Bengala #93 - Donatooo


foto Archivio Banhoff - 2023
«Come va la sua carriera?
Diceva Oscar Wilde che solo la mediocrità fa progressi»
Carmelo Bene, Si può solo dire nulla, Il Saggiatore
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EDITORIALE UMORALE
Amo Mario Giorfano perché tutti lo odiano, perché Sgarbi lo chiama rana del cazzo, perché nonostante la voce che ha e la presenza scenica disagiata che emana è riuscito a diventare Mario Giordano; e perché è brutto e sbagliato. Lo amo come si ama un cattivo delle favole o dei film, per il puro gusto di scegliere il lato oscuro una volta ogni tanto.
Amarlo non significa che penso abbia ragione o meno, anzi so che ha quasi sempre torto.
Non me ne frega niente del lavoro giornalistico di Giordano o di definirlo giornalista, io amo il personaggio mediatico che urla Donatoooo ed entra in scena in monopattino o a cercare con la torcia i soldi che in Italia non ci sono più. Cosa c'è di più semplice, di più efficace? Questo voglio dalla stramaledetta tv, non il faccione preso male di Saviano o Scanzi che si guarda e si tromberebbe da solo.
Amo Mario Giordano perché è gli anni Novanta, il berlusconismo della prima ora a cui adesso devono chiedere scusa tutti i manettari dei cento e passa processi in cui è stato assolto e i cani di Repubblica che per anni lo hanno demolito. E non sono berlusconiano, mi sta solo sul cazzo l'intellettuale di sinistra.
Amo Marione Giordano perché non è intellettuale, non è nemmeno intellettivo, è puro pathos melodrammatico ed esagerato. Lo amo perché è di destra mentre io non sono di destra ma detesto quelli apertamente di sinistra più di quelli apertamente di destra. Credo fosse così anche per Gaber che nonostante voi non lo sappiate ha scritto "Cos'è la destra, cos'è la sinistra" a tavola con niente meno che Vittorio Feltri, altro feticcio odiato dai benpensanti.
Amo Mario Giordano perché non ci ha mai mostrato Donato ma lo evoca come in una seduta spiritico psicotica che ci manda tutti in botta. I giornalisti di sinistra sono sempre in tv a parlare di opinioni di sinistra di cui invece non ci frega niente (bene spero che il PD esploda cazzo che prenda lo zero percento) invece che dare notizie e ci fanno la morale su tutto. Giordano invece fa la morale al potere e la fa da dentro il Potere supremo che è Mediaset annullando così ogni possibile credibilità e proprio perché è contraddittorio lo amo lo stesso.
Dire che l'amo non significa che io lo ami, mi sta solo simpatico. Che non è nemmeno vero, lo tollero. Anzi non mi fa né caldo né freddo.
Poi lo amo a prescindere perché rompe le palle a Fedez e lo fa sbroccare, ma ogni cosa fa sbroccare Fedez. Ne parlavo con Joe Rotto e sostenevo che Fedez fosse il contrario del vuoto emotivo, quanto piuttosto il pieno. Non trattiene manco una scorreggia, piange sempre, si lagna, è bambino, è irritante come il dodicenne bloccato in lui che è anche l'unica parte emersa, o perlomeno la predominante.
Mi fa molto ridere che una giornalista di Fuori dal coro chieda agli amici di Fedez se è gay e non ci vedo niente di male. Chiaramente Fedez è gay e la Chiara un cyborg ma chi se ne frega.
Giordano si è dissociato dicendo che lui non ha ordinato nessuna inchiesta ma io so che è una bugia e che ha solo scaricato la giornalista per passare dalla parte della vittima. Si finge trafitto, come i serpenti, poi da il morso finale. Chiaramente è un gesto convulso e malato ma fa parte dell'essere primordiale che in lui cerca la sopravvivenza da sempre. Non ne è nemmeno consapevole credo, tuttavia a me sta simpatico lo stesso.
