americano, qui mi vendo a voi come intellettuale. Chi mi ama mi segua sui social e sparga il verbo. Chi ha lo sbatto venga a sentirmi parlare a Libropolis il 13 ottobre.
‧₊˚ ☁️⋅♡🪐༘⋆ CI VEDIAMO A LIBROPOLIS IL 13 OTTOBRE 2024 ‧₊˚ ☁️⋅♡🪐༘⋆
Ok è tutto. Ci vediamo la settimana prossima. In fondo a Bengala troverete sempre e soltanto una frase di Charles Bukowski. Sappiatelo.
Bengala ti piace?
Allora vedrai che apprezzerai pure Mollette, storie stese ad asciugare, la super newsletter di Davide Bregola e Jacopo Masini. Un sacco di libri belli, un sacco di roba ganza. La cugina di Benga, Mollette.
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