BENGALA #144 - HANNO VINTO I RICCHI
Perché odi il tuo lavoro? - Pausa Pranzo Charles Traubb - Walker Evans - Raymond Carver - Poster
«È l'ora che si tiran fuori le idee
Per diventare miliardari anche se
Esiste già quel che vogliamo inventare
Ci manca solo il disco orario solare
Resta la soluzione divi del rock
Molliamo tutto e ce ne andiamo a New York
Ma poi ti guardi in faccia e dici dov'è
Che vuoi che andiamo con ste' facce io e te
Con un deca non si può andar via
Non ci basta neanche in pizzeria
Fermati un attimo all'automatico
Almeno a piedi non ci lascerà
In questa città».
Con un deca, 883
Lavorare fa schifo.
Non serve a niente se non a pagarsi a malapena le bollette e detesto tutta la retorica del sacrificio della Repubblica fondata sul lavoro. Perché è fondata sul lavoro si, ma di pochi; un lavoro pagato male e spesso denigrante.
Se a 40 anni nel 2024 sei ricco: i soldi o li hai ereditati o li hai rubati.
Lavorare è per morti di fame come me. Ma va bene, figa potrei essere nato in Siria o senza le gambe, potrebbe sicuramente esser peggio.
Che poi la mia pigrizia è si idelogica, ma anche genetica.
La mia amica Elena me lo dice sempre: non conosco nessuno come te a cui fa cagare lavorare. Paradosso eh, perché poi lavoro pure bene: ma è l’idea di essere obbligato che detesto.
Vero.
Io a lavoro mi sono sempre imboscato, sono sempre stato un grande artista in questo. Mi assunsero all’Ikea alle risorse umane e facevo pena, poi mi spostarono al servizio clienti e in magazzino e io mi imboscavo a dormire tra un turno e l’altro sugli scaffali.
Negli anni di Radio 105 pur di non stare in ufficio con quella gente uscivo da una porta secondaria e andavo in chiesa o al bar con Leone di Lernia.
Tutto era più utile per la mia curiosità, tutto era là fuori. Tanto mi pagavano poco uguale sia che stessi alla scrivania sia che stessi al bar, almeno nella seconda ipotesi mi sentivo un po’ meno schiavo.
Lessi questa poesia di Carver che mi faceva sentire legittimato a oziare:
da una letteraHo un impiego con un misero salario di 80 corone e
otto, nove ore di lavoro che non finiscono mai.
Divoro il tempo libero dall'ufficio come una belva feroce.
Spero un giorno di potermi sedere in un altro
paese e guardare fuori dalla finestra verso campi di canna da zucchero
oppure cimiteri maomettiani.
Non è tanto del lavoro che mi lamento quanto
della lentezza di questo tempo paludoso. Le ore d'ufficio
non si possono dividere! Sento la pressione
di tutte le otto, nove ore anche nell'ultima
mezz'ora di giornata. È come un viaggio in treno
che dura giorno e notte. Alla fine ci si sente
completamente schiacciati. Non si pensa più agli sforzi
della locomotiva o ai colli o alle pianure
attorno, ma si dà la colpa di tutto quello che succede
al proprio orologio. L'orologio che si continua a tenere
sul palmo della mano. Poi lo si scuote. E lo si porta lentamente
all'orecchio, increduli.
Raymond Carver, L'orologio di Kafka, in Orientarsi con le stelle, Miminum Fax, 2006
Si mi fa cagare lavorare. Non ci credo nel lavoro. Se potessi evaderei le tasse o ruberei, di sicuro. Solo che non mi riesce, mi sgamerebbero e non avrei i soldi per l’avvocato.
Ho tipo un malocchio temporaneo sui soldi addosso in questo momento della vita, non ne so fare tanti. C’è gente che li moltiplica come Gesù coi pesci. Io faccio le foto, i libri, scrivo, moltiplico le immagini le cose ganze, ma i soldi zero.