Ogni clic a una testata online che parla della crisi matrimoniale di Fedez e della Ferragni mi fa salire il Bataille che è in me. Mi viene la cattiveria che altro che Bianciardi, io spaccherei tutto. Che poi è solo una storia di zerbinaggio alla moglie che mi fa rimpiangere tantissimo il patriarcato. Ora siamo nell'effemminato, nel regno di uomini Fedez che "non faccio la cacca perché mia moglie non vuole".
Comunque chi se ne frega. Di tutto, di tutti.
Voi leggete Bengala.

Godere
LIBRI CHE VI FANNO VOLARE
storie piccolissime, per questo importantissime.

Ogni fase della vita ha i suoi maestri. Da ragazzino andavo al Superdisco di Enzino e lui mi vendeva i dischi che mi hanno cambiato come persona. Da grande me li passavano i miei amici o dei prof illuminati.
Quest'anno ho conosciuto due persoen che mi hanno fatto scoprire scrittori e storie che non conoscevo e che mi hanno fatto volare, come Celati, Cavazzoni, Tonino Guerra, Pignagnoli, ovvero Davide Bregola e Jacopo Masini.
Nello scorso Benga ho parlato del libro di Bregola e adesso che ho in mano finalmente Polpette di Masini sono contento di donarlo a tutti voi.
Cercatelo, compratelo, regalatelo agli amici che non leggono mai, tenetevolo sul comodino per aprirlo a caso e leggervi un pezzetto ogni tanto. Qui lo shoppate.




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Non seguivo Labranca in vita, ne sentivo continuamente parlare da tutti ma non l'ho mai intercettato negli anni milanesi. L'ho scoperto postumo e sono rimasto super incuriosito dal volume dei soliti fuoriclasse dei GOG che anche a sto giro piazzano la tripla da fuori area.
Labrancoteque è la raccolta della rivista di Labranca, una summa di articoli flaianesco-milanesi in cui spazia un po' ovunque.
Masneri su Il Foglio lo chiama "il Flaiano del Trash" e penso sia azzeccatissima come definizione.
Lo introduce così:
l momento, immersi come siamo in un trash perenne, da Sanremo a Harry e Meghan ai virologi convertiti in esperti di geopolitica, non potrebbe essere più propizio per riscoprire Tommaso Labranca, che fu scrittore, autore televisivo, intellettuale “irregolare” e “controcorrente”, ignorato in vita e celebrato in morte (morte avvenuta nel 2016, in sordina, a soli 54 anni). Tra i suoi titoli “Andy Warhol era un coatto”, “Estasi del pecoreccio”, “Chaltron Hescon”. E poi un malloppo di saggi, articoli, fanzine, programmi, biografie di Renato Zero, Orietta Berti, Pietro Taricone, Michael Jackson, una “teoria del Trash”, e Pantigliate, paese dell’hinterland milanese, trasformato in osservatorio per raccontare l’Italia, dagli anni Ottanta in poi. Adesso l’editore Gog rimanda in libreria una raccolta stampata di uno dei suoi tanti progetti, la rivista “Labrancoteque”, enorme zibaldone di appunti, lacerti, spezzoni, critica musicale, diario degli errori. Perché Labranca è un Flaiano lombardo, tra le nebbie è a suo agio e non vi sfugge (viene in mente il recente documentario su Flaiano prodotto dalla Rai a opera di Fabrizio Corallo: e forse perché lo si è visto in questi giorni, lì Flaiano giovane tra le varie peregrinazioni era stato a un certo punto spedito a Pavia, e odiava quel clima e la mancanza di luce. Labranca invece vi sguazza, tra i paesi che finiscono tutti in “ate”). Al posto di Roma c’è Milano, nella commedia umana di Labranca: una Milano vissuta ai margini, lateralmente, ma difesa a spada tratta. In un’intervista concessa a uno sconosciuto (format interessante e segnaletico, una delle tante che popolano la rivista uscita ai tempi solo in pdf e solo in 13 numeri), risponde così all’intervistatore che sfotte la città lombarda. “Non sarà bellissima, ma è il luogo in cui sono nato e in cui ho i miei ricordi. Non capisco come mai si debba sempre mancare di rispetto a Milano. Metropoli? Di sicuro non lo è per estensione. Però qui si possono fare cose che altrove non si possono fare. Come sanno bene alcuni miei cari amici gay del Gennargentu che qui vanno in giro indisturbati vestiti come Wanda Osiris mentre a casa loro li avrebbero già dati in pasto ai mamuthones”
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Non è facile leggere Arbasino. Èfantastico, io lo ammiro in modo incondizionato. Non vorrei nemmeno osare parlarne, per di più in un momento storico in cui tutti si credono critici letterari nei commenti di Facebook. Però ci provo lo stesso e dico che la scrittura di Arbasino sembra fatta di appunti presi per ricordare a se stesso cose che solo lui ha vissuto e alle quali ha dato nomi segreti e sempre mutevoli. A volte le sue frasi, dopo un soggetto e un innocente aggettivo, si gonfiano di nomi, soprannomi, richiami, apposizioni, titoli nobiliari e opere. Alla fine di questa messe di incisi, con una struttura linguistica quasi germanica, mi trovo di fronte un verbo, ma non riesco più a collegare l’azione a colui che l’ha compiuta. Quindi ricomincio il paragrafo, pazientemente, tenendo fermo il soggetto con un occhio e andando a cercare il verbo con l’altro. Proprio come faccio quando sono alle prese con certa letteratura tecnica in tedesco che, in un’orgia di subordinate, descrive il funzionamento di una pressa. Non crediate noiosa quella “letteratura grigia”. Quegli opuscoli sono più attanaglianti di qualsiasi giallo. Immagino il tecnico che per righe e righe resta immobile, le mani sollevate di fronte alla presa che ruggisce, in attesa di arrivare in fondo alla frase e scoprire finalmente qual è l’azione che il verbo gli impone. Quando lo scopre è troppo tardi e la macchina ha preso il sopravvento sull’uomo. Per leggere quegli opuscoli, così come per leggere gli adelphini arbasiniani (anche Le Piccole Vacanze o L’ingegnere in blu da lui dedicato a Carlo Emilio Gadda) impiego il doppio del tempo che richiederebbe la loro foliazione. E ogni volta scopro che al massimo potrei essere protagonista dell’opuscolo tecnico germanico: io solo con una pressa, una lavatrice, un computer, una radio davanti e basta. Il mondo ipersociale di Arbasino mi è invece precluso. Èun mondo descritto nei dettagli, in cui tutti conoscevano tutti e tutti erano bravissimi e famosi, sempre impegnati in cene, incontri, tè, dibattiti, convegni, serate e soirées, prime teatrali, scambi di pettegolezzi tra/su intellettuali europei, viaggi nei luoghi più remoti del mondo. Anche in questo libro sul mondo letterario londinese degli anni Cinquanta tutto è così. Ci sono sempre richiami a contesse, marchese, ville e magioni, famiglie nobili o comunque ricche, altri autori, qualcuno famoso, la maggior parte a me ignoti. Amori, pettegolezzi e sesso facile, fortunati loro che sono stati gli ultimi a farlo. Mica come noi che abbiamo iniziato a smutandarci verso il 1983 e ci siamo subito tirati indietro terrorizzati da notizie su virus sconosciuti.
In Arbasino non c’è mai un richiamo alla quotidianità, alle necessità del lavoro. In Arbasino ci si nutre, non si mangia. A volte ci si mette a tavola solo per il gusto di sedersi con editori potenti e scrittori premiati, non certo per ordinare del cibo. Con Arbasino non si prende mai la metropolitana, ma si viaggia in treni dai sedili damascati, aerei, navi da crociera, risciò. Se è a Londra, solo taxi. Rispettoso di una vita che si srotola tra il diktat baudelairiano del lusso e della voluttà. Ci sarebbe anche la calma, ma la scrittura di Arbasino non è mai quieta, è un ribollire, spesso anarchico
ma sempre perbene, che mette ordine tra agende affollate. Senza mai uno sbadiglio, una giornata di pioggia, un sabato come questi che trascorro io, senza un solo squillo di telefono. Quando deve trattare argomenti popolari, come la nascente Swingin London che ancora non si chiamava così, Arbasino lo fa con le pinze, sempre pronto a far notare le ascendenze proletarie dei giovani che si vestivano come ai tempi edoardiani. E non manca mai l’osservazione del dettaglio: il colletto è sporco, la redingote di velluto è lisa, gli jabot ingialliti, i gilet di damasco chiazzati.
Pannunzio da Roma avrà a un certo punto telegrafato: «Alberto, dicci qualcosa del popolo, non stare rintanato tra il cuoio dei club e il velluto dei teatri vittoriani».
E lui si sarà turato il naso e avrà fatto un giro per le strade popolari quando ancora in giro c’erano quasi solo inglesi e non la massa di immigrati odierna. Anche se, con spaventosa chiaroveggenza, la vecchissima scrittrice Ivy Compton-Burnett nel 1965 diceva ad Arbasino: «Ma i negri ci vogliono, altrimenti chi farebbe i lavori che gli inglesi non vogliono più fare, come pulire le carrozze ferroviarie?». E lui avrà annuito, solo dopo averci descritto con puntigliosità e spavento lo squallore in cui la celebre narratrice ha scelto di abitare, una casa modesta in una zona poco centrale della città.
Eppure Arbasino è grande anche quando fa lo snob e ti verrebbe voglia di prenderlo per il bavero della tremenda camicia a motivi paisley con cui si fece fotografare negli anni Settanta. Poi ti passa, quando leggi commenti suoi e dei suoi intervistati sul mondo in cui vivevano e ti accorgi che andrebbero bene anche oggi, come se non fossero passati sessant’anni da allora. Un solo esempio: «...tutta quella gente che professa grande amore per la sinistra, vuole abbracciare fin dagli anni Trenta tutta la classe lavoratrice... E poi non tollerano i flippers, non possono soffrire gli scooters, si tengono lontani da ogni juke-box, una uscita dalle officine li fa star male, dalle caserme non ne parliamo, a entrare in un bar popolare non ci riescono, è troppo, la coca-cola non la bevono... passano il tempo a fare noiosissime chiacchiere con noiosissima gente identica a loro... chiacchiere di cui poi non si capisce niente, e del resto non valgono niente, e sarebbe questa la sinistra inglese...» (Angus Wilson, scrittore, 1958). Di Arbasino amo il non aver mai fatto finta di appartenere all’ala politica di moda. Di Arbasino invidio l’esistenza affollata di nomi e di incontri. Mentre torno a casa dalla lavanderia mi domando se gli altri che fanno il mio lavoro, i coetanei o i più giovani, hanno in questo istante un’esistenza da société arbasiniana o se sono solo io a galleggiare isolato e ignorato in un angolo del mondo, dietro piazzale Corvetto.

COMPRATE IL LIBRO DI LABRANCA SUL SITO DEI GOG
ALL'ANIMA E C T MUORT LEONE
18/4/1928 - 27/2/2017

foto Toni Thorimbert
pezzo apparso sul mitologico Writeandroll Society qualche anno fa.
Negli ultimi anni era giunto a una sorta di sintesi, un verso gutturale e ispido con cui scimmiottava un handicappato e mugolava a voce alta (possibilmente in posti affollati) DAAAAA-DAAAAA. La gente lo guardava infastidita in modo sinistro come se fosse la creatura di un mondo a cui nessuno voleva guardare. Leone Di Lernia lo faceva apposta per rompere i coglioni e per affermarsi prepotentemente sugli altri. E ci riusciva.
Ho lavorato per cinque anni a Radio 105 e la prima persona a cui sono andato a porgere la mano fu Leone. Gli dissi: sono cresciuto con TI SI MANGIATE LA BANANA. Mi lasció finire, fissandomi in silenzio con una evidente sicurezza di sé, poi declamò: RICCHIONE! CHI TE MMUORT! Non avevo mai sentito un uomo della sua età parlare così. Rimasi spiazzato. Anni dopo mi ribattezzò: GESÙ CRISTO. Mi chiamava così per la barba. Mi chiese di memorizzargli nell’iPhone il mio nome come GESÙ 105 mi pare. Aveva un iPhone con i caratteri giganti perché non ci vedeva. Era anziano, aveva la stessa età di Berlusconi e se ne vantava.
L’ho visto tutti i giorni della mia vita lavorativa per cinque anni. Eravamo in confidenza. Gli facevo una foto e mi faceva: fa vedere! Non sei buono a fa le foto Gesù! Certi giorni, dal niente, mi avvicinava e mi ripeteva: Gesù Cristo tu non ce la farai MAAAAI. Tu non sfonderai MAAAI. Io sapevo che intendeva esattamente il contrario ma non glielo davo a vedere. Mi ci scornavo, gli davo contro. A volte ci passavo mezz’ore intere scappando dal lavoro e rifugiandomi a oziare al Moscova7 il bar sotto l’ufficio, lui mi diceva: nel tuo ufficio GESÙ siete come i carabinieri: in cinque per mandare un fax. Uno fa il numero, uno mette il foglio, uno fa un bocchino alla puttana de sorata! Sempre questa cosa mi diceva. Sempre così. Sempre al bar Moscova7, dove Leone urlava con il proprietario Roberto (altro personaggio epico) e pranzava rigorosamente accompagnato dal fedelissimo Paperino di Pap’s n Scars con cui formava una coppia tanto strana quanto unita, o talvolta da suo figlio Davide. Quando non era molesto o lamentoso, il bar era come se fosse suo. Leone troneggiava all’ingresso canticchiando canzoncine scabrose e invadendo i passanti. La gente non sapeva come sottrarsi alle sue grinfie. Guardava un signore di mezza età e con la vocina da bambino diceva: lui si fa inculare dai trans, indicando me o chi aveva accanto. Oppure mimava in silenzio e con una dinamica facciale impressionante il gesto del pompino inseguendo qualcuno. Quello non si accorgeva di niente, ma tu assistevi allibito e divertito alla scena. Alcuni ne rimanevano terrorizzati, turbati. Altri non riuscivano a smettere di ridere e chiedevano bis in cui lui si dava, incurante di perdere ogni dignità pur di essere al centro dell’attenzione. Trovandomi in strada con una mia amica che non conosceva le disse: mia figlia alla tua età succhiava i cazzi ai cavalli. Ho i video! Io ridevo, lei ancora oggi lo ricorda irritata. Era uno che divideva, Leone. Lo spettacolo era la sua vita. Trasformava il marciapiedi in un palco.
Una volta passò una coppia gay tipica milanese, vestiti da dio e improfumati, con un barboncino col cappottino. La coppia lo riconobbe e passò oltre. Lo guardavano un po’ schifati e lui li fissò in silenzio lasciandoli sfilare e seguendoli con lo sguardo da bambino matto. Una scena da western, tutti si aspettavano il peggio. E quando il pericolo sembrava scampato e la coppia fu di spalle lui ululò a tradimento: il cane è ricchione! E tutti giù a ridere. Questo era Leone. Era un rompicoglioni unico, girava con il suo iPhone pieno di video porno in cui dei negri superdotati si sbattevano le vecchie. GESÙ CRISTO, GUARDA QUA! La maggior parte delle volte lo evitavo perché se avevo una giornata così così lui era capace di infierire fino a sfinirmi. Se capiva il tuo punto debole eri finito. Gesù Cristo, mi diceva, vai in un posto in stazione centrale ci sono le vecchie che se te le scopi ti danno 5000 euro ma tanto non lo fai Gesù perché tu non ce la farai maaaaaai.

foto Toni Thorimbert
pezzo apparso su Writeandroll Society.
(continua da sopra)
A volte invece si apriva e tirava fuori una saggezza da uomo di mondo, da uno che ne ha viste tante. Era lo stereotipo del terrone che ha avuto successo, ostentava foto abbracciato a De Niro, a cena con Berlusconi (ora che ricordo era Berlusconi che cenava e rideva come un matto mentre Leone teneva banco facendo casino davanti al tavolo un po’ imbucato). Chiunque veniva in radio ci si fermava a parlare. Chiunque. Lo prendevano in giro ma poi non potevano fare a meno di farcisi una foto. Leone viveva per essere riconosciuto ma non conosceva spesso i vip che lo adulavano. E tu chi cazzo sei? Era solito dire a gente famosa. Mi pare Santamaria una volta chiedesse allibito ai conduttori di 105 Friends: ma quello è matto?
Si concedeva a chiunque senza limitarsi mai. A volte diceva delle verità assolute che poi rinnegava ritornando nel suo atteggiamento passivo aggressivo, ma intanto le aveva dette. Così quando gli proponemmo di intervistarlo per WNR accettò e ci fece un gran favore. Andai a prenderlo in macchina a casa e lo portammo in studio da Toni. Era la prima volta che chiedevamo a un fotografo così importante di collaborare con noi e incrociavamo le dita: speriamo non ci faccia fare figure. La stretta di mano tra Toni e Leone fu epica. Leone serio disse a Toni: sì, ti conosco. Ottimo inizio. educato. Poi concluse: sì, ti conosco, tu succhi i cazzi in stazione centrale. Io e Moreno ci guardammo terrorizzati, poi scoppiammo tutti a ridere, Toni più forte di tutti e Leone si mise in posa. Gli vennero fatte le due foto più belle che gli sono mai state fatte ma lui manco le ha mai guardate. Perché era così. Ti faceva bestemmiare tanto era testardo. Aveva la smania di apparire ma poi si atteggiava come se non gliene fregasse niente, parlava del suo momento più alto di celebrità come con disprezzo, scoglionato. Eh sai che novità? pareva dirti. Parlava di sé come del più famoso dei famosi: OH GESÚ CRISTO A ME MI CONOSCONO TUTTI. Ed era vero. Viveva tempestato di telefonate perché allo Zoo di 105 davano di continuo il suo numero in onda. Lui rispondeva in vivavoce seduto sulla panchina del marciapiede del Moscova7 in modo che tutti potessero sentire. E li abbaiava insulti a gente che lo chiamava per insultarlo. Spesso si trattava di ragazzini. Ma lui non risparmiava L’ANIMA DE CHI TE MMUORT! a nessuno. Era il suo show. Lo incontravi camminare tra Turati e Moscova col borsello e il cellulare sempre in mano. Parcheggiava la Punto (che guidava pure bene) in doppia fila o sul parcheggio residenti, smoccolando. Quando eri felice magari per un motivo personale lo salutavi da lontano e lui ti rispondeva sorridendo, dandoti spago, sembrando per una volta “contenuto”, per poi chiudere con un: CIAO RICCHIÓ! O DAAAA-DAAAAA. Era sempre Leone. Sempre. Non staccava mai. Ti faceva sentire che eri tu il vecchio tra i due.
Non beveva, non fumava, odiava le droghe. La sua unica droga, ti rispondeva, era stata la fica. Aveva sempre aneddoti svilenti su chiunque, raccontava segreti e pseudo segreti di vip. Mazzoli in primis. Di lui diceva: se io muoio si ammazza, vive per me, senza di me si sente perso. Poi quando i vip li aveva davanti un po’ li lisciava e un po’ si faceva lisciare. Era lavoro. Era il suo personaggio.
Ieri mattina avrebbe goduto come un pazzo a trovarsi come notizia di apertura del Corriere.it. Abbiamo fatto il botto, ti avrebbe detto gongolando. E poi come sempre concludeva: OH CHI TE MMUORT! LEONE DI LERNIA NON MORIRÀ MAAAAAAI. lo diceva sempre. Mi viene da piangere sorridendo a pensare che è morto ma al tempo stesso qualcosa mi fa dire che aveva ragione. Leone Di Lernia non morirà mai.
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VOCALI VOLANTI INSTAGRAM SVALVOLI

Come sapete amo i meme e le pagine sceme. Questa settimana volo del tutto con l'italiano sgrammaticato di vocali volanti.
La frattura tra linguaggio e realtà è aperta, c'è un buco nero che ne risucchia il senso. Non importa nemmeno più che la frase sia corretta o meno, si capisce in linea di massima. Se una volta il problema erano i congiuntivi ora direi che è proprio il significato.
Siamo al grado zero dell'Italiano, sta nascendo un nuovo volgare, un nuovo volgo, un nuovo buco nero.
Andate su Instagram e spompinei di questa pagina.
È O POLIPETT
MO LUAIN A ME N T PREOCCUPA
...
E CAI NUN È NIENT
...
CHILL TO FANN CO CO
CO MICROSCRO
O MICRO...
O MICROSCOPR JA
O LASER JA
NO NO CO MICROSCROP O FANN
VABBUO' COMUNQU NUN È NIENT
NUN È NIENT MAGG FATT ROJ VOT
ME L'HAN FATT A ME
CAPI' RAFÈ T'APPOST JA
E SE LO DICE LA NONNA TUTTO OK
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MAMMA MIA HO VISTO LA TUA FOTO
SEI TROPP BELL
TI SPOMPINEI
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OPEN AGASSI

Una lunga sequela di sacrifici, sudore e gloria, qualche aneddoto divertente e un quintale di noia. Questo erano le biografie sportive fino alla metà degli anni 2000. Poi è arrivato Open, l’asteroide che ha spazzato via i dinosauri dello storytelling: un’odissea psicoanalitica scritta come un romanzo di avventura. Il tennis è solo un pretesto, un cartonato di sfondo, un semplice innesco per un caso editoriale che rimarrà nella storia. Molti ne hanno attribuito tutti i meriti a J.R. Moehringer, premio Pulitzer e ghost writer anche di “The Spare”, ma io credo che il tocco da fuoriclasse di Agassi sia decisivo.
Estratti:
Odio il tennis, lo odio di una passione oscura e segreta, l’ho sempre odiato.
Di tutti gli sport praticati da uomini e donne, il tennis è il più simile all’isolamento carcerario. Il tennis è lo sport in cui parli da solo. I lanciatori di baseball, i golfisti, i portieri borbottano tra sé, ovviamente, ma I tennisti parlano con sé stessi – e si rispondono.
Io però non credo che WImbledon mi abbia cambiato. Anzi, ho la sensazione di essere stato messo a parte di un piccolo, ignobile segreto. Vincere non cambia niente. Adesso che ho vinto uno Slam, so qualcosa che a pochissimi al mondo è concesso sapere. Una vittoria non è piacevole quanto è dolorosa una sconfitta. E ciò che provi dopo aver vinto non dura altrettanto a lungo. Nemmeno lontanamente.
Agli Us Open raggiungo i quarti. Incontrerò Connors. Prima del match mi avvicino gentilmente negli spogliatoi e gli ricordo che un tempo ci conoscevamo. A Las Vegas. Avevo quattro anni. Lui giocava al Caesars Palace. Abbiamo palleggiato insieme.
No, risponde lui. Oh, bene. In realtà ci siamo incontrati ancora, più volte, quando avevo sette anni. Si ricorda? Le consegnavo le racchette. Era mio padre ad incordargliele ogni volta che veniva in città e io gliele portavo al suo ristorante preferito sulla Strip.
No, ripete lui, poi si sdraia su una panca, tira un lungo asciugamano bianco sulle gambe e chiude gli occhi.
Liquidato.
Il suo comportamente concorda con tutto quello che ho sentito dire di Connors da altri tennisti. Uno stronzo, dicono. Un testa di cazzo villano, borioso, egomaniaco.
STUPIDERA





















Ok è tutto. Ci vediamo la settimana prossima. In fondo a Bengala troverete sempre e soltanto una frase di Charles Bukowski. Sappiatelo.

«La cosa migliore è essere soli, ma non del tutto. »
da Il capitano è fuori a pranzo (Feltrinelli)
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