BENGALA #116 - Maledetti toscani
intervista e inedito di Gipi - Pantani: Non capisco una sega - Dome La Muerte - Curzio Malaparte - Sardelli e Stecco Ducale - Ceccherini
Mi è rimasta la solitudine, che è l’unica via per la libertà. Poi ho moglie e amici, quindi è una solitudine che significa non avere appartenenza quando tutti partono in tromba in una direzione. Hai presente il pifferaio magico? Il pifferaio suona e tutti i bimbi gli vanno dietro. Poi la montagna si chiude e uno solo rimane fuori perché è lo zoppino del paese, che piange ma almeno non è rimasto inghiottito dalla montagna.
Io mi sento lo zoppino del paese, ma almeno sono libero.
Gipi, intervista a Bengala
«Di fronte a un toscano, tutti si sentono a disagio».
Curzio Malaparte, Maledetti toscani, Adelphi
O com’è difficile restare calmi e indifferenti mentre tutti intorno fanno rumore. Come è difficile anche in questi giorni di polarizzazione. Io vi assicuro che nella vita mi sono letto un sacco di letteratura distopica e visionaria, ma Orwell e Black Mirror, Miller o Baudelaire, non hanno mai immaginato un mondo come quello in cui siamo ora. Il social mondo. Il mondo dei soli.
Capisci perché l’uomo con la motosega vince le elezioni in Argentina? Non perché l’Uomo del 2023 sia più cattivo di quello di un tempo, le vince perché a furia di guardare il telefono dieci ore al giorno la gente esce di testa. Vuoi solo uno che prenda a calci il parlamento e seghi in due le tasse. Ore al giorno a pupparsi le vite fantastiche dei progressisti e dei loro sfoggi di benevolenza, dei cantanti col culo di fuori che diventano paladini di minoranze. E tu? Vuoi solo un mastino che picchi gli economisti e i banchieri, che ti spieghi come mai lavori tutta la vita e arranchi sempre. Non te ne frega niente se è giusto o sbagliato, se è immorale o meno, tu ormai sei solo quello che hai e che puoi mostrare. E non hai tempo di concentrarti su di te veramente, perché devi stare online a prendere una posizione su qualcosa, a schierarti, a posizionarti, a venderti a cercare di accodarti o rincorrere i primi della fila. Sbracci e urli: anche io sono buono! anche io sono giusto! Guardatemi!
Ma il brand di te stesso è la tua azione di un Paese in declino che non riesce a competere con le superpotenze dei famosi online.
Quando non passi tempo a venderti online lo passi a rosicare di non avere abbastanza ritorno. Ci sono un sacco di scemi che valgono pochissimo e hanno barche, successo, riconoscimento coi loro milioni di follower e li hanno solo perché recitano benissimo. Scrittori e poeti con malattie incurabili, depressi di ogni tipo, finocchi, maschi alfa, abusati, presi male, dominati, quelle con l’endometriosi. Chiunque ha una ferita ne fa una bandiera. Finti sentimenti, finti pianti a favor di camera, finte battaglie umanitarie intraprese solo per diventarne paladini ed ereditare uno scettro, finte opere di bene fatte platealmente perché tutti ti dicano quanto sei buono. Si specializzano su un tema e guidati dai loro social guru ne diventano testimonial. La ex cicciona, il bullizzato. Ce ne fosse uno normale.
L’altra sera mi è venuta in mente un’emozione che provo sempre più raramente. Si tratta di quando usavo internet a 56k, lentissimo ma i siti online erano pieni di informazioni che mi interessavano. Pedali della chitarra da comprare, dischi di band sconosciute, siti tematici dedicati a uno scrittore, CONTENUTI.
Adesso ogni volta che cerco qualcosa su Google le prime dieci pagine di risultati sono siti che vendono prodotti. Internet è sempre di più solo un grande marketplace. Profilazione del cliente, analisi dei suoi gusti e poi abbindolamento per la vendita. Solo vendita. E stiamo tutto il giorno in un universo di vendita. È come se vivessimo in un centro commerciale virtuale pieni di biosogni indotti.
I blog non esistono più, i social sono tutti parlati, tutti video. Il contenuto è così latente. Faccio una fatica bestia a trovare cose interessanti. Il più delle volte apro Instagram e sto male, provo un senso di disagio. Vedo chiunque conosco o non conosco dire cose che spesso mi irritano, che non vorrei sentire, che non ascolterei. Mi fanno cagare. Poi mi faccio cagare io, che sono pure peggio di loro, che cerco di dire la mia. Sento un imbarazzo palpabile. E senza mi par di morì, di sparire, di perdere chissà quale occasione. Ogni tanto anche io ricevo dei complimentini sui social, delle piccole gratifiche, vivo come un insetto aspettando il vostro pat pat sulla testolina.
In questi giorni ringrazio il cielo di non aver preso posizione sui social network riguardo a quello che è successo. Mi son messo a scrivere per me, ad accumulare, a fare Bengala. Bengala vuol esser questo, un riparo.
Questo numero è gigante, pieno di roba, molti di voi non lo leggeranno ma è lo stesso. Io lo lascio lì. Bengala è così.
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Gatto ciocco sei Nerino
non ti fidavi della mia mano
ora dormi nella casina di legno
drizzi la coda coi tuoi versi da volatile
non miagoli, fai come il grillo
gracchi a singhiozzi
amico goffo che ti arrampichi
ma poi non sai scendere
mi ricordi tutto della vita
Nebraska, Bruce Springsteen, l’ha scritto a casa mia
andava a fassi taglià il pane a Collodi
e gli dicevano: Gesù!
Poi parlava con Garibaldi, per chiede se pioveva
e le facce lo guardavano ma lui non ne conosceva
Bruce Springsteen l’americano, a Mazzalucchio 41
Non Paolo Fabbri 43
Con l’Apino, lo smanicato,
20,38 non solo già cenato, anche già digerito
arrivato l’inverno, coi 4 gradi,
il termosifone al minimo
E sull’alberino, Nerino il Perino
L’amico di un tempo. In un altra vita guidava il bus.
Ho sognato Berlusconi, giocava a centrocampo,
tipo Pirlo.
Si smarcava e lanciava un mediano,
questo crossava e poi di testa, la punta,
faceva un gol spettacolare.
La folla esultava.
Silvio a terra, dolorante, coinvolto in uno scontro.
Preoccupati lo portavano via di peso.
Non parlava…
Facevo caso che era vecchissimo rispetto alla squadra
ma correva. Ed ero preoccupato per lui.
Poi un’anziana dottoressa mi puliva i piedi,
diceva che avevano un odore un po’ forte
come quelli di mia madre
e io mi vergognavo.
Perché?
Nato in questo posto torvo, a tratti abbagliante. Nato in un posto a forma di cuore posto in una nazione che pare un corpo e collocato esattamente dove starebbe il cuore. Un cuore anche nero, profondo. Toscana come il Texas, la piana del Padule è la Luosiana, Santa Croce sull’Arno e Massarella un po’ come i Balcani, i dintorni di Sarajevo dove la gente fa colazione a capra bollita e grappa. Toscana Twin Peaks sopra Marliana, stessi fantasmi nei boschi. Toscana californiana a La California, sulle statali arse dalla calura estiva stessi duri coi camperos, stessi vecchi con le vanghe. Toscana bestemmie e suon di apini, di bianchini al banco e fischi alle fie, Toscana la mia infanzia, la mia vita precedente, il mi nonno, gli anni 30.