Infatti dico una roba alle autorità: levatemi internet. Levatemi il telefono.
Inutile avere in mano uno strumento che serve solo a farti comprare roba e non potersela permettere. Io impazzisco per le ceramiche, per i profumi, per i coltelli, per la paccottiglia, per l’arte, le grafiche, le stampe, i libri. Passo le serate su Marketplace di Facebook a cercare affari che poi non faccio. Voglio circondarmi dell’inutile perché mi dà pace, ma lo stipendio è stupido, non dura niente.
Siamo tutti troppo drogati di futilità per poterci occupare della realtà.
Fie coi peli sotto le ascelle, fascismo, barconi di migranti. Ecco i grandi temi ideologici da bar, le grandi battaglie della mia generazione.
La nostra condizione di servi del sistema quella non è percepita come tale, perché a dirlo che siamo degli schiavi ci si vergogna.
Mi affianca uno, mi dice che è importante lo sciopero della CGIL. Gli dico: si è vero ma non basta. Dovremmo sfasciare il ministero con le mazze chiodate.
Ehhh Noooo, ma che diciiii.
E allora vaffanculo, mi faccio i fatti miei. Sto coi gatti, con le cose futili.
Allora lo uso Instagram si, ma in modo alternativo, tipo seguendo solo stramboidi e casi umani. Per distristrami, per ridere.
L’ultimo è il virale Eugenio Fontana, un ragazzo con evidente stato di alterazione che si propone come quelli che promettono grandi soldi col lavoro digitilae. LA grande balla del moderno: le cripto, i soldi online, lo smartworking, il nomadismo digitale. Ma se non sappiamo manco fa funzionare il sito dell’INPS in Italia! Ma sucate!
Guardate Eugenio…
Bello eh? Io son dipendente da ‘ste stronzate! GENERARE UN SECONDO REDDITOOO.
Si ride per non piangere. Siamo tutti fratelli con le stesse miserie.
Amici miei io mi ero reso di conto di tutto già quando ero piccolo: o trovi una soluzione dentro di te, oppure ti ammali del mondo fuori.
Che è stato un tempo, quel mondo, giovane e forte, mentre oggi
Il nostro mondo è adesso debole e vecchio
Puzza il sangue versato, è infetto.
Voi vi adoperate a cercare qualcosa fuori che vi tiri su? Che non vi rattristi? Che non sia da condividere sui social ma sulla realtà?
Mi viene in mente Ted Kaczynski che abitava in una stamberga e mandava ordigni ai vertici delle società informatiche perché aveva presagito come sarebbe andata a finire. Un po’ estremo Ted, da condannare, ma sia mai che tra 100 anni verrà riscoperto come un rivoluzionario. Così come quelli che spararano al tizio che ha fatto la riforma del lavoro che ha devastato l’Italia col precariato. Non faccio nomi, non mi stanno simpatici, ma qualche motivo di sfavamento c’era, o no?
Ma a me fanno cagare le rivoluzioni. Io non voglio saperne!
Io ce l’ho detto la rivoluzione, non voglio stare in piazza con delle fave a gridare per gli sfruttati, poiché son io lo sfruttato.
Quindi facciamo così:
io continuo a darvi roba buona,
voi continuate ad abbonarvi e mandarmi cash così genererò un secondo reddito come Eugenio!
Bengala è il fight club.
Non so se ci fanno caso
Ma giocano alle slot e bevono Campari
Il poco della pensione che hanno
Diventa liquidò, va giù
E nel frattempo
Negli altoparlanti di questo locale
A uso commerciale
Più adatto ai mezzi che alle persone
Sono pure rimbombati
Dalla musica delle reclami
E da canzoni che sono reclami
Esco fuori e nel silenzio c’è un disoccupato
Nel senso che sono le 9 e sta in panchina
E non ha niente da fare
Ha la faccia di un cane abbandonato
Prossimo alle lacrime, abituato a soffrire
Ai suoi piedi uno yogurt vuoto, rovesciato
Sigarette spente e foglie secche
Attorno il silenzio
Così capisco che è più facile soffrire
Non facendosi distrarre dalla réclame
Si soffre meno quando si è sopraffatti
La libertà è per pochi
Io ho sempre i libri dalla mia parte, questa settimana ho adorato ogni singola riga di Hanno vinto i ricchi di Riccardo Staglianò, un testo fondamentale quanto lo fu, anni fa, Teoria della classe disagiata di Raffaele Alberto Ventura.
ps staglianò ha una newsletter che si chiama LO STATO DELLE COSE
Già il titolo stampato su bianco Einaudi mi fa respirare. Ci voleva un giornalista del Venerdì di Repubblica che addirittura spiegasse ai ricchi come sono fatti i poveri perché «i ricchi veri i poveri non li incrociano proprio. Perché non prendono gli autobus o la metro. Non aspettano il giorno degli sconti alla Lidl per fare la spesa. Non vanno al mare nelle stesse spiagge».
Siamo il Paese messo peggio in Europa, coi poveri assoluti che crescono a dismisura e dei numeri drammatici di ingiustizia sociale e la sinistra non parla più di queste cose. Poche categorie protettissime come tassisti e agricoltori mettono a ferro e fuoco il Paese per chiedere sempre di più, i ricchi veri son contrari a ogni forma di tassazione e la maggioranza, cioè i nuovi poveri che devono fare due lavori, non protesta manco più.
Staglianò mi ha commosso. Ho letto il suo libro in 24 ore. Gli ho telefonato:
Com’è che la gente non sbrocca?
La gente mugugna ma non sbrocca. La gente dovrebbe mettersi assieme, perché lo sbrocco individuale è inutile.
Per i precari ha senso scioperare?
Si ma in maniera diversa. L’idea classica dello sciopero generale di un giorno è totalmente inutile. Si tratta di un giorno regalato alle aziende che non cambia niente. Si tratta di un rituale stanco. Se guardi come fanno fuori capisci che funziona. Negli USA la terra dei sindacati avversati, la United Automobile workers ha fatto 46 giorni consecutivi di sciopero per un aumento di paga del 40% e l’hanno ottenuto. Ricordi una roba del genere in Italia? Io no.
Oppure sono stato in Svezia dove i meccanici Tesla sono in sciopero da 9 mesi e il Sindacato paga loro lo stipendio per intero. Il Sindacato ha pure detto che hanno soldi per andare avanti 500 anni. Capisci? Ecco gli scioperi a oltranza hanno un minimo di senso.
Come saranno gli italiani tra 10 anni?
Qui si entra in territorio Mago Forrester… non so. Dipende! Se si va avanti così male! Da trent’anni stiamo seguendo una strada che avvantaggia i ricchi a scapito dei poveri. Sai che diceva Einstein? Che la follia è fare sempre le stesse cose aspettandosi risultati diversi. Se continuiamo così: picconando i diritti dei lavori, togliere potere al sindacato, fare un sistema fiscale regressivo solo a vantaggio dei ricchi… beh niente farà pensare che le cose miglioreranno.
Quando tolsero il reddito di cittadinanza ci si aspettava la rivolta sociale, invece non è accaduto nulla.
Si, un pò si. Però quello che è accaduto fin qui non è una calamità naturale ma il frutto di scelte politiche. Le cose possono cambiare! Nel mondo sta già succedendo. L’ultimo G20 di Rio De Janeiro ha visto Lula proporre la patrimoniale per ultraricchi già sostenuta da Francia e SudaAfrica. L’Italia no. Se ci fosse un movimento di popolo che lo chiedesse a gran voce…
Oggi chi è la figura politica che può guidare la gente in questo marasma?
Ecco questo è il punto dolente della vicenda. Io questa persona, in Italia oggi, non la vedo. Penso umanamente bene di Elly Schlein ma non so come funziona il PD dall’interno. Sta di fatto che sin qui Elly non ha mantenuto la promessa di rivoluzione che la sua elezione aveva annunciato. A suo favore va detto che nelle ultime settimane si è pronunciata a favore della patrimoniale. Non è che la patrimoniale sarebbe la salvezza totale ma avrebbe un effetto se facessimo una patrimoniale su chi ha più di 5 milioni di reddito si tirerebbero su 16 miliardi l’anno.
Se tu dovessi dare un consiglio a un 40enne tipo me, su come formarsi, su cosa fare per risparmiare?
I curricula tradizionali son saltati tutti quindi c’è da adattarsi anche tra i colletti bianchi. L’AI sarà una rivoluzione come lo è stata l’introduzione della manifattura.
Bisogna emanciparsi dal pezzo di carta e formarsi su competenze più attuali.
“Se li conoscessimo non eviteremmo di prenderci a cuore le loro sorti. È che i ricchi veri i poveri non li incrociano proprio. Perché non prendono gli autobus o la metro. Non aspettano il giorno degli sconti alla Lidl per fare la spesa. Non vanno al mare nelle stesse spiagge. E allora glieli presento io. ”
“C’è una sola colpa piú grave dell’essere giovane, nel mercato del lavoro italiano: essere giovane e donna. ”
“Non solo non protesti per ciò che potresti avere, ma non ti danno. Non lo fai neppure se ti tolgono ciò che avevi già. Io, per dire, pensavo che alla cancellazione del reddito di cittadinanza il Sud si sarebbe incendiato. Non dico come la Francia, con sei mesi di durissime manifestazioni, alla prospettiva dell’aumento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni, ma qualcosa del genere. E invece, al netto di qualche protesta estemporanea sotto i palazzi del Comune o della Regione, poco o nulla. A Napoli l’hanno perso in 21.000, che è come se a Comacchio o a Cortona, da un giorno all’altro, tutti si ritrovassero in mutande. Andrea Morniroli nel capoluogo campano ci vive e ci lavora con la benemerita cooperativa Dedalus che presiede, oltre a coordinare con Fabrizio Barca il Forum Disuguaglianze e Diversità. Lo conosce bene, insomma, e si aspettava che la reazione sarebbe stata «ferro e fuoco. E invece niente. Perché? Perché sono troppo rassegnati e già prima lo vedevano non come un diritto ma come un miracolo. Cosí hanno ricominciato a mandare i figli minorenni a lavorare, magari per 300 euro in nero al mese». Se c’è una cosa peggiore della rabbia è proprio la rassegnazione.”
“celebre affermazione di Warren Buffett sulla lotta di classe, che esiste ma l’hanno vinta gli ultraricchi come lui”
“Abbiamo parlato della produttività bassa, e dei limiti di questa spiegazione. Della contrattazione collettiva, coperta corta, ulteriormente sbrindellata dagli anni 2000 al grido di «piú contrattazione aziendale: ce lo chiede l’Europa». Intanto i sindacati, al tavolo con governo e Confindustria, possono solo dare pareri non vincolanti. Per contratti che comunque escludono atipici e sommersi. Ce n’è già abbastanza per tratteggiare un bel pezzo della spiegazione della caduta dei salari. Ma per cogliere appieno la smorfia di dolore che ricaviamo da questo primo abbozzo servono altri dettagli. ”
“Un’altra è che negli ultimi anni l’occupazione è cresciuta essenzialmente in settori, tipo logistica e grande distribuzione organizzata, in cui il part time è la regola. Peraltro un tempo parziale dove spesso i diritti sono calpestati e succede che il datore decida e ti comunichi l’orario il giorno prima».”
“Com’è stato possibile, mi chiedevo e mi chiedo? Com’è che la classe politica, tutta indistintamente ma soprattutto la sinistra che degli interessi della classe lavoratrice è stata storicamente portatrice, non si è stampata quel grafico a grandezza murales e non ha convocato gruppi di studio, giorno e notte, per sviscerarlo e provare a capire quali e quante cose dovevano essere andate storte per arrivare a quello sconcertante risultato?”
“a nostra produttività è bassa e per di piú lentissima. Però è cresciuta (+23 per cento). Mentre i salari sono decresciuti (-3 per cento, nel calcolo Ocse3 fino al 2020). Dov’è quindi finita quella ricchezza prodotta in piú? Essenzialmente nelle tasche dei padroni, come Eeckhout ipotizza su scala mondo.”
“Insomma, una consapevolezza che in questa fase storica sembra totalmente persa è che la felicità dei dipendenti non è una debolezza da buonisti ma, prima di tutto, una strategia di management efficace.”
di Claudio Morelli, fondatore di Poster
qui la newsletter :Poster. Reportage, storie, editoriali e inchieste direttamente nella tua casella mail.
Ogni anno ci sono circa 550 morti sul lavoro e vengono denunciati 72 mila casi di malattie professionali. Gente che va a lavorare e crepa, magari non crepa subito, crepa dopo molti anni, come gli operai dell'Eternit che hanno affollato di mesoteliomi gli ospedali del Monferrato. La gente muore di lavoro. Siamo una Repubblica fondata sul lavoro - Costituzione, Art 1. Provate ad aprire Linkedin. Per il social del lavoro, le occupazioni sono soltanto head, strategist, expert, nessuno svuotacantine, nessun infermiere, nessun addetto alle pulizie, figurarsi alle disinfestazioni.
Il lavoro sui social e la sua rappresentazione hanno dimenticato le tute blu, i jeans e le mani callose perché forse poco attraenti, o sicuramente meno attraenti, meno sexy e meno arcobaleno che la dottrina degli algoritmi vuole propinarci. Gli editori ci sguazzano.
I new media, soprattutto milanesi, hanno abbandonato l'informazione e il racconto sulle classi operaie e più fragili, perché quelli con i pantaloni sporchi non si sposano certamente con la pantomima new-vegana del mangiare meno carne per essere e far essere felici. Andate a vedere se trovate un bel reportage sulla trattoria delle langhe dove per antipasto servono carne cruda nel menù operaio a 15 euro, con l’oste che chiede se ne voglio ancora un po’.
Gomiti sul tavolo, seduta rigida, primo, secondo, contorno, caffè e pure un grappino, figurati se si deve tenere leggero il ragazzo di 26 anni che monta alluminio anodizzato nelle villette dei papà e dei figli-di-papà. Lì sì che ci sono le diversità di pelle, di odore, di colore, di gusto. Diversità vera, non la diversity di quando lo dice il brand; l’inclusion di quando arrivano i soldi, e sostenibilità da tutte le parti, soprattutto quando c'è da scrivere l'abstract di un convegno.
Sulla testa del paese reale, i signori dell’informazione moderna hanno messo le grafiche che ci spiegano quanto siamo insensibili a mangiare carne, ad amare i motori a scoppio, a scrivere i plurali come Dio comanda. All’Instagram dei potenti con l'aereo privato va benissimo, mentre ci guardano dal cielo con soddisfazione che ci impegnamo a salvare il mondo pure per loro. Il progressismo ha stretto la mano alla macchina del social e sono tutti contenti. Tutti insieme, appassionatamente. Attivisti digital, neo-rural e aziende milionarie a braccetto a misurarci i grammi di scaloppina che anche questa settimana abbiamo portato, di troppo, a tavola.
I mezzi di informazione rispondono ormai alla dittatura del mezzo, una macchina autoalimentante senza una testa che produce ciò che è in trend. Questo funziona e lo facciamo; rifunziona e lo rifacciamo; lo rifacciamo, lo rifacciamo e lo rifacciamo. La ripetizione è una delle cose che piace di più ai social, certamente fino a che non si tratta di lavoro alienante in fabbrica; di chilometri percorsi a condurre un tram, un autobus, un taxi, con lo stronzo in bicicletta che ti si ficca nell’angolo morto e passi pure un guaio. “Masse critiche” con i pantaloni di velluto e la scarpa da montagna, con il manubrio ritorto come Fausto Coppi, per andare da Turro ad Affori a lavorare in agenzia, che prendono 1400 euro per dire che sono head-of-social e che nel weekend arrampicano.
Secondo un sondaggio del Corriere della Sera, il 62% dei milanesi spende di più di quanto guadagna. Al vino naturale nel nelle “piccole enoteche con cucina” (che adoro nda) ci pensano miliardi di eredità intoccabili che da generazioni si trasmettono sotto il sole e sotto gli occhi di tutti e nell’indifferenza della fiscalità. Nei prossimi 10 anni, 300 miliardi di ricchezza passeranno dai padri, dai nonni e dagli zii a figli e nipoti con tasse di successione che negli Stati Uniti ci ridono dietro (qui lascio stare le statistiche, Piketty e compagnia-cantante perché consiglierei una lettura a parte).
Sarebbe curioso scoprire se di quei 550 morti sul lavoro c’è lo specialist di TikTok dell’agenzia dietro l’angolo. Cosa sceglierà nel suo post di oggi? Un cadavere - un “c4daver3”, meglio così l’algoritmo non lo penalizza - schiacciato sotto la betoniera o a raccontarmi, tra un salto e una giravolta, che è meglio raddoppiare il prezzo delle sigarette, così anche il coetaneo finito male in un cantiere avrà vissuto una vita migliore?
Claudio Morelli, fondatore di Poster
C'è un Instagram molto bello dedicato all'estetica degli uffici anni '80 e '90 che si chiama _________Office.
Mi fa riflettere pensare che in tutta l'arte illustrativa delle aziende di arredamento e di computer, di solito siano le donne le protagoniste dell'ufficio.
Il lavoro d'ufficio, considerato inizialmente meno usurante a livello fisico, pareva (in una società maschilista) più adatto alle caratteristiche femminili. Non c'è sforzo fisico, non ci sono mansioni usuranti.
ma è tutta roba del secolo scorso.
ma è tutta roba del secolo scorso.
Poi ci sono i libri di NOT che hanno quelle copertine stupende e quei titoli sempre efficaci (Censura subito, Il capitale è morto, Iperoggetti, etc) di cui segnalo sempre volentieri la roba.
Alcuni libri della collana sono troppo filosofici e non li capisco, altri li tengo sotto mano.
Mueller mi è subito entrato nell'occhio per un'attacco potente che copio e incollo.
Anche NOT ha una newsletter che si chiama Medusa e che a volte mette robe molto belle.
«Jeff Bezos andrà sulla Luna. Nel maggio 2019, ad appena qualche isolato dalla Casa Bianca, accompagnato dalle eleganti armonizzazioni in falsetto di «Mr. Blue Sky» della Electric Light Orchestra, Bezos ha presentato il lander lunare sviluppato da Blue Origin, la sua azienda segreta per l’esplorazione spaziale. Kenneth Chang, giornalista del New York Times, ha paragonato l’evento di gala – battezzato «Going to Space to Benefit Earth» – all’«annuncio di un iPhone». «Costruiremo una strada per lo spazio», ha promesso il CEO di Amazon, porgendo la mano alle ambizioni dell’amministrazione Trump, che a sua volta mirava alle missioni lunari. «Dopodiché accadranno cose meravigliose». Che genere di cose? Un esodo planetario, nientemeno.
Ovviamente, Bezos non è l’unico miliardario a investire ingenti somme nell’esplorazione spaziale. La ben più nota Space X di Elon Musk ha gli occhi ben puntati su Marte. In un’esibizione a beneficio dei suoi ammiratori su Twitter, com’è sua abitudine, Musk ha rivelato i suoi piani per il trasporto di centomila passeggeri all’anno sul pianeta rosso, ovviamente dietro compenso.
Ma se l’ottimismo tecnologico dei miliardari proviene perlopiù da ambienti di destra o centristi, lo si può trovare anche all’estrema sinistra, dove i cosiddetti accelerazionisti prevedono un comunismo di lusso pienamente automatizzato sulla scia delle più selvagge fantasie degli imprenditori della Silicon Valley, e l’autoproclamata «sinistra pro-scienza» accetta senza riserve l’organizzazione logistica dei più iniqui business del pianeta.
Per molti marxisti la tecnologia alla peggio è neutra. Il problema non è la tecnologia in sé, ma chi la controlla: i lavoratori o il capitale. (…) A mio avviso, la tecnologia spesso si è dimostrata deleteria per la vita lavorativa e per le lotte volte a renderla migliore. Lo sviluppo tecnologico comporta un’enorme accumulazione di ricchezza, e dunque di potere, per chi sfrutta i lavoratori. A sua volta, la tecnologia riduce l’autonomia dei lavoratori, la loro capacità di organizzarsi per combattere il proprio sfruttamento. Priva le persone della sensazione di poter controllare le proprie vite, di poter stabilire le regole del proprio mondo. Se vi interessa il destino di queste persone e se vi considerate fra coloro che desiderano un futuro più egualitario di quanto le attuali condizioni possano garantire, dovreste essere critici nei confronti della tecnologia e quindi prendere in considerazione tutti i frangenti in cui le persone, soprattutto i lavoratori, vi si sono opposte.
Tutto ciò per dire che questo è un libro sul luddismo. Non è un libro sui luddisti, benché se ne parli nel primo capitolo. Mi interessa piuttosto la prospettiva politica che informava il movimento dei tessitori inglesi del XIX secolo – politica che assunse la forma di un’esplicita militanza contro la riorganizzazione tecnologica del lavoro intrapresa dai capitalisti dell’epoca. I luddisti credevano che le nuove macchine fossero una minaccia al loro stile di vita, che sarebbero state in grado di distruggere le loro comunità e che, di conseguenza, la distruzione di quelle stesse macchine fosse una valida strategia per opporvi resistenza.
foto del giovane e bravissimo Mirko Jira
Che lo si ammetta o meno, buona parte della critica tecnologica contemporanea deriva da una prospettiva umanistica e romantica, dall’idea che la tecnologia ci abbia allontanato da qualche nostra componente essenziale, e che ci separi da ciò che ci rende umani. Per esempio, Sherry Turkle, ricercatrice di scienze sociali e influente critica della tecnologia, ci invita a «riprenderci i nostri spazi di conversazione» sottraendoli ai nostri smartphone, che ci alienano dalla «parte naturale, umana» della nostra esistenza, così da farci vivere in una realtà artificiosamente confortevole. Su un registro simile, Tim Wu conclude la sua affascinante storia della pubblicità nei media The Attention Merchants con quello che definisce «il progetto di recupero dell’umano» volto a difenderci dalle tecniche di gestione dell’attenzione delle varie forme pubblicitarie che alimentano internet. Wu incensa operazioni come la «disconnessione» (unplugging) quali primi passi in una più vasta impresa «per rendere la nostra attenzione di nuovo nostra, reclamando così la proprietà dell’esperienza stessa di vivere». Nelle recriminazioni di Turkle e Wu riecheggiano i discorsi di Heidegger, fortemente critico della tecnologia (tecnica) proprio in virtù di una sua supposta natura che comporterebbe necessariamente strumentalizzazione e disincanto, alienandoci così dalla mistica esperienza dell’Essere.
Anche se credessi in una natura umana universale (e, in tutta franchezza, non ci credo), cercare di recuperarla non basterebbe. Il problema della tecnologia non è semplicemente il fatto che ci alieni dall’Essere o da un’esperienza autentica. Dopotutto, per questo problema le stesse industrie tecnologiche sono più che felici di offrirci una soluzione. Google e Apple hanno lanciato un loro servizio di «benessere» che aiuta gli utenti a ridurre il tempo passato davanti allo schermo. Il problema fondamentale della tecnologia è semmai il suo ruolo nella perpetrazione delle gerarchie e delle ingiustizie imposteci da proprietari d’industria, capi e governi. In poche parole, il problema della tecnologia è il suo ruolo nel capitalismo. In questo libro, vorrei dimostrare come la tecnologia sviluppata dal capitalismo ne attui gli obiettivi aumentando il nostro tempo di lavoro, limitando la nostra autonomia, prevedendo le nostre mosse e dividendoci quando ci organizziamo per il contrattacco. In tutta risposta, un’efficace strategia di lotta di classe dovrà necessariamente prendere di mira le macchine con cui si trova costretta a convivere, come è accaduto nei vari momenti storici di seguito documentati.
La cover di Matt Black, American Geography, Contrasto
Pezzo mio per Black Camera
Quello che dovrebbe fare un buon fotografo è semplice: seguire l'istinto e partire. Svincolato dal "progetto", dal "cliente", dall'editore o da un committente, Matt Black l'ha fatto per sei anni girando il suo paese con un paio di macchine a pellicola. Il risultato è facilmente immaginabile: alto, come ogni lavoro che richiede come unico sacrificio se stessi.
Figlio della tradizione americana, di Walker Evans e Robert Frank, Black parte dai maestri per riaggiornarli. Pubblica infatti su Instagram inizialmente prima di venire notato e ripreso da New Yorker e Time. Black Non cerca una forma nuova, non gli interessa niente di innovare, scatta solo per il piacere di farlo. Bianco e nero con tanta grana, formato quadrato, un viaggio di circa 15000 chilometri nei luoghi più remoti del suo paese. Non tanto perché sono i più poveri o marginali, quanto perché forse sono i più diffusi.
Scrive John Steinbeck nel suo Viaggio con Charlie: «Per molti anni ho viaggiato in molte parti del mondo. In America, io vivo a New York, capito a Chicago o a San Francisco. Ma New York non è America, allo stesso modo in cui Parigi non è Francia e Londra non è Inghilterra. Così scoprii che non conoscevo il mio paese. Io, scrittore americano, che scrive sull'America, lavoravo a memoria, e la memoria è, al meglio, una cisterna fallosa e contorta. Io non avevo sentito la lingua dell'America, non ne avevo annusato l'erba e gli alberi e il concime, non ne avevo visto i monti e le acque, il colore e la qualità della luce. Conoscevo i mutamenti solo dai libri e dai giornali».
Questa breve citazione è un manifesto, una dichiarazione di intenti, un'ammissione di colpa messa assieme. Un atto di onestà dovuto ai propri lettori di uno scrittore al culmine della fama che dovrebbe essere insegnato nelle scuole di giornalismo. Solo mettendosi in discussione e allontanandosi dalla scrivania si può raccontare il mondo.
Black non è di New York ma della Central Valley in California, lo stato che da solo è una superpotenza economica ma proprio nelle sue città più importanti come San Francisco e Los Angeles si può incappare in centinaia di homeless che dormono nel sudicio del quartiere degli affari. In America la diseguaglianza è ancora più impattante che da noi. Laggiù è ormai accettato che una persona qualunque, se non ha le spalle coperte, possa passare da avere un buon lavoro a dormire in macchina senza quasi far scandalo.
Per questo le foto di Black si impongono subito all'attanezione di tutti. I post sono accompgnati da uno stile di scrittura secco e pieno di ritmo, che non cerca mai l'enfasi ma trasmette tutta la tