Bengala #16 - Gitarella nell'Abisso
Be your own prophet
artwork Studio Tonnato
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EDITORIALE UMORALE
Oggi ho ricevuto una telefonata di mia madre che mi ha distrutto.
Aveva la voce rotta dal pianto, disperata, non la sentivo così da un sacco di tempo. Era in preda a una vera crisi di pianto.
Tra i singhiozzi e le bestemmie ho capito cosa era successo. Aveva preso una multa da una vigilessa del comune.
Aveva torto, sicuramente, poichè aveva lasciato la macchina sulle strisce blu per andare da Tezenis a comprare un regalo a sua nipote che fa gli anni.
Mia madre ha 69 anni, è malata, vive con una pensione minina di 500 euro e l’assegno di mantenimento del divorso di 300. Non ha niente, nemmeno il riscaldamento nella casa pignorata in cui vive e usa le stufe a gas. Cammina male e ha parcheggiato nel posto più vicino perché si vergogna a farsi vedere con le garze nelle gambe, le fasciature, che incespica.
Conserva i soldi in delle bustine di plastica dei quaderni ad anelli e a volte li finisce. Un po’ perché non è brava a gestire le finanze, un po’ perché ditemi voi cosa fa un cristiano in Italia con quella cifra.
Tuttavia non può godere di nessuna forma di sussistenza tipo il reddito di cittadinanza, perché fino all’anno scorso ha fatto la badante per una cooperativa e ha quasi toccato gli 11 mila euro. Quindi per lo Stato se ne riparlerà forse l’anno prossimo, ma di sicuro non le toccherà mai niente. Ne’ una casa popolare, ne’ un aiuto. Sarà a carico mio se riuscirò a mantenerla visto che dopo il divorzio non ha fatto una nuova famiglia.
Il vigile urbano di per se è una merda umana. Uno statale tra i peggiori della specie degli statali. Non solo non fa niente, ma pure volendo non serve a niente. Ci sono già i semafori e gli autovelox a fare quello che fa il vigile... È un cancro di questo paese collassato e putrefatto che fa parte della vecchia era, l’ottocento in cui venne formata questa polizia. Non essendo mai stato smantellato questo corpo di polizia quello ancora esiste. Si entra con un concorso pubblico, probabilmente truccato come la maggior parte dei i concorsi pubblici che ci sono in Italia (ne ho fatti solo due ed erano truccati entrambi) e non si fa un cazzo fino alla pensione. Ah no, si fanno le multe. Le multe servono ai comuni quando sono alla canna del gas e devono fare cassa.
Le strisce blu del parcheggio… parliamone. Le posso capire nel centro storico di Firenze o Roma ma in un buco di culo come Pieve a Nievole, li dove battono le mignotte (che rispetto a differenza dei vigili), si vende l’eroina e vanno a giro i briai mi pare ridicolo.
Mia madre ha sbagliato, non ha pagato l’eurino di sosta perché probabilmente non ce l’aveva. Ne ha presi 70 in cambio di multa. C’è una sproporzione e me la accollerò volentieri io. La multa è kafkiana, una volta emessa non può essere annullata, è il protocollo totale, la burocrazia che si impone. La vigilessa scuoteva la testa in silenzio mentre lei le urlava di vergognarsi.
Siamo un Paese così, senza speranza. Ripeto: è chiaro che mia madre avesse torto quanto è chiaro che i vigili urbani siano delle merde. No?
E la gente mi parla di politica, di ideologia, di battaglie ideologiche di cui non mi frega mai un cazzo. Ecco come mai.
È chiaro che ci saranno vigili urbani bravi, amministratori bravi, magari sono anche la maggioranza, ma com’è che i buoni non si coalizzano mai per fare il culo ai cattivi? Come è che abbiamo abdicato tutto pur che ci lasciassero in pace a farci i cazzi nostri?
Guarda la politica, trovami una persona per bene li dentro. Uno che non sia indagato, che non sia una merda, che non sia corrotto. Come mai più sali ai vertici e più ci sono gli individui peggiori? È ormai chiaro a tutti che la recita di stato prevede questo cerimoniale finto in cui votiamo, ci sbattiamo, ci interessiamo a queste stronzate della politica, per mandare avanti persone e gruppi di potere a cui non mettereste in mano nemmeno il carrello della spesa.
Un esempio finale. Il sindaco del mio paese è un deficiente. Condannato a 6 anni e 7 mesi per peculato e abuso d'ufficio e fa le dirette da deficiente con i giubbotti della protezione civile e fa il fenomeno il ganzo ride, fa il cretino col gatto. E niente lui comunque è sindaco. Non gli affiderei nemmeno l'amministrazione del condominio e quello è sindaco.
E festeggiamo il 25 aprile se queste sono le basi? Che venissero a liberarci ancora allora.
Che stile! Amo il mio logo, un Paolo Proserpio originale. Il top del top.
Sono a Milano.
È la mattina del primo maggio e sembra autunno.
Sono nel letto e rigiro il Bengala per capire se manca qualcosa. È un Bengala serioso, ci sono poche foto. Ogni Bengala è diverso, ogni razzo un messaggio a se,
Sono diciotto settimane che porto avanti la newsletter e mi piace tanto farlo. Vedo che piace anche a voi visto che crescete e mi scrivete.
Il futuro sarà diverso.
Bengala si amplierà, vi preannuncio che farò dei contenuti per gli abbonati. Sarà una transizione naturale che faremo assieme. Alcuni vorranno seguirmi, altri magari no. Ma è così che si evolve.