Non c’è posto in Terra che non sia casa mia quanto lei e non c’è posto che abbia ripudiato. Perché la patria si ripudia, la casa si ripudia, la famiglia si rinnega, per poi tornarle ad amare in vecchiaia. Non c’è profeta in patria lo sa bene Dante esiliato, sbeffeggiato in vita, morto lontano e pieno di nemici. Tosco, fosco.
Io non sarei ciò che sono se non fossi nato qui. Si nasce in un punto preciso del cosmo, la mia astrologa dice che ci si incanala, che lo si sceglie prima. Io devo aver fatto così.
Perché un Bengala sulla toscanità? Perché no?
Da otto anni vivo a Roma. Entro nei bar, vado al bancone, ordino qualcosa, mi metto a parlare del più e del meno. Per me parlare del più e del meno, o del tempo, è il segno che vivo in una nazione in pace. Mi fa stare bene. E c’è sempre un momento in cui il barista mi dice qualcosa come, “ma tu, mica sei de Roma?”
E io rispondo che no, non sono di Roma e sempre aggiungo: “Si sente?” e quello risponde “Avoja” e io gli dico che sono contento che si senta che lo faccio apposta o meglio, che faccio attenzione, nonostante gli anni che passano e le frequentazioni e le abitudini, ci tengo a non perdere l’accento o i modi di dire. Poi però, perché non voglio sembrare uno che sputa nel piatto in cui mangia aggiungo che però, appunto, delle cose del parlare romano sono diventate per me insostituibili. Modi di dire dei quali non potrei più fare a meno e che mi hanno portato più volte a chiedermi “come” avessi potuto farne a meno, in passato. “E quali, dottò?” mi chiede sempre il barista e allora io sciorino, come un bimbo sotto esame le mie espressioni preferite e faccio attenzione a pronunciarle bene e quando lo faccio, ogni santa volta, vedo un progredire di sorriso sul volto del mio interlocutore, una smorfia che si allarga pian piano, di qualche millimetro tendendo gli angoli della bocca man mano che vado avanti col mio elenco “mortacci tua, mortacci vostra” e questa estensione si traduce in un gran completo sorriso quando passando da un’espressione all’altra arrivo a “sticazzi” e aggiungo “come avrei potuto vivere senza poter dire “E sticazzi?”” che poi al nord mica lo sanno cosa vuol dire davvero e il barista dice “eh no”, quelli, al nord pensano che sia un’esclamazione, come “me cojoni” ma no! Sticazzi è una filosofia di vita è il salvagente di fronte all’orrore dell’esistenza. A quel punto sul viso del barista il sorriso è completamente formato e non può trattenersi e aggiunge “E daje!”.
Ma Daje no. Daje lo odio. Daje è la particella che precede il nulla. È la promessa non mantenuta di un impegno. Abbonda nel mondo del cinema. Quando qualcuno espone un grandioso progetto che scriverà (certo che lo scriverà) e che poi venderà (certo che lo venderà) a qualche piattaforma di streaming e l’altro chiude con “Daje” magari pure con una qualche convinzione ma entrambi sanno che nulla, nulla succederà. Oppure appare il daje quando racconti una qualche difficoltà che dovrai affrontare, magari degli esami radiologici che ti danno seria preoccupazione e l’altro ti dice “daje” che non è mai “hai bisogno di qualcosa?” O “Vuoi che ti accompagni?” in quel caso “daje” è la tromba che annuncia la fuga. Disprezzo daje con tutto me stesso e mi ripropongo di non usarlo mai.
Ho i miei modi toscani. Sono un toscano. Ma cosa significa essere un toscano? Non lo so. Se questo dovesse accomunarmi a un fiorentino, per esempio, ne rifiuterei la definizione. Perché alla fine, forse, non sono solo un toscano, sono un toscano di provincia. Forse per me essere toscano significa essere qualcuno abituato al niente. Qualcuno tanto abituato al niente da dover necessariamente individuare in qualche zona delle wasteland intorno a Navacchio pure una qualche forma di bellezza.
E poi significa Dante. Significa mio padre che recita a memoria pezzi de La divina commedia, significa che quel fluire di parole che per molti sono in parte incomprensibili alle orecchie mie sono voci di casa.
E poi c’è la sconfitta. ma una sconfitta diversa da quella annunciata dal daje. Una sconfitta senza fuga. un’accettazione assoluta. Quella che , una volta, in un circolo di Montemagno mi tenne per un’ora appiccicato a un muro sotto l’incombenza di un omaccione che mi parlava di politica, di come tutto fosse sbagliato in questa maledetta società, di come il comunismo (era un comunista) avrebbe potuto cambiare il mondo ma non l’aveva fatto e ora, cosa restava ora? Morte, miseria, ingiustizia e disoccupazione. E alla fine, dopo quaranta minuti che avevo trascorso annuendo soltanto, anche se in totale disaccordo, lui si fermò. Aveva finito. Si fermò, mi mise una mano sulla spalla e concluse : “Comunque a me mi importa una sega”
E poi riprese il suo posto al bar, al biliardo, al tavolo di scopa. Non fuggì, bada bene, non urlò un “daje” compiaciuto e fasullo prima di sparire nel nulla. Riprese il suo posto di guardia, e quel posto lui lo avrebbe mantenuto, e difeso, fino all’arrivo della morte.
Forse essere un toscano delle wasteland è proprio questo. Accalorarsi, avere il sangue agli occhi e poi, di fronte all’inevitabile inutilità della propria rabbia, dell’esistenza stessa di fronte alla disfatta che è la vita, chiudere con “comunque, a me, m’importa una sega”.
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Leggendo Stacy di Gipi ho avuto subito la sensazione nettissima di essere di fronte al miglior romanzo italiano dell’anno. Non importa se non li ho letti tutti, non importa se non è un romanzo, è sicuramente la cosa migliore dell’anno. Quello che ha sintetizzato Gipi in queste pagine non lo riesce a fare nessuno scrittore italiano, oltretutto lui disegna e quindi li dribbla proprio gli scrittori incatenati nei loro libri con le pagine tutte uguali.
Io non sono un lettore di fumetti e ho conosciuto Gipi negli anni del suo boom mediatico, ovvero ai tempi de LVDM (la mia vita disegnata male). In quel momento Gipi balzò come una ventata di nuovo nel panorama culturale italiano e per tanti anni è stato un punto di riferimento per tutti. Rimasi molto perplesso il giorno in cui lo vidi finire vittima di uno shitstorm epocale, da cui è uscito sicuramente cambiato.
La storia di Stacy (Cocconino press) è semplice: Gianni è uno scrittore e autore che all’apice del successo rilascia un’intervista in cui svela dei particolari macabri di un sogno che aveva fatto. Un sogno che prevedeva il sequestro e la violenza su una donna. Si ok, ma un sogno. Non basta, l’intervista esce e lui viene vessato da tutti, esiliato a lavoro, messo nell’angolo nero della vergona. Ma Gianni, che di anima quasi non ne ha, fa di tutto per rientrarci in quel mondo. Un mondo in cui tutti sono peggio di lui. Autori televisivi che scopano per ottenere una posizione sociale, ore di riunioni tra automi del lavoro e del posizionamento sociale senza anima, un protagonista irritante da quanto è schiavo della sua stessa fama. Mi ricorda John Niven che in Uccidi i tuoi amici ha fatto lo stesso tipo di lavoro ma sull’industria musicale.
Gipi non è cattivo come Niven, riesce a rasentare il tragicomico. Ci sono dei momenti stupendi. Il mio preferito è quando in una riunione di creativi si decide di inviare un messaggio di condoglianze esclusivamente tramite emoticon.
Insomma, questo libro non c’è da riassumerlo, dopo troverete un video in cui lo stesso autore lo ha fatto meglio di me. Vi lascio con alcuni stralci di dialogo avuti con Gipi e con un suo testo. Leggete Stacy! Strettamente raccomandato. Compratelo.
spezzoni di un dialogo con Gipi:
(…) I social network credo che siano distruttivi per le nuove generazioni e credo pure che verrà un giorno in cui la presenza e normalità dei social network sarà vista come noi adesso guardiamo alle pubblicità degli anni 50 in cui si raffigurava la mamma con il neonato in braccio e una sigaretta in bocca. Forse eh, perché la potenza economica delle piattaforme è maggiore di quella delle lobby del tabacco. Ma in un mondo più giusto dovremmo analizzare i dati sui danni provati che fanno i social network ai ragazzi e si dovrà dire basta, aboliamoli.
Anche per noi adulti gli effetti son pesi.
Si ma noi siamo adulti, per quanto mi riguarda mi son fatto tutta una vita per strada, senza milioni di foto, senza che nessuno mi filmasse mentre facevo una cazzata, senza dover piacere o compiacere gli sconosciuti; ringrazio il cielo di aver avuto un periodo della mia vita così. Ciononostante i danni che fanno anche a me sono incalcolabili. Il rosicchiamento giornaliero della propria integrità è enorme. Detto questo, sono pure un ipocrita perché, comunque, anche se da anni ho chiuso gli account Facebook e Twitter mi sono tenuto Instagram.
È vero però che ogni giorno ho l’impulso di chiuderlo, poi però mi dico che mi serve per lavoro ma non so se me la racconto, sai? Mica ho dei dati reali che mi dicono che Instagram mi serve. Forse me la racconto, come una scusa, perché non voglio scomparire del tutto.
Anche perché se ti tolgono Instagram come entri in contatto con gli altri?
Come si faceva prima! Telefonate e incontri, invece che cento persone: quattro. Che è meglio! Le persone che ho a cuore hanno il mio numero. Non credo cambierebbe nulla nella mia vita. Cambierebbe nella fuffa, nella possibilità di poter ricevere messaggi di stima o di offesa da sconosciuti, ma quella roba non dovrebbe esserci nella nostra vita, è una roba sbagliata. È stata inventata da degli spostati, da gente che ha trovato il modo per fregare il mondo. E mentre stiamo lì a vedere delle ragazzine con delle botte di ansia e depressione per il loro corpo che non accettano, mentre le vediamo andare dal chirurgo plastico con la foto della loro faccia filtrata dai filtri beauty delle piattaforme, mentre succede questo, gli inventori dei social network fanno i milioni. I social sono imprese di persone senza scrupoli che nascondono le ricerche di studiosi che hanno a cuore il destino dell’uomo sui danni che fanno ai cervelli delle nuove generazioni. È un’industria malvagia. Se guardi le statistiche della polarizzazione politica e degli scontri violenti puoi vedere un picco che coincide con l’arrivo dei social network. I social funzionano solo se diventi divisivo.
Hai visto il tizio diventato presidente in argentina? Io lo amo.
Anche io. ride. L’intervista in cui urla mierda mierda la adoro.
Ecco lui era possibile solo in questo momento.
Probabilmente si, ma noi siamo sempre avanti. Grillo arrivò con un Vaffanmculo Day in Piazza Maggiore a Bologna. Mussolini fu per Hitler una grande ispirazione, Berlusconi un esempio per vari populisti in tutto il mondo. A noi non insegna niente nessuno. Mielai è pazzo ma chiaramente dice delle cose inc cui i disgustati da una certa ipocrisia presente nel progressismo contemporaneo si rivedono.
Purtroppo oggi i progressisti sono i nuovi censori, hanno come risposta a ogni criticità della società la risposta giudiziaria.
Sembra che solo i giornali di destra siano un pò più propensi alla libertà d’espressione.
Sembra, perchè fanno finta. In Italia ci saranno 6 (SEI) persone in tutto davvero a favore della libertà di espressione. Io se sento uno che parla a favore di Hamas ho il sangue alla testa, ma mai gli direi che non deve esprimersi. Tra i progressisti lGli racconto che collezione le foto del Duce che ride. Fa molto ridere. Lui ride.
Massì ma certo io ho un gruppo WhatsApp con gli amici in cui ci diciamo cose che se fossero rese pubbliche ci sarebbe la gogna. Il commento che facciamo più spesso è: sei malato. È un luogo di sfogo assoluto anti ipocrisia in cui arriviamo a dire cose raccapriccianti e poi diciamo: così è troppo.
Stacy ha avuto un'accoglienza positiva che non mi aspettavo. Messaggi di persone che mi dicono: grazie. Perché c’è questa specie di piccola polizia morale (polizia morale della quale molti, a sinistra, negano l’esistenza) che sovraintende ai pensieri che esprimiamo in attesa di quello sconveniente da giudicare. Non è una cosa grave, e è pure aggirabile con un po’ di coraggio, ma è faticosa.
Non è vero che “non si può più dire niente” come sostengono molti, a destra. Ma prova a fare una riflessione che sia leggermente più complessa o controversa sulla questione trend topic del momento e poi dimmi che piega prende la tua vita.
Io adoro quanto realistico rendi il surreale. Nel libro Gianni, un autore televisivo, cerca di convincere il team di Netflix a far puzzare il fiato alla sua protagonista.
Ride. Si Gianni è un verme. Mi piaceva l’idea di avere un personaggio talmente negativo e repellente ma in grado anche di far pena.
Guarda, io fino all’ultimo lui non l’ho capito.
Eh certo, non è capibile. Io provo una grande pena per lui e ho lavorato su dei dettagli per renderlo completamente inadatto alla vita. Ad esempio quando mangia il sushi con Lalla lui inzuppa male il sashimi nella soia, dalla parte del riso. Lei li inzuppa giusti, lui sbagliati. Inzuppando il riso poi si sgretola. Lui è un coglione su ogni livello. È orrendo quando scrive la lettera di addio a Stacy, sembra una di quelle lettere in cui si dice di chiudere una relazione perché si ama troppo. Un verme vero.
riflessione sulla battuta del personaggio Gianni che si vende l’anima andando in tv:
Quella in cui si vende l’anima è una parte autobiografica, ho cercato di camuffarla il più possibile. La percezione di me che ho avuto negli anni è che ho rischiato di distruggermi per vanità, per essere apprezzato. provo tanta vergogna per il me pre-Stacy, invece Stacy è un libro di cui vado fiero. È uno dei libri più onesti che ho mai fatto e rispecchia ciò che sono diuventanto e che sono stato per vent’anni. QUando inizi a riflettere sulle idee politiche che hai di default... io vengo da una famiglia di sinistra, per me era inevitabile esserlo, nemmeno ci ho mai riflettuto sopra. Poi l’indignazione progressista mi ha infamato in modo così potente che è stata una medicina. Anche in Stacy Gianni dice che senza lo shitstorm non si sarebbe mai avvicinato a lei. Per me Stacy è la libertà da se stessi pure. Grazie alla violenza verbale che ho subito mi son dovuto fermare, perché per una volta era il mio pubblico a darmi addosso. Mi son detto: ma il mio pubblico fa questo? E quando io avevo più di centomila followers su Twitter e magari li aizzavo contro un politico, questo succedeva? Io ero quella roba li.
Ogni volta che critico fortemente qualcosa, puoi star sicuro che quel qualcosa son io. Se dico: tu sei una merda, lo sto dicendo a me stesso. Anche Stacy è tutto una critica a me stesso. Sono stato costretto a rivedere tutto, a chiedermi: ma tu davvero aderivi a quella roba? E perché ti sentivi di default migliore degli altri perché eri di sinistra? Cosa facevi davvero nella tua vita? E questo è il problema della gente di sinistra che si sente meglio degli altri. Indignarsi dà una qualche patente? Allora mi son messo a studiare, la storia del comunismo, ho letto tante cose che, inspiegabilmente non avevo mai letto prima. Cose che, inspiegabilmente, nessuno mi aveva mai suggerito di leggere, da Arcipelago Gulag in là, e ho distrutto il me che c’era prima. E son rimasto senza nulla. Non è che son diventato di destra, magari. Mi è rimasta la solitudine, che è l’unica via per la libertà. Poi ho moglie e amici, ma una solitudine che significa non avere appartenenza. Quando tutti partono in tromba in una direzione. Hai presente il pifferaio magico? Il pifferaio suona il piffero e tutti i bimbi li vanno dietro. Poi la montagna si chiude e uno solo rimane fuori perché è lo zoppino del paese, che piange ma almeno non è rimasto inghiottito dalla montagna. io mi sento lo zoppino del paese. Ma almeno sono libero.
Qui c’è Gipi che parla per 2 ore con Daniele Rielli
Quello che segue è un pezzo di Pietrino666
Dopo un’adolescenza in Toscana, si è pronti a tutto. La Toscana ti fa e ti disfa. É una manovra a tenaglia che se Nolan fosse nato a Ponte alla Ciliegia, invece che a Londra, avrebbe fatto un film sensato invece di quella caata in IMAX di Tenet. Crescendo in Toscana, sei subito messo in mezzo, tra il bello assoluto e il brutto piú schifo.
Il bello é pericoloso. Vai a vedere il tramonto dalla chiesa di Buggiano Castello. Entri in una chiesa e ci trovi le Storie della Vera Croce di Piero. Ovunque metti piede, trovi un bello che non si puó discutere, che ha anticipato la tua venuta al mondo di svariati secoli. Un bello che ti mette la testa sotto e ti paralizza. Lo guardi, ti leva il fiato, e senza accorgertene ti convinci di non avere nulla da aggiungere. Che cosa puoi fare te (te!!), rispetto a quello che è già perfetto? Chi sei te, per pretendere di avere qualcosa da aggiungere? Vai a prendere il caffè, alzi gli occhi al soffitto, e vedi questo. Come ti puó venire in mente che da grande potresti diventare Issy Wood? Forse non è un caso che Ginger Baker, dopo essersi lasciato alle spalle Clapton e la swinging London, si sia trasferito a Larciano e (pare, a quanto mi dicono) abbia fatto per anni il muratore, invece del batterista.
Il brutto. L’altro lato della manovra a tenaglia di Nedo Nolan. Quello sì che te lo raccomando, Bona Ugo. La Toscana è anche quello, un vicolo cieco che va via a Trainspotting su una ruota sola col busterino kit malossi e massette dell’ottanta. Scegli i bar degrado. Scegli l’ex pastificio maltagliati. Scegli il mulino gori. Scegli …nonsolotabacchi 3 by genny. Scegli tanta lana by mery. Scegli l’iphone 16 a rate ai gigli. Scegli la pizza al ricorda. Scegli l’ex locale di musica dal vivo che ora é sala slot VLT. O questo, che ora pare essere nulla, ma una volta lì al Poveromo ci ha svernato Walter Benjamin. Scegli le ballere il nait il tavolo il pokerino. Prendete, per esempio, uno dei ricordi piú vividi della mia infanzia. Scuola elementare Casciani, ingresso, otto e mezzo di mattina, bambini ovunque. Una persona scende in strada seminuda e si taglia le vene dei bracci, davanti a noi bimbi con le cartelle delle tartarughe ninja. La maestra ci raduna e ci rassicura che non é morto, é all’ospedale e sta bene. Ci penso ancora spesso, vorrei sapere se é vero. Vorrei sapere se era la Toscana che gli aveva messo la testa sotto.
La peggior presa per il culo, l’insulto piú cattivo della regione che ha elevato la bestemmia ad arte, è essere chiamato “artista”. Anzi, “artishta”, con un lunghissimo shhhh al posto della esse. L'artista è, per definizione, un disadattato. Una persona troppo debole per accettare la tenaglia per quella che è, passarci sopra con la macchina in leasing e fregarsene. Stiamo parlando dell’unico posto al mondo dove, ai concerti, la gente non applaude tra una canzone e l’altra, ma urla “SONAAAAA”, che cazzo smetti di suonare, continua, non te la tirare, fai il tuo spettacolino da artishta, che puoi fare il ganzo quanto vuoi, ma sempre un artishta rimani, Mi ricordo ancora la faccia di James F Johnston (uno che ha suonato con Bad Seeds, Gallon Drunk, Big Sexy Noise, PJ Harvey) quando finisce il primo pezzo, e tutti gli urlano “SONAAAAAA”. Non l’ho visto cosí imbarazzato nemmeno in Clean di Assayas, quando lo infilano in una sacca da cadavere. James F Johnston è un genio ma anche, temo, un artishta, e la Toscana gli artishti li stana col mirino laser.
Peró. C'è un peró. Per chi riuscisse a sopravvivere, a accettare la lettera shctarlatta dell’artishta, semplicemente a fregarsene, si apre un mondo. L’artishta Toscano, forgiato dai due fuochi di Piero della Francesca e del corretto stravecchio al bar riviera col borsello, puó tutto. Puó, rocambolescamente, ottenere la donazione di un quadro di Joan Miró, come riuscí a fare uno dei piú affascinanti valdinievolini onorari. Si può ritirare sulle colline sopra Pistoia, e tirare fuori un album capolavoro. L’artishta toshcano, se non affoga a testa sotto, ha il superpotere di creare il suo proprio mondo. Bengala ne è la dimostrazione. Spero che ne sia la dimostrazione anche questa playlist, dove ho raccolto qualche artishta toshcano. Non ci trovate l’Appino o altre cose famose della Toscana, per il semplice motivo che non mi garbano. Questa é, penso, gente che cerca di trovare un’uscita di sicurezza fuori dalla Toscana, un nascondiglio fuori dalla natura, tra gli assoluti del brutto e del bello. A volte sono timidi. A volte pazzi. A volte ti mettono il cuore in mano - hanno accettato la realtá: tutto è perduto, sono irrimediabilmente artishti.
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Se sapessi disegnare vorrei disegnare come Pantani, se sapessi scrivere vorrei scrivere come Pantani. Di tutti quelli che conosco Pantani è quello che racconta il mio mondo meglio di tutti. Sarà che è toscano, sarà che non lo so, ma la sintesi che riesce a far lui del mondo nessuno sa farla.
Il barre, la violenza della vita alle 10 del mattino, i vecchi che complottano di complotti, il briao col bianchino che fischia a una fia, è dove sono nato. Non capisco una sega è la traduzione in immagini di decine di scene che ho visto negli anni. Per me è autobiografico. Elucubrazioni mentali, proteste contro la società, sembra Bukowski visto da vicino Pisa.
Il libro scorre velocissimo, leggi una mini storia e ne vuoi subito un’altra. Sono tutte concatenate e tutte slegate. Sono fuori dal tempo, ambientate in un baretto di Pomarance che potrebbe essere però anche ad Asti, a Chioggia o a Barletta. Stesso volume, anche se dentro c’è una toscanità immensa. Un’aria di casa per me.
Pantani non la ama, non la accentua ma la nutre mettendola in scena.
Libro zero commerciale, fuori dal circuito dei libri di fumetto, pubblicato da un editore che in realtà fa altro, ecco una vera chicca per Natale.
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[…] E' proprio il bar il vero protagonista delle storie, non tanto per l'ambientazione, quanto per l'utilizzo del linguaggio, sporco e maledettamente intriso di luoghi comuni, minchiate volanti, situazioni inverosimili, cinismo provinciale.
Io abito in provincia, disegno la provincia, parlo e penso da provinciale, non avrei potuto in questa fase utilizzare un altro registro.
Enrico Pantani
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DI MORENO PISTO
Prima di trasferirmi in Toscana mio zio mi aveva avvertito: guarda che i toscani sono degli stronzi e tu devi essere più stronzo di loro. Aveva vissuto a Pisa quando era un ragazzino. Quella frase l'ho capita molti anni dopo. A Montecatini ci sono arrivato a 10 anni, di estate. In pineta uno con cui stavo giocando a pallone mi disse: torna da dove sei venuto, terrone. Ci andai addosso per picchiarlo, mio padre ci separò. All'uscita di quinta elementare mi presi a cazzotti con uno che mi aspettava in fondo alle scale. Il primo giorno di prima superiore, a uno che poi sarebbe diventato tra i miei migliori amici, il Lubrani, mollai uno schiaffo perché mi prese in giro. Non conoscevo nessuno nella nuova classe, ma avevo ben chiaro che non dovevo creare precedenti e farmi rispettare sin da subito. Perché i toscani sono stronzi.
Però ieri sera ho festeggiato 44 anni. In una taverna del 1200. Con amici di una vita. Tutti toscani. Mangiando crostini al lampredotto spaziali, pappardelle al ragù di cinghiale e il cosiddetto tegamino del carcerato, con le frattaglie di carne al pepe, bevendo Chianti spettacolare. Insomma, ora sono toscano anche io, più di essere pugliese (dove sono nato), più di essere milanese (dove vivo), e ho capito che i toscani sono stronzi perché sentono il fatto di essere toscani, ovvero eredi di un pezzo di terra culla della civiltà rinascimentale, arguta e ribelle come loro, tant'è che i veri toscani non sono toscani ma ancora più territoriali, locali, rionali, e prima di entrare nelle loro grazie, nei loro circoli e quartieri, devi meritartelo, ne devi riconoscere gli stigmi, i simboli, i linguaggi.
Ecco perché tra toscani c'è un campanilismo portato all'eccesso, guardate al Palio, dove c'è gente che si offende separata da una strada, perché di qua dal marciapiede sei in una contrada e di là in un'altra. Ecco perché per i livornesi e i lucchesi e gli empolesi e gli aretini e tutti gli altri è meglio un morto in casa che un pisano all'uscio e i pisani rispondono: vai vai, speriamo. Ecco perché devi capire che se un toscano ti saluta dandoti del buo di ulo piuttosto che con la frase "come sta quel budello di tu ma'?" non è per cattiveria ma per affetto. Se capisci questo e lo interiorizzi la vita è in discesa: diventi meno permaloso, più ironico e auto ironico, più amante del confronto accesso, pure dello scontro, con offese che poi finiscono in abbracci, canti alla luna ed elogi alla passera. E se ste cose non le capisci lo fai a tuo rischio e pericolo perché un toscano le utilizzerà per pigliarti per il culo. Ad esempio, si intuisce perfettamente che Selvaggia Lucarelli non abbia mai avuto un compagno livornese, altrimenti se la prenderebbe molto meno con gli altri e conoscerebbe molto meglio il gusto della satira, della battuta e pure della dialettica. Voglio dire, se fosse stata con un livornese dopo una sonora litigata non le verrebbe in mente di bloccarti su wapp e sui social. Io infatti rispondo a tutti e non ho mai bloccato nessuno.
E poi senza stare a tirare fuori i Giotto, i Michelangelo, i Caravaggio, i Dante, i Medici e il budello di tu ma' (appunto), è godereccio sentirsi affini e comprendere quel che dicono e fanno non dico i Benigni (che è un genio assoluto), non dico i Montanelli (leggetelo, capre!) e nemmeno i Marcello Lippi (uno dei più grandi allenatori dal Dopoguerra a oggi), ma i Ceccherini (sempre briao, e però il migliore di tutti, anche perché da piccino tirava le pacche a Renzi), i Monni (se non lo conoscete mi dispiace per voi), i Bebo Storti (un grandissimo, se non lo conoscete idem come il Monni) ma anche il mio amico Max, falegname di Mercatale, stesso paese del Pacciani, che l'altro giorno l'ho presentato via telefono a Marta, la mia compagna milanese (che io chiamo Cinghiala, ma ogni tanto anche smandrappona o bella fia), e lui avrà ripetuto dieci volte Porco D** e altre dieci D** Porco e poi ce l'aveva con la su donna perché non solo donna ma pure giapponese e poi altri D** 'Ane e Cane di D**, però è un cinghialotto affettuoso come pochi che per te morirebbe. Una persona qualunque lo avrebbe trovato riprovevole. Una che sta con un toscano si è messa a ridere.
In Toscana la gente è uno spettacolo più grezzo, più vivido. Io sono cresciuto incontrando Cané al bar, un pazzo che andava in mezzo alle donne sedute a un tavolo e diceva con corde vocali graffiate: e ora, vi voglio tutte a peora. E le donne lo sfanculavano senza farci troppo caso. O passando i pomeriggi con Nebbia, un vecchio sdentato che scendeva dalla montagna con un Ciao, senza casco e una paletta da vigile in tasca: "Nebbia, come stai?" gli chiedevo, è lui rispondeva: "Vai a prenderlo nel culo, finocchio". Essere diventato toscano mi ha aiutato a capire che molti problemi che gli altri reputano gravi sono in realtà relativi. Che tutto è recuperabile. Che la vita è una grappa al bancone, secca e amara, ma pure un Bolgheri profumato e meditativo. Che si può ridere di tutto, pure della morte, soprattutto della morte. Che non bisogna mai prendersi sul serio perché appena lo fai potrebbe arrivare Max a dirti: ma ti levi di ulo, mezza sega. Che la premessa e la conclusione di ogni discorso è che a te ti devono puppare la fava. Detto in sintesi ma detto meglio, se non sei toscano o non capisci i toscani c'è po'o da fare: vivi peggio. E se vivi male son cazzi tua.
Dome Dome Dome. Dalle mie parti quando si vuole bene a qualcuno si dice Bello il mi bimbo. Bello il mi Dome, mi garberebbe diddire, ma un posso. Perché Dome l’ho conosciuto si ma purtroppo non l’ho frequentato abbastanza. L’ho scoperto tardi e quando l’ho incrociato in me si è infiltrata anche una dose di riverenza.
Quando conosci un mito non ti viene da ritenerti al suo pari, ma vorresti seguirlo in capo al mondo. Mi ha fatto lo stesso effetto passare un pomeriggio con Liam Gallagher e uno con Fabri Fibra, sono stati due degli incontri più gioiosi della vita e li custodisco come ricordi bellissimi.
Dome l’ho visto qualche volta in più, ma sempre senza volerlo disturbare. Però ringrazio il cielo di averlo trovato sulla mia strada. Affido il suo ritratto a Paolo Sormani, gran penna e gran cuore.
Dome La Muerte ha rappresentato per me il sogno in provincia, il volerci credere a tutti i costi che anche io potevo sognare. Che i miei campi erano l’Alabama.
testo di Paolo Sormani
Se i CCCP si sono confezionati la loro personale con il fiocchetto rosso, sostituendo le precedenti generazioni del '68 e del '77 che si erano già ampiamente celebrate con i risultati a voi noti, allora perché non celebrare una leggenda del rock italiano come lui? Uno che, a differenza dei succitati, non si è mai venduto alle major - e poteva, eccome, per quel personaggio che era, con quel nome d'arte fulminante.
Mi piacerebbe essere abbastanza milanese per sbruffare "ma ceeerto che lo conosco". La verità è che con Dome La Muerte ho scambiato solo un paio di frasi in vita mia, per non rompergli i coglioni come tanti. Eppure, sul mio muro dei ritagli, lui ha sempre avuto qualche centimetro quadrato tutto per sé. Da quando lo vidi suonare ai tempi del Granducato HC con i CCM - Cheetah Chrome Motherfuckers - credo nel 1984, un mondo fa. Non fu un concerto, fu un plotone d'esecuzione. Dal palco, i CCM mitragliavano i punk con un fuoco di sbarramento hardcore che non lasciava prigionieri. Il cantante Syd si martoriava il petto con una lametta da barba, era coperto di sangue. A pochi metri da loro, Dome La Muerte mi appariva come il R&R in persona: capelli spioventi in avanti, due gambe secche che terminavano nella punta dei Chelsea boots, il chiodo. Dalla sua chitarra emanava una svisata di calore inconfondibile anche in quell'esibizione di ferocia. Persino sul demotape, nelle fanzine fotocopiate male, i suoi contorni carbonati da troppo toner erano inconfondibili. In lui ritrovavo lo stesso codice genetico sballato di Screamin' Jay Hawkins, di Johnny Thunders, degli X.
Quei tratti li ho rivisti a colori su Youtube nella sitcom "Casa Petrosino" di Muffa TV, che è divertentissima. L'ho scoperta per caso: e chi lo sapeva, che di cognome fa Petrosino. Lui irresistibile, con quel sorriso equino che disarma. Mi è piaciuta la sua autobiografia "Dalla parte del torto" (ndr Bengala ne ha già parlato qui). Mi è spiaciuta l'intervista a Rolling Stone per via del sussidio della Legge Bacchelli a suo nome. Loser? Perché, voi cos'avete vinto? Di recente l'ho incontrato mentre girava i CD a Wheels And Waves Italy, un weekend di moto in Versilia. Anche se ormai ho i baffi, la pancia e la mezza età, gli ho girato intorno come un corvo per dieci minuti, prima di trovare il coraggio di avvicinarlo e chiedergli - cristo - un selfie. Poche settimane fa l'ho rivisto dominare il palco a 65 anni con la sua Diavoletto nera e i Not Moving LTD. Al mi' figliolo che era accanto ho spiegato: "Vedi, gli Stones si possono tenere Keith Richards. Noi abbiamo Dome La Muerte".
L'attore hard Alex Magni e Stecco Ducale
Giorgetta a volte mi dice: ho vissuto nei peggio quartieri di Palermo, ma grezzaggine come qui in Toscana non ne ho vista mai.
È vero. La nostra è una maleducazione che sfiora la cattiveria e potrei citare i maledetti toscani di Malaparte, Bianciardi o anche Gipi, ma oggi punto su altri due profeti: Stecco Ducale e Alex Magni.
Partirei dal primo.
Premete play. Ci sta che vi schifiate o scandalizziate, ma va messo in conto.
Carlo! via Udine.
Le cose stanno così: mentre leggiamo un volume Adelphi, magari di Calasso e sorseggiamo del bourbon invecchiato, mentre camminiamo con i nostri cappotti Barbour o facciamo tapis roulant, noi uomini maschi bianchi etero colti, ci scambiamo -in segretissimo- dei vocali proibiti. In questo istante siamo liberi, frantumiamo le catene sociali, aboliamo la distanza con l'amico analfabeta funzionale o il degenerato e ridiamo tutti assieme delle stesse cose. Come urlava Gastone Moschin in Amici Miei: che bello ragazzi, ma perché non siamo nati tutti finocchi?
Passato Monicelli o il Benigni di Berlinguer ti voglio bene, forse solo Ceccherini ha incarnato il tipo toscano molesto che si vanta delle scorribande come sempre ha fatto sin dai tempi del Boccaccio. L'uomo del bar, che parla col vocione, che dice solo sconcerie, che ha sempre la battuta scema pronta.
E poi il vuoto, almeno fino a questi ultimi anni, quando è nata la mitologia di Stecco.
Stecco strega tutti, anche i più insospettabili. Più colti sono e più lo amano, forse come forma di liberazione totale da tutta la pesantezza colta che dopo un po' due palle.
I miei amici mi chiamano e mi dicono: Carlo, Carlo, Sbrodare. E recitiamo tutti, a memoria, interi passaggi di Stecco.
da La Nazione
«Viareggio, 21 maggio 2017 - Come stai? Son contento... Programma!?! Martellamento continuo... Come è andata? Alla grande... Ormai tutti parlano come lui, è lo slang dell’estate. In Versilia è scoppiata la Stecco Mania, ovunque: negli spogliatoi di calcio, al telefono, su Whatsapp, al lavoro. Addirittura un presidente di una squadra di calcio ha risposto alla domanda del giornalista: a bomba! E poi ancora diamine, solite cosine, sveglia, bravissimo, chi te l’ha detto?, ripensamento, ma tanto che vuo che sia... Potere della rete, che ha trasformato racconti (divertenti) di avventure nei tormentoni dell’estate: su Facebook alcuni video hanno superato 100mila visualizzazioni. Lui è Stecco Ducale, 42enne viareggino ex calciatore (con trascorsi anche in Promozione) e protagonista di film osé.
Dopo il boom sui social, la sua faccia è diventata un marchio registrato: è nata la prima divertente maglietta “no estoy preparado” ispirata al Messico e ad un racconto e l’autobiografia “A bomba!” che parla della sua vita tra gag (il bello è che la aquistate pure col bonus docente), situazioni paradossali, aneddoti e avventure».
La gag no esto preparado si riferisce a un episodio in cui Stecco doveva fare sesso con un trans che aveva rimorchiato. Non essendosi tirato a lucido per l'appuntamento, la trans dice di non essersi dato una lavata (non son preparato, appunto). Allora Stecco risponde: e che vuoi che sia un po' di cacchina?
Ecco, fa più stecco per l'omofobia e l'integrazione di quanto mai la Murgia, la Vagnoli, la Nappi, la schwa come cazzo si scrive e chi altro faranno mai.
Trovatemi voi un maschio probabilmente di destra, bianco, privilegiato, che campa di espedienti, avere posizioni così aperte nei confronti delle minoranze. Dovremmo mandarlo a sensibilizzare gli omofobi, farlo parlare alla Camera, ospitarlo nei centri Lila.
Ecco perché Stecco dovrebbe essere su quel paginone al posto della femminista.
Ed ecco perché siete qui.
Avete presente De Niro in Cape Fear? Ecco, il Male incarnato. Questo è Alex Magni.
Alex è l'antitesi di Rocco Siffredi, la sua nemesi (non a caso spesso e volentieri lo insulta e lo sfida). Rocco così mainstream e accettato, Alex Magni che viene preso a pugni dai mariti delle attrici.
Attore porno e colonna della casa di produzione fiorentina Cento per Centro, Alex è conosciuto dai più come: Ricciolino.
Viscido, con tatuata dall'inguine alla gola la cicatrice dell'autopsia per morte violenta, Alex è diventato famoso per una sessualità arrogante e denigrante. Se Rocco Siffredi deve la sua fama a quella volta che mise la testa di un'attrice nel cesso durante una scena, Alex potremmo dire che è oltre, che è lui stesso il cesso.
Mentre Rocco spadroneggia tra reality e santità, ormai divenuto popolare e tollerato da tutti, in grado di non scandalizzare nemmeno quando dice che si vuol chiavare Arisa, Ricciolino è una scopata non protetta in un vicolo con uno sconosciuto e la gonorrea garantita.
Ricciolino ogni tanto spunta fuori che lo hanno picchiato. Girano diverse foto di lui tutto tumefatto. In una recente intervista ha detto che si è fatto arrestare e manganellare in piazza Duomo a Milano perché dopo il vaccino non aveva più l'erezione e non poteva più lavorare.
Ai tempi, detti il numero a Moreno Pisto che lo chiamò per intervistarlo su Mow. Giorni di trattative pacco e stecco che voleva 1000 euro per un'intervista. Che tenerezza, li avessimo avuti glieli avremmo dati. Uno che pensa di prendere 1000 euro per un'intervista in Italia nel 2021 facendo porno degrado è da sostenere.
Poi io telefonai a Stecco perché lo volevo fotografare.
Niente, non voglio niente, non mi rompere i coglioni... così mi diceva. Mi chiedeva 500 euro e non l'ho mai fotografato.
Pensai a che fava che era, che non capiva niente proprio, che era stupido come la merda e che i propri miti è sempre meglio non conoscerli. Eppure, rimane sempre Stecco e io lo rispetterò a vita.
THE NEW "QUEL RAMO DEL LAGO DI COMO..."
Per pochi: L'attacco di A Bomba, il libro di Stecco Ducale.
Siamo oltre il marchese De Sade.
Niente e nessuno mi hanno fatto ridere nella mia gioventù toscana come Federico Maria Sardelli.
Sardelli è qualcosa di spropositato, qualcosa di cui non so neanche scrivere. Uno che dirige orchestre sinfoniche ed è il più importante specialista al mondo di Vivaldi, un classicista, un musicista e al tempi stesso un umorista e vignettista del Vernacoliere. L'inventore della Fava Stiappona, colui che ironizza su Omar il ritadato o prende per il culo Padre Pio e le Madonne, che passa dallo scrivere in latino al coniare neologismi come "la phya" (la figa). Il suo tratto è magico, mi fa buttare via dalle risate.
Non si può spiegare. Per questo parlerò di Luchino.
La fava stiappona, marchio registrato dal Sardelli
Per spiegare Sardelli devo parlare di Luchino, colui che chiamo "il mio avvocato", anche se mi ha solo fatto delle consulenze in passato.
Luchino è un drago, l'uomo con la carica vitale più a palla che ho mai conosciuto. Fa veramente l'avvocato è padre di due bambine bellissime e marito. Luchino è l'amico molesto del liceo che si spaccava di cannoni e che non l'avresti mai detto ma ha fatto più strada di tutti. La sua scorza dura gli fa fare il culo a chiunque e in una rissa vorrei sempre averlo al mio fianco perchè è così vero, così onesto che è puro.
Non fuma, non ha vizi se non lo champagne, è secco tirato e va a correre, la cosa che lo appassiona di più è mangiare. Cene, pranzi, grigliate, Luchino è il re della tavola e della serata. Poi gli garba i Pink Floyd e i Doors, non gliene frega niente della cancel culture, è intrippato con la Storia, le guerre e gli insetti e spara sempre a zero su tutto.
Serio quando serve ma sempre e dico sempre pronto a sparare cazzate. Cinico, fino a radere la cattiveria tipica del livornese e per questo amabile, non ha i social non gliene frega un cazzo, non so come si è pure ingegnato per leggere Bengala. La sua morale è la goliardia: sa ridere di quando a 16 anni li suoi amici per scommessa fecero segare il proprio cane a uno del gruppo ma al tempo stesso potrebbe fare il culo a chiunque in tv, da Lilli Gruber a Giletti in quanto a spessore umano.
Luchino è un personaggio potente nella mia testa come Bartleby lo scrivano o il Joker.
Insomma Luchino è una certezza.
Ecco Luchino è il Sardelli, il suo prototipo di lettore ma ancor prima di personaggio. Luchino è il suo pubblico ma anche il soggetto stesso della poetica di Sardelli, quel tipo di uomo tagliato con l'accetta ma in grado di comprendere la bellezza di un tramonto senza fargli una foto.
A scatola chiusa, senza nemmeno sapere di chi sto parlando, compratevi questo.
Son cose meravigliose che meriterebbero un libriccino. Perché non lo scriviamo io e te [o Te ed io] a due mani, riportando briciole, raccontini, ricordi e bozzetti di tutta la nostra æpopea? Secondo me si pubblica subito e darebbe gioia a tanti".
Sardelli e Borzacchini, legati da un'amicizia trentennale e dalla comune appartenenza al "Sodalizio Mvschiato", qui più volte evocato e celebrato, erano soliti inviare frequentemente l'un l'altro missive attraverso i più svariati strumenti. Dopo la scomparsa di Giorgio Marchetti, Federico Maria Sardelli ha deciso di raccogliere e dare ordine a questo materiale vasto ed eterogeneo, che racconta di un'amicizia intensa e, fortunatamente per noi lettori, feconda: sms micidiali, invettive, vignette, sceneggiature, atti di improbabili convegni, ricette, poesie, immagini, aneddoti. Il tutto con una goliardia soffusa e un amore per la parola che contraddistinguono i due autori, capaci di prendersi mai sul serio e sempre per il culo, a dimostrazione che si può andare in profondità e nello stesso tempo ridere di tutto.
da I miracoli di Padre Pio
Miracolo n. 3074 (o n. 5)
Allora ecco, diciamo che ciera un uomme che andette a riprendessi la magghina che era paccheggiata in Via Scànsati sotto gli àbberi coi piccioni debboli di sfintere e la macchina era una bellissima Miniminor vedde marcio colle stecche di legnio che costette ai su’ tempi anghe sui du’ o ttre milione (ti pallo d’i’ssettantasei). Dungue l’uommo si ghiamava Rutilio e era motto ma motto pio e ciaveva anghe i’ ssu cane che, in guanto tale, si chiamava Fulvio (e era creatura de’ Ddio), quando inzomma non trovette più la vettura. Dispèrati te che mi dispero io, l’uommo faciette tutt’i’vviale ‘n zù e ‘n giù co’ i’ccuore che gni batteva a cent’all’ora e penzette: vai, che me l’anno galumata! Allora si buttò in ginocchioni pe’ tterra sulle foglie secche con cui avevano mascherato una bella mèdda e pregò ‘ntenzamente finghé non gni apparze a PADREPIO che gni disse: «Ebbravo pignattone, e che si lascia una magghina così bella in mezzo di strada cogli abbanesi che gireno oggigionno? Ma io so’ bbuone e ti faccio i’mmiraculo: vai dai viggili, che vedrai te l’anno pottata via loro co’ i’ggangio». Allora l’uomme corse a perdigiorno fino a tutto i’vviale finghé non arrivette dai viggili che gni disse (i viggili a l’uomme): «Ebbravo pignattone, e che se paccheggia qu’i’ccesso de magghina su i’ppasso carrabbile? Meritereste che te la rottamassino subbeto e ti levasse anghe la patente, ma noi siamo bbuoni e te si fa sottanto un be’qquattrocentinajo di mutta, vedrai ci arripenze la prossima vòtta». Allora l’uommo paghette tutto sull’unghia e ringrazò a PADREPIO che sennò a quest’ora la sua magghina girava a Tirana colle puttane drento. Ame.
da Proesie
XV.
Anymali I
Trà ca trà ca trà
fa il micino
spèm sbèm ppém
fa la donnola
sbrakatrà-trò-trò-fiiiiiiiiii
fa lo scoiattolino
quando,
sul volger del meriggio,
lieti attraversan
la tangenziale.
VIII.
Discrezione
Non immaginavo
potesse dar noia,
comunque,
ora che me lo dice,
glielo sfilo subito,
si figuri,
son
gentiluomo.
XV.
(Sì, lo so, è una vecchia poesia, ma è così bella)
Lvpi
crvdi.
Lvpi
cotti.
CXXXIII.
Fvlvio I
Beato te,
o Fvlvio,
io ti invidio
molto
perché sai andare
in retromarcia
a
centotrent’all’ora.
Beato
te,
o Fvlvio.
da Anteprima di Giorgio Dell'Arti, una newsletter a cui devo tutti. La pago 120 euro l'anno, i soldi meglio spesi. Questo per chi mi dice che le newsletter non si pagano.
Su Lucignolo: «Un film involontario. Direi un’autobiografia visto che non ho inventato niente. Lucignolo sono io. Io che non ho mai avuto voglia di lavorare. Io che tratto mia madre come una schiava. Io che passerei la vita a dormire; io che sogno di possedere una donna. Io che faccio scherzacci brutti alla gente per vendicarmi di questa faccia che mi porto appresso» [Simonetta Robiony, Sta 4/3/1999].
Nel 2006 partecipò a L’isola dei famosi (fu cacciato per una bestemmia).
Esuberante, a volte eccessivo, si è fatto notare in varie occasioni: nel 2013 interruppe un’intervista a Matteo Renzi, sindaco di Firenze, che stava parlando della legge elettorale: «Io, Renzi lo conosco da bambino. È veramente un grand’uomo»; nel 2012 a Firenze venne sorpreso a terra in evidente stato di ubriachezza, e ripreso con i telefonini, mentre bestemmiava e insultava i passanti [Enrica Ventura, Lib 17/6/2012].
«Ha una faccia da capogiro e buca lo schermo. Anche lui, però, ha il vizio di bere qualche bicchiere di troppo» (Novello Novelli).
«Mi sento molto vicino a Hannibal the Cannibal. Lui ha questa maschera che gli impedisce di mangiare. Io ho questa faccia che come dico una cosa viene subito amplificata come volgarità».
cut-up dal capitolo 1 di Maledetti toscani, Adelphi
Grazie a Dio, siamo diversi da ogni altra nazione: per qualcosa che è in noi, nella nostra profonda natura, qualcosa di diverso da quel che gli altri hanno detto.
O forse perché, quando si tratta d'esser migliori o peggiori degli altri, ci basta di non essere come gli altri, ben sapendo quanto sia cosa facile, e senza gloria, esser migliore o peggiore di un altro.
Nessuno ci vuol bene (e a dirla fra noi non ce ne importa nulla). E se è vero che nessuno ci disprezza (non essendo ancora nato, e forse non nascerà mai, l'uomo che possa disprezzare i toscani), è pur vero che tutti ci hanno in sospetto.
Forse perché non si sentono compagni a noi (compagno, in lingua toscana, vuol dire eguale). O forse perché, dove e quando gli altri piangono, noi ridiamo, e dove gli altri ridono, noi stiamo a guardarli ridere, senza batter ciglio, in silenzio: finché il riso gela sulle loro labbra.”
Di fronte a un toscano, tutti si sentono a disagio.
Un brivido scende nelle loro ossa, freddo e sottile come un ago.
Tutti si guardano intorno inquieti e sospettosi.essere amati: son quelli che han natura femminile. Ma una nazione forte, spregiudicata, ardita, qual è la nazione toscana, a cui nessuno ha mai voluto bene, e che da secoli è abituata al sospetto e all'invidia altrui, perché mai dovrebbe soffrirne? Tutti siamo, noi toscani, fuorché femmine.”
E basta guardare un toscano come cammina, per capire di che stoffa sia fatto il suo disprezzo. Guardate come un toscano cammina.
Cammina a testa ritta, col petto in fuori e le mele strette.
L'elemento fondamentale del suo carattere è, infatti, l'esser spregioso: il che nasce dal suo profondo disprezzo per le cose e i fatti degli uomini, s'intende degli altri uomini.In se stesso il toscano ha fiducia, pur senza orgoglio, ma negli uomini, nella pianta uomo, no. In fondo, credo che disprezzi il genere umano, tutti gli esseri umani, maschi e femmine. E non per la loro cattiveria (al toscano non fan paura i cattivi), ma per la loro stupidità.
Degli stupidi il toscano ha ribrezzo, perché non si sa mai che cosa possa venir fuori da uno stupido.
Guarda, dico, come il toscano cammina: e ti avvedrai che cammina come se stesse sempre sulle sue, come uomo che sa, per antica esperienza, che la cosa più aborrita al mondo è l'intelligenza, e la più insidiata.
Dovevan proprio venire i piemontesi di Cavour, liberali e codini, e i milanesi del Caffè, e i bacchettoni, i barbogi, i parrucconi, gli ipocriti di tutta Italia, a torcere il naso davanti alla sboccata insolenza dei toscani. A sentir quegli «italiani», l'Italia vera non era quella sana, schietta, popolare che dice «'ioboia», ma quella a modino, di boccuccia stretta, di manine bianche, di nasino a ricciolo, di voce scivolosa, che dice «perdio», l'Italia, insomma, manzoniana. E chi sa che cosa sarebbe diventata l'Italia in mano a quei signori, se i toscani non avessero salvato l'antica e nobile tradizione di un'Italia popolare, sfrontata e sboccata, allegra e insolente, che è poi la sola Italia degna di rispetto, almeno agli occhi dei toscani, che di certe cose s'intendono più di tutti gli altri italiani.
Gran fortuna per tutti, in Italia, che i toscani siano uomini intelligenti, e perciò liberi. E maggior fortuna sarebbe, se in Italia ci fossero più toscani e meno italiani.
Poiché l'Italia ha bisogno di gente che le faccia onore: come le fanno onore i toscani col solo fatto di essere intelligenti e liberi, e perciò di far da contrappeso (seduti come sono sul fulcro della bilancia, proprio in mezzo all'Italia) alle due parti povere d'intelligenza e di libertà, in cui l'Italia è divisa.”
Passi di
Maledetti toscani
Curzio Malaparte