Lo faccio anche perché mi piace l'idea di poter guadagnare da una mia competenza, da un servizio che offro. Negli anni ho più volte lavorato con aziende e brand che lamentavano il poco budget. Odio quel discorso sui soldi. O li spendi o non li spendi. Negli anni mi sono ritirato in provincia e ho cambiato lavoro proprio per smettere di rapportarmi con queste situazioni.
Adesso la svolta.
Mi piace interrompere la catena che mi lega a terzi per rapportarmi direttamente con voi che siete i miei lettori, i sostenitori di questa pagina. Gli azionisti in un certo senso. Per questo farò un Bengala per abbonati: Più contento io nel farlo e più soddisfatti voi nel leggerlo.
Questa estate finirò due romanzi. Non so che fine faranno ma li finirò. Forse ne infilerò dei pezzi qui.
Avremo più tempo per parlare di libri, nuove uscite, opinioni e tutto quello che ci piace. Da giugno almeno.
Per qualsiasi cosa scritemi su Instagram, su WhatsApp e ovunque. Alcuni ancora aspettano che pubblichi i loro contenuti e a loro chiedo ulteriore pazienza.
Un abbraccio. Godetevi i pezzoni che ho messo dentro oggi.
CONTRO L'IMPEGNO. CONTRO LA MURGIA SAVIANO E CAROFIGLIO.
È la pubblicità del dentista? Di una banca? No! È Carofiglio, l'unico scrittore che sembra un tizio delle Assicurazioni Generali. Complimenti all'art director di Colgate. Della gentilezza e del coraggio! Ma veramente? E della minchia?
da Dagospia
Walter Siti, premio Strega nel 2013, ha firmato un nuovo libro. Non da romanziere ma da critico letterario e saggista. È un' invettiva, la sua: sorniona, elegante, ricca di riferimenti «alti» e «bassi» (tra una citazione di una canzone di Salmo e YouPorn, un capitolo s' intitola: Le «storie» secondo la tivù generalista, divagazioni su talk show politici, Barbara D' Urso e Gf Vip; un altro, provocatorio: Le vittime hanno sempre ragione?), ma pur sempre abrasiva. Contro chi o cosa? Nientepopodimeno che Contro l' impegno (questo il titolo).
Prendo a prestito le sue parole: «Mi irrito quando vedo molti critici e scrittori che riducono la letteratura a essere un galoppino per le loro idee, la annegano con certezze consolatorie sulla sua onnipotenza, mentre invece la letteratura cambia davvero le cose quando urta contro la propria impotenza alleandosi a fondamentali temi umani, trascurati e rimossi: la depressione, la noia, la convinzione che nulla abbia un senso, il lasciar perdere, il rancore, l' inconcludenza, la stupidera, il basso continuo della miseria umana da cui ogni volta le ideologie si dichiarano offese e sorprese».
Come nasce l' idea di questo saggio di saggi?
«In principio c' è stata l' idea del libro, col titolo e tutto, poi è sopraggiunta la voglia di anticiparne qualche pezzetto su una rivista, L' età del ferro, che condirigo, infine l' urgenza dell' irritazione - da lei ricordata - mi ha spinto a pubblicarne alcuni stralci ancora più piccoli su Domani».
Entriamo subito in medias res. Uno dei contributi riguarda Roberto Saviano, la intervistai due anni fa in proposito, e s' intitola Preghiere esaudite. Solo che nella versione primigenia continuava con Saviano e l' abdicazione della letteratura.
«Qui c' è un addendum sul suo ultimo libro, Gridalo, che mi pare una conferma esemplare del vecchio sottotitolo. All'epoca le spiegavo come fossi consapevole di fare la figura un po' patetica del letterato vecchio stampo, ma avvertivo un clima culturale che tende a immiserire la letteratura, confinandola ai compiti o di denuncia o di intrattenimento. La situazione non è cambiata, anzi. Considerare i testi una "macchina per fabbricare rassicurazione" è tipico di quello che chiamo neo-impegno e mi fa spavento».
«Contro l' impegno», quindi «per il disimpegno»?
«No, non sono mica matto. Me la prendo con il neo-impegno perché è una versione che bada soprattutto al numero dei fruitori e al bene che può fare nell' immediato; privilegiando una forma semplificata e temi approvati come "buoni" dall' opinione di una sinistra democratica mainstream. Ho l' impressione che, anzi, sia proprio il neo-impegno a trovarsi in sintonia con la letteratura disimpegnata e di intrattenimento (guardi ai temi, e al relativo trattamento, delle fiction di Rai Uno). Nel libro ci sono parecchi accenni a un impegno capace di profondità e di autocritica: da Dante e Bertold Brecht fino a Emmanuel Carrère o Bret Easton Ellis».
Accanto al citato Saviano, ecco Michela Murgia e Gianrico Carofiglio. Considerati tre facce dell' impegno politicamente corretto.
«Sono tre scrittori molto diversi tra loro: i primi due tendono a usare la letteratura come arma di lotta (più bellico il primo, più ironica la seconda), il terzo pensa piuttosto alla letteratura come a un' estensione delle buone pratiche argomentative».
Cioè?
Assegna alla letteratura il compito di "dire la verità", e genericamente alle storie quello di "coltivare l' empatia". Io ritengo invece la letteratura possa spingerci all' odio, degli altri e di noi stessi, e possa arrivare a farci dubitare di qualunque verità».
Da qui la sua avvertenza: se gli scrittori non vogliono (in quanto intellettuali) che il loro impegno si riduca a una forma di «populismo buono» da opporre al «populismo cattivo»...
«Devono fare attenzione a non dare la priorità, nei loro romanzi, a troppi messaggi esortativi e pedagogici. Come ci insegna l' economia, la moneta cattiva finisce per scacciare quella buona».
E così torniamo a Saviano «il pugnace», il cui ritratto ha un incipit da grande arringa, e da schiaffo ai progressisti: «Difendere la letteratura non è meno importante che difendere i migranti».
«Se lui prende le distanze dai letterati che si accontentano di "fare un buon libro", alla ricerca "del bello stile", bollandoli come "codardi" - perché dal suo punto di vista non abbastanza (o per nulla) impegnati - a mio avviso contribuisce a dare un' immagine distorta della letteratura. In più in Saviano la visione manichea, speculare a quella del Potere che lui intende combattere - Potere che punta all' infantilizzazione, alla semplificazione attraverso schemi basic -, lo porta a declinare lo scrivere come categoria bellica, come arma, con la letteratura che emerge e ha dignità solo passando per situazioni estreme. Ma erano per caso borderline l' impiegato Frank Kafka, la zitella Jane Austen, il Marcel Proust che viveva di rendita?».
Si è sottoposto al test del fascistometro della Murgia, e si è ritrovato tra il «democratico incazzato» e il «non ancora abbastanza fascista, ma non più così democratico da organizzarsi per evitarlo». Il che mi è parso la divertisse.
«Ho solo ammesso che mi pareva un profilo di me piuttosto preciso».
Lei sostiene che Murgia abbia scritto il suo libro migliore quando si è cimentata nel romanzo, Accabadora, in sostanza quando ha smesso di considerare anche lei la letteratura un atto di belligeranza o comunque relegata ad un ruolo ancillare nei confronti della militanza politica.
«Michela Murgia sa distinguere tra scrittura polemica e scrittura che scava nell' ignoto; Accabadora mi pare la sua prova migliore perché affronta senza difese un tema che in lei è sempre fertile e inquietante, quello della maternità stravolta e negata».
«Un tempo a condannare erano i tradizionalisti e gli autocrati, ora sono piuttosto i progressisti, forti di un' egemonia culturale mainstream»: condanna di cosa, e perché?
«La letteratura è stata condannata molte volte dall' etica e dalla politica, perché considerata perversa o anarchica: in genere erano i conservatori a emettere la sentenza. Ora sono i democratici che ne hanno paura, perché temono che possa contagiare i bravi cittadini con idee malsane come il maschilismo, il razzismo, il fascino della dipendenza sessuale o dell' odio. Del resto, gli scrittori di sinistra più preoccupati per uno sdoganamento attuale del fascismo in Italia sembrano credere che siano le parole a generare i comportamenti, con il capovolgimento dell' approccio marxiano, per cui invece le parole sono figlie delle idee partorite dalle condizioni materiali».
Qual è alla fine il ruolo della letteratura: far maturare una coscienza civile? Una coscienza tout court? Salvare molte vite? O non piuttosto farle perdere per sempre?
«La letteratura può fare molte cose: divertire ed educare (spesso allo stesso tempo), creare una coscienza nazionale o storica, allarmare o consolare. Ma la cosa in cui credo di più è aiutarci a conoscere, per pura forza di forma, ciò che sta nascosto e spesso è ignoto all' autore stesso del testo. Le parole si alleano tra loro, organizzandosi per dire ciò che l' autore stesso non sapeva di voler dire; io sono un anziano che crede ancora che esista una profondità inconscia, sia personale che sociale, e che la letteratura sia la trappola migliore per farla emergere. Per questo diffido di chi pensa alla letteratura come a un altoparlante per diffondere idee che si conoscono già».
Essere, fare o spacciarsi per scrittore impegnato non mette anche al riparo dalle recensioni negative? Se io faccio le pulci a un autore engagé sul piano letterario, facile che questi si difenda invocando la propria scomodità sul piano sostanziale, «mi vogliono imbavagliare», inibendo di fatto il mio libero esercizio di critica.
«Naturalmente, tra le varie forme di difesa, c' è anche quella di pensare che chi ti critica sia un ingranaggio della "macchina del fango"; ma la morte della critica è anteriore a questa fase, deriva dalla fine della competenza come criterio di valutazione. Se la letteratura possono farla tutti, anche il giudizio di valore è affidato alla lotteria del mi piace/non mi piace, o amico/nemico».
I talk show come lei li racconta non sono inutili anche alla causa dei politici? Cos' ha pensato quando Nicola Zingaretti, poco prima di dimettersi da segretario del Pd, ha elogiato Barbara D' Urso perché lei aveva avvicinato la politica alla gente?
«Forse Zingaretti aveva sempre solo guardato la prima ora del programma; dopo, in ogni puntata il significato latente dello spettacolo diventava "qualunque argomento deve finire inevitabilmente in vacca". È il guaio di prendere un' opera d' arte (e uno spettacolo in qualche modo lo è) solo per un frammento invece che giudicarla intera».
Posso dirle che come lei ha trovato il Saviano più autentico solo nelle ultime pagine di Zero zero zero, quando parla di sé, così io ho intravisto il vero Siti nelle considerazioni finali: «Uso il fastidio verso la retorica come pretesto del mio disfattismo. Non si tratta di sentenze, non sono né in grado né in vena di lanciare grida di allarme, è solo una piccola rivendicazione corporativa». Oppure ho preso un abbaglio?
«Ha visto bene, in chiusura non ho saputo trattenere un dolore vero: invidio chi riesce a indignarsi per le cose del mondo. Io solo per la letteratura, e per un tipo di letteratura che forse sta scomparendo».
Scusi, Siti, ma quindi a lei chi gliel' ha fatto fare di impegnarsi così tanto «contro l' impegno"?
«Non sono abbastanza bravo da potermene disinteressare».
E QUESTI SAREBBERO I TESTIMONIAL DEL PROGRESSO
Che grande battaglia culturale è se non ha dei testimonial di livello come questi? Un PR rincoglionito, la moglie di un calciatore, un prodotto editoriale, una che canta.
Poi Rocco, il più peso di tutti. Uno diventato celebre per aver scopato una donna infilandole la testa nel cesso e tirando l'acqua.
ROMA CAPUT MUNDI
Mi piace Berretta, gli ho anche scritto per intrevistarlo ma non mi si è mai filato. Il suo lavoro è semplice e costruttivo, più simile a un catalogo che a un lavoro fotografico ma sfoggia quel che di necessario, di contemporaneo, che lo rende importante.
Ora lo compro.
LIBRO PESO MA STUPENDO
Ci sono dei libri che non posso toccare. Uno è Il mestiere di vivere di Pavese e l'altro è La ricerca della felicità di Houellebecq. Il primo perché mi devastano i giorni prima del suicidio e il secondo perché è un abisso di dolore. Ma è un abisso talmente profondo che a un certo punto diventa una visione lucida, semplice.
Houellebecq poeta è molto più introverso e triste e sincero dell'H. romanziere. Nei romanzi il cinismo e la satira fanno da padrone ma nelle sue poesie c'è un fondo di dolore totale.
Mi ci avvicino come a un libro stregato, lo apro una volta ogni cinque anni al massimo. Leggo poche righe e poi lo richiudo. È peso. Tuttavia è un capolavoro.
Non sono mai stato un lettore di Roth ma la vicenda della sua biografia andata al macero è solo l'ennesimo episodio di una cancel culture che è sempre più devastante.
Un lavoro di anni, autorizzato dallo scrittore in vita, un best seller annunciato, viene ritirato dal mercato americano perché :
da Il Giornale
«Passerà sicuramente alla storia come il primo best seller morto in culla. Il pargolo è vissuto soltanto 22 giorni, e la sua crescita che aveva del miracoloso, avendolo portato subito in vetta alle classifiche di vendita negli Stati Uniti, è stata stroncata. Non dagli stroncatori di professione, però, non dai soliti critici e giornalisti bastian contrari. A sopprimere la creatura ha provveduto chi l'ha messa al mondo: la sua casa editrice. Per fare un libro, infatti, come per fare un bambino occorre essere in due, e soprattutto occorre essere consenzienti. L'autore, da solo, non basta mai. Ma in questo caso l'autore, il padre, è stato clamorosamente ricusato dall'editrice, cioè dalla madre.
L'autore di Philip Roth: The Biography si chiama Blake Bailey ed è stato travolto da uno scandalo di natura sessuale, finendo sotto accusa per molestie sessuali e stupri commessi anni prima, a seguito delle denunce di due sue ex studentesse e di una dirigente editoriale. La sua stessa agenzia, la Story Factory, non appena ha sentito puzza di bruciato, ha rotto i rapporti con lui. E ieri, a strettissimo giro di posta, anche l'editore, la W.W. Norton & Company, ha mollato il colpo. Non volendo restare con il cerino in mano, lo ha usato per accendere (metaforicamente, s'intende) un bel falò in cui gettare migliaia e migliaia di copie. Visto, non si stampi, al contrario: si bruci. Al diavolo il successo annunciato, stop ai torchi «con effetto immediato» e ritiro dei volumi già distribuiti. Non solo, la W.W. Norton ha anche annunciato che donerà l'importo dell'anticipo del libro a organizzazioni impegnate nella lotta alle violenze sessuali.
Infine, la damnatio memoriae colpirà anche l'altro libro di Bailey edito dalla stessa casa nel 2014 che ha un titolo, letto ora, dal suono vagamente canzonatorio per l'autore: The Splendid Things We Planned, vale a dire «Le cose splendide che abbiamo preparato»...
Dicono gli ammiratori e gli studiosi di Philip Roth che a fare le spese di questa vicenda sarà però una memoria non meritevole di dannazione, quella, appunto dell'autore di Lamento di Portnoy e Pastorale americana, morto nel 2018, perché la sua biografia scritta da Bailey, lui l'aveva autorizzata, essendo il frutto di anni di incontri e di ricerche. «Ora Bailey si cerchi un altro editore, se lo desidera», tuonano alla W.W. Norton (sottintendendo: se lo trova). Il quale Bailey ha negato la fondatezza delle accuse a lui rivolte, mentre il suo avvocato, Billy Gibbens, ha fatto notare che il libro è ancora in vendita all'estero. Chi già lo possiede, ne faccia ciò che vuole. Potrebbe persino leggerlo e trovarlo un buon libro».
SOGNARE NEL CARCERE DI PALMI
Non metto mai niente de Il Tascabile, perché di solito non riesco mai a leggere un intero pezzo de Il Tascabile. Stavolta però ho fatto un eccezione e non me ne sono pentito.
Bellissimo pezzo di Ivan Carozzi, illustrato da Vincino, dal titolo Sognare nei cubicoli di Palmi.
Si narra di un piccolo carcere siciliano che fu il centro di addestramento di alcuni brigatisti, della follia che sia il carcere in se e di cosa significhi essere uomini.
L'ho letto prima dell'arresto dei brigatisti. Giuro. Vedi il caso?
Con l’inizio degli anni Ottanta migliaia di giovani e giovanissimi, operai, impiegati e studenti, accusati di partecipazione a banda armata e terrorismo, finiscono rinchiusi in strutture isolate o nel circuito delle carceri di massima sicurezza, costruite fra distese incolte o nella estrema periferia: Asinara, Cuneo, Trani, Badu e’ Carros, Fossombrone, Termini Imerese, Ascoli Piceno; le donne vengono mandate a Latina, Voghera e Messina. Nel 1979 inaugura in provincia di Reggio Calabria il supercarcere di Palmi, voluto dal generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. A Palmi vengono trasferiti circa duecento prigionieri politici, comprese alcune figure di spicco della lotta armata. Le acque viola descritte nel IV secolo a.C. da Platone e lo scoglio dell’Ulivo detto Luvareddhra, che affiora aspro davanti alla spiaggia della Tonnara, distano pochi chilometri dai cubicoli e dai camerotti dove sono alloggiati i detenuti.
A Palmi qualcosa finisce e qualcos’altro inizia: “[…] mi perdo nelle Calabrie: che si fanno sempre più Calabrie, sempre più Calabrie, finchè a Mileto, a Palmi, comincia la Sicilia”, scrive Pasolini in La lunga strada di sabbia, col cuore stretto da un sentimento d’ineluttabilità confessato nella tesi di quel “sempre più” e poi, in vista della Sicilia, confutato dal presagio di un nuovo inizio. Il carcere di Palmi è un luogo concreto e chimerico. Ricorrerà spesso nella letteratura e nella memorialistica sugli anni del terrorismo. Sarà sempre accompagnato da una certa fama; verrà ricordato come una sorta di agorà e di catino dove le vicende del decennio rivoluzionario si andavano depositando, gli anni Ottanta erano alle porte e sulla brandina, per alcuni, cominciava un periodo di metamorfosi. Palmi è uno spazio in cui si disfa e cambia di stato un pezzo di storia italiana.
“Ogni metamorfosi è, da una parte, canto del cigno, dall’altra ouverture di un nuovo grande poema che in colori brillanti, ma ancora confusi, cerca di acquistare consistenza”: è una citazione di Karl Marx usata in apertura di un documento prodotto da un collettivo di prigionieri di Palmi, pubblicato alla fine del 1982 sul periodico Controinformazione. Il brigatista Enrico Fenzi nel libro di memorie Armi e bagagli scrive:
Nella testa dei leader delle Brigate Rosse aveva preso forma un’idea: che quel carcere potesse diventare qualcosa che stava tra l’Università e il quartier generale della lotta armata. “A Palmi si studia, non si lotta!”, hanno detto per anni gli altri detenuti delle altre carceri speciali.
A Palmi viene spostato il nucleo storico delle Brigate Rosse: Renato Curcio, Alberto Franceschini, Prospero Gallinari e, tra gli altri, Paolo Maurizio Ferrari, il primo BR catturato, nel 1974, che da Palmi scrive per la prima volta alla madre. Gallinari definisce Palmi “una brigatopoli a due passi dallo Stretto di Messina”. Nelle celle e all’aria si riflette, si discute, ci si spacca tra le mozioni Partito Guerriglia e Partito Comunista Combattente, si tirano le somme e poi si scrive.
Sulla rivista Frigidaire, Vincino disegna la cella di un carcere speciale: ci mette due lettini avvolti da affettuose copertine verdi e intorno schizza otto figurine di detenuti, barbuti e in maglioncini dai colori vivaci, ritratti nel mezzo di una tormentata discussione che sembra appena piombata in un silenzio pensoso; al centro un prigioniero, dall’aria mite, serba sulle ginocchia un foglio tutto scribacchiato, mentre dalla giacca di un altro, seduto su una seggiolina, spunta il bordo di un foglio bianco. Insomma si ragiona, vengono redatti documenti e si prendono appunti, anche se sotto l’occhio di una telecamera, che Vincino non dimentica d’inserire per mostrare il carattere antiumano dei nuovi dispositivi di sorveglianza.
Da Palmi escono i documenti Per una discussione su soggettivismo e militarismo, Forzare l’orizzonte, Non è che l’inizio e l’autointervista Domande-Risposte-Domande. Oppure si replica con una feroce lettera pubblica, firmata “Il collettivo dei prigionieri comunisti delle Brigate Rosse”, alla lettera di un dissociato uscita sulle pagine del settimanale L’Espresso. La missiva è disseminata di passaggi in cui il collettivo si rivolge per nome al destinatario, come a sottintendere le conseguenze che possono derivare dalla rottura di un legame indissolubile.
Sei uno schiavo, Alfredo, uno schiavo metropolitano con le catene ai piedi e i lucchetti nella coscienza. Povero Alfredo, così ridotto a significante senza significato.
Curcio e Franceschini nel 1982 scrivono un pamphlet di quasi trecento pagine, dal titolo insolitamente evocativo: Gocce di sole nella città degli spettri. Si tratta di un tentativo di aggiornamento teorico che passa per l’osservazione della realtà metropolitana. Lo stralcio sembra nutrito da studi sulla cibernetica e sulla teoria dell’informazione:
la metropoli informatizzata appare come un grande ergastolo (…) reso trasparente dalle reti informatiche e telematiche che lo sorvegliano incessantemente. In questo modello lo spazio-tempo sociale metropolitano si ricalca sullo schema di un universo assolutamente prevedibile (…) regolato da dispositivi di retroazione selettivi e adibiti alla neutralizzazione di ogni perturbazione del sistema di programmi deciso dall’esecutivo.
Per Franceschini il carcere calabrese sarà più tardi il teatro di una trasmutazione e della scoperta di altre antropologie. Lo racconta nel volume autobiografico Mara, Renato e io: “cominciai a leggere libri che l’ortodossia brigatista aveva da sempre messo all’indice. Lessi degli indiani d’America e mi appassionò il loro modo assolutamente individuale di porsi di fronte alla vita e la loro capacità di accettare qualunque esperienza. La mia lettura preferita divenne Hanta Yo o”. A un certo punto, tra il serio e il faceto, dice di voler essere chiamato con un nomignolo che si è autoassegnato: “‘Zampa di quaglia’, uno stregone indiano. E dalla tasca tiravo fuori una zampa di quaglia vera, che avevo fatto essiccare sul termosifone della cella”. Franceschini cambia pelle. È come un affondo di pedale sulla ruota del karma. La ruota gira e per un tempo determinato il mondo e l’identico appaiono in una luce diversa. Qualcuno ricorderà una canzone, scritta da Mango e ispirata al tema del mutamento e della reincarnazione, che Scialpi cantava proprio in quegli anni, L’io e l’es, e il verso “O vita, ma quante facce hai”.
Tra i detenuti di Palmi c’è anche un autonomo calabrese, Francesco Cirillo, autore di diversi libri, tra cui l’introvabile Sotto il cielo di Palmi e poi i recenti Il bibliotecario delle Brigate Rosse e Sud e Ribellione, dove Cirillo ripercorre da una parte la sua avventura umana, politica e carceraria, con tanto di breve fuga a Parigi, dall’altra il ciclo di lotte contadine, operaie e studentesche, spesso in opposizione alle mafie locali e alla speculazione edilizia, che ebbero luogo in diverse aree del meridione, compresi minuscoli e talvolta remoti paesini della Calabria: Verbicaro, Grisolia, Africo Nuovo. Cirillo esce dal carcere per recarsi a processo nel giugno dell’81, dopo aver scontato, tra Palmi e altri istituti di pena, 424 di giorni di prigionia. L’8 giugno arriva la sentenza di condanna a un anno e due mesi. Il reato è quello di cospirazione politica e non di partecipazione a banda armata, come sostenuto dall’accusa. “Un escamotage per non riconoscere l’assoluzione piena”, sostiene Francesco. Ci siamo sentiti più volte per email e telefono.
La voce di Francesco Cirillo
Arrivo a Palmi nel settembre 1980, dopo aver soggiornato nel carcere di Potenza, dove ero rimasto vittima di un pestaggio da parte di guardie e carabinieri, e poi in quello di Lucera, dove restai in isolamento per tre mesi. A Palmi il metodo di annientamento era più psicologico che fisico. Socialità ridotta. Massimo in 6 in una stanza durante il giorno e in 15 al passeggio; perquisizioni continue, all’uscita dalla cella e in entrata, anche di notte; controllo della posta, nessuna attività ludica. Due ore d’aria la mattina, due il pomeriggio.
All’inizio degli anni Settanta eri uno studente di architettura a Napoli. Come racconteresti, da questo punto di vista, gli spazi di quella struttura?
I passeggi erano stati chiusi in alto da una spessa rete metallica, per sventare un presunto piano volto a far evadere i brigatisti con l’elicottero. Le visite erano possibili solo attraverso un vetro divisorio, non ci si poteva toccare tra familiari e il colloquio veniva ascoltato da una guardia e registrato. I cortili erano piccoli. Si camminava continuamente, avanti e indietro (“fare le righe”, in gergo carcerario, Ndr). Erano cubi in cemento alti sei, sette metri, coperti da una rete metallica. Ovunque telecamere di sorveglianza e microspie. Le celle erano di due tipi: singola o per quattro… i letti, il tavolo, gli sgabelli: tutto cementato a terra. La televisione era in una nicchia e veniva accesa o spenta dalla direzione. Anche le luci venivano accese e spente dall’esterno. La porta di chiusura era doppia. Una esterna, blindata, e una interna, a sbarre. Le guardie potevano sempre guardare dentro, aprendo lo spioncino rettangolare… La prima percezione che si perde è quella della profondità, dell’orizzonte. Le celle avevano un finestrone alto e si vedeva solo il muro davanti. Gli ingegneri che avevano concepito questa struttura erano sicuramente dei sadici e mi pare di ricordare che uno dei progettisti poi si suicidò.
Qual era il clima tra i detenuti?
Quando arrivammo noi autonomi, calabresi e non, i BR erano curiosi. Volevano sapere delle nostre esperienze creative, anarchiche e situazioniste (Cirillo da ragazzo, a Napoli, aveva militato in un gruppo situazionista, Ndr). Avviammo quindi all’interno del Comitato di campo una discussione sulla nuova società, sui nuovi bisogni dei giovani proletari.
A Palmi si studiava marxismo, perciò si era creata questa fama di università. Le teste pensanti delle BR erano tutte lì. Si studiavano l’economia, la politica delle multinazionali e quel che succedeva a livello globale. Basta rileggere pubblicazioni come Corrispondenza Internazionale e Controinformazione per farsi un’idea. C’erano Renato Curcio, Lauro Azzolini, Prospero Gallinari (che a Palmi si sposò con rito civile insieme ad Anna Laura Braghetti, Ndr), Franco Bonisoli, Angelo Basone, ma pure figure provenienti da altri percorsi, come Toni Negri, Luciano Ferrari Bravo, Oreste Scalzone e altri finiti a Palmi dopo l’inchiesta 7 aprile. Ricordo che un giorno su un muro del corridoio scrissi: “Chi vi credete che noi siam per i capelli che portiam\noi siamo delle lucciole che stanno nelle tenebre”. Il giorno dopo Prospero Gallinari mi chiese se la frase fosse di Che Guevara, io gli risposi “No, Prospero, è di Franco Battiato.”
E di Spalmy, cosa potresti raccontare?
Spalmy fu una rivista autoprodotta in carcere, nata da un’idea mia e di un concellaneo, Gianfranco Faina, mente eccelsa, un anarco-situazionista (Faina fu professore di Storia dei partiti politici all’Università di Genova e incarcerato in quanto membro fondatore del gruppo Azione Rivoluzionaria, Ndr). Faina mi regalò uno scritto inedito di Jaques Camatte, che conservo gelosamente. La sua figura in un certo modo stregò anche Renato Curcio, col quale aveva frequenti incontri. Con Faina costruimmo questa rivistina autoprodotta usando album da disegno come base, piegati in quattro come un giornale. Poi compravamo copie di altre riviste, sia di cronaca che pornografiche, e imbastivamo gli articoli ritagliando e aggiungendo un titolo. Ne facevamo tre, quattro copie a mano, poi le facevamo girare, fino a quando arrivò nelle mani del direttore la copia in cui scrivemmo che la moglie del direttore scopava con un brigatista, un fatto avvenuto davvero, ma nel carcere di Nuoro o Novara, se ricordo bene. Il direttore andò su tutte le furie e ordinò una perquisizione. Prendevamo in giro tutti, anche i brigatisti.
Che letture si facevano, tra i detenuti di Palmi?
I BR leggevano saggistica politica ed economica, studi sulle multinazionali e cronache sulla lotta armata in altri paesi. Non leggevano nulla di arte, cinema, musica. Sapevano poco sulla beat generation e sui fenomeni culturali nati dopo il ‘68 ed esplosi nel ‘77. A me piacevano la fantascienza e Philip Dick, gli scrittori sudamericani come Garcia Marquez e Manuel Scorza e poi i meridionalisti, specie calabresi, come Corrado Alvaro.
E a Palmi c’era una biblioteca…
A quel tempo molte case editrici erano di sinistra. Parlo di Samonà e Savelli, Einaudi, Editori Riuniti, Feltrinelli, Bertani. Ebbene questi editori mandavano scatoloni di libri ogni settimana e la direzione invece di distribuirli nelle celle li ammassava in un grande salone. Il prete, Don Silvio Mesiti, un giorno passò dalla mia cella e parlammo della libreria che avevo nel mio paese (Cirillo ha gestito per molti anni a Diamante una libreria del circuito Puntorosso, Ndr). La cosa lo stuzzicò e insieme discutemmo del progetto di una biblioteca. A sua volta ne parlò col direttore e io col Comitato di campo. Classificai i libri, che erano un migliaio o forse più, anche con l’aiuto di un ragazzo arrestato per mafia, col quale instaurai un bel rapporto e che convinsi a leggere romanzi di autori calabresi. Convinsi il direttore a concedere ai detenuti di mafia la possibilità di frequentare un giorno a settimana la biblioteca, ma l’iniziativa non ebbe successo.
Cosa ricordi, di quelle notti trascorse in carcere?
L’ultimo controllo avveniva a notte inoltrata. Le guardie sbattevano forte la porta blindata, poi facevano sbattere una sbarra d’acciaio lungo le sbarre della porta, per verificare se qualche sbarra non fosse stata segata. Sentivo quelli che russavano, anche dalle celle lontane. Sentivo il pianto, i lamenti, i colpi di tosse. Si aspettava che arrivasse la notte per potersi masturbare, magari sognando qualche coscia vista in tv o su qualche giornale. Di solito ci si addormentava dopo la battitura delle ventitré. Dopo, le guardie si limitavano ad accendere la luce di tanto in tanto e a sbirciare dallo spioncino. A duecento metri dalla prigione, passava la ferrovia. Di giorno non ci facevamo caso, ma nel silenzio della notte era diverso. Quei treni ci facevano viaggiare. Sognavo i passeggeri, quello che facevano, quello che vedevano. Loro non sapevano della nostra esistenza, noi invece sì e questa cosa ci faceva fantasticare. I rumori della notte in carcere ti restano nel cervello, per sempre.
Sognare i sogni di Palmi
Ho pensato di domandare a Francesco a proposito delle notti in carcere, per gettare il filo di un gomitolo che porta fino a un libro pubblicato nel 2011: I sogni di Palmi. Ne I sogni di Palmi l’ex BR Nicola Valentino – fondatore con Renato Curcio e Stefano Petrelli della casa editrice Sensibili alle foglie – ricostruisce la storia di una sorta di laboratorio basato sul sogno, nato a Palmi nella primavera del 1984 e proseguito fino all’estate su iniziativa di un gruppo di sedici reclusi, detenuti per aver militato nelle Brigate Rosse o in altre formazioni armate. Il gruppo cominciò a trascrivere i propri sogni. I foglietti con le trascrizioni circolavano di cella in cella, grazie alla complicità di un scopino, fino a formare una sorta di faldone, di manoscritto vero e proprio, oggi conservato presso l’”archivio di scritture e arte irritata” di Sensibili alle Foglie. Alla fine vennero raccolti 97 sogni. “L’esperienza di lotta armata si andava esaurendo e con essa il ciclo di lotte sociali e politiche che l’avevano suscitata”, scrive Valentino nell’introduzione, “Un’esperienza di ‘fine del mondo’, l’avrebbe definita l’antropologo Ernesto De Martino”.
Nei sogni precipitano le fantasie più disparate: l’evasione dal carcere; un mostruoso carro armato che emette un “infernale rumore di ferraglia”; una donna che si trasforma in un poster di Cicciolina; il sesso con la moglie del direttore del penitenziario (come nell’articoletto apparso su Spalmy): “Mi introduco di soppiatto in un’abitazione dove c’è una signora sui cinquant’anni, ancora piacente, che dev’essere la moglie del direttore (o roba del genere) con cui ho un rapporto di ‘dominanza’”.
I sogni non vengono sottoposti a un lavoro di analisi e interpretazione, perché si ritengono più importanti il mero racconto e la condivisione. Così accade anche presso un popolo di costumi egualitari, che vive di agricoltura “taglia e brucia” nella giungla della Malesia: i Senoi. “Le giornate di questa tribù seminomade”, scrive Valentino, “iniziano con la comunicazione collettiva dei sogni della notte”. È ai Senoi e al rito mattutino di condivisione dei sogni – reso noto grazie a un articolo dell’antropologo Kilten Stewart, pubblicato nel 1951: Dream Theory in Malaya– che s’ispira il laboratorio onirico nel supercarcere calabrese.
Come in ogni galera, anche a Palmi il corpo scalcia e grida. Nel 1984 Giorgio Panizzari, delinquente comune politicizzatosi in cella negli anni Settanta e di nuovo detenuto a Palmi, si cimenta in un gesto che ricorda una performance di body art: con del filo per suture chirurgiche, si cuce bocca e genitali.
Mi ero cucito bocca e uccello per sperimentare e verificare una cosa della quale ero convinto: che sarebbe stata la stessa cosa! Che non avrei apprezzato alcuna differenza tra corpo cucito e corpo non cucito… Che la bocca l’avevo cucita in quanto fonte e organo principale della comunicazione linguistica, logico-razionale, e il cazzo quale fonte principe (ma non certo la sola) di una comunicazione del corpo, dei suoi sentire, dei suoi desideri… Questo sostenevo. E certo non solo (e non principalmente) per via della condizione carceraria di Palmi.
Nel 1990 la stagione della lotta armata è finita da un pezzo. Alle spalle resta un paesaggio di macerie, lutti e famiglie spezzate. A Rebibbia nasce la cooperativa editoriale Sensibili alle foglie, fondata dai prigionieri Renato Curcio, Nicola Valentino e Stefano Petrella. Il primo libro pubblicato è Nel bosco di Bistorco e raccoglie le voci anonime di detenuti finiti in carcere per disparate ragioni: un corposo montaggio di minute testimonianze, di frammenti poetici e filosofici, dove l’esperienza del corpo recluso è analizzata con lucidità e restituita al lettore con trasparenza. In carcere il corpo è soggetto a una violenta amputazione e secondo i tre autori è solo grazie a uno stato modificato di coscienza che il prigioniero riesce a sopravvivere: ”Senza la valvola degli stati modificati di coscienza – delle transe spontanee – nessun recluso si manterrebbe a lungo in vita”.
In una pagina di Nel bosco di Bistorco viene trascritto un elenco parziale di trecento nomi di attrici, cantanti e soubrette, che un carcerato, con calligrafia minuta, aveva appuntato sul muro accanto alla branda: Sylvia Kristell, Whitney Houston, Mara Venier, Brooke Shields, Paola Turci, Raquel Welch, Moana Pozzi, Pamela Prati, etc.: “tanti cadaveri di lettere nere spiaccicati sul muro come altrettante zanzare”. Eppure, grazie all’appiglio di un ricordo, serbato e coltivato ogni giorno come una rosa, grazie alla scrittura di un diario, ai sogni a occhi aperti, a un profumo insinuato tra le grate e trattenuto con ostinazione fra le narici, il detenuto può trasformarsi in quel Vagabondo delle stelle raccontato da Jack London, capace di sfuggire al carcere, attraversando altre esistenze e altri universi, per mezzo dell’immaginazione. Questa sorta di corpo astrale così ottenuto, si offre come surrogato a chi passeggia avanti e indietro nel cortile di un carcere, ma forse anche a chi oggi, nella pandemia, sperimenta una nuova condizione di isolamento e di inibizione al contatto.
Palmi è stato il luogo di un mutamento, di un oscuro lavorio, di una transizione tra un prima e un post. Nei cubicoli e camerotti di Palmi sono rifluite correnti profonde della storia italiana e occidentale, esposte tanto al rischio della disgregazione quanto a quello della stagnazione. Osservando al crepuscolo il tratto di costa calabrese, allora magnogreca, che va da Palmi a Seminara, Platone parlò di un colore viola, che tingeva le acque cangianti, creando “una visione sempre nuova”.
STUPIDERA
Ok è tutto. Ci vediamo la settimana prossima. In fondo a Bengala troverete sempre e soltanto una frase di Charles Bukowski. Sappiatelo.
«L'anima non esiste. È tutta una fregatura. Gli eroi non esistono. I vincitori non esistono – è tutta una fregatura e una gran cagata. I santi non esistono, i geni non esistono – son tutte fregature, tutte favole, è così che va avanti il giochetto. Ognuno cerca solo di tirare a campare e d'aver fortuna – se ci riesce. Il resto non sono che stronzate».
da La macchina strizzafegato, in Compagno di sbronze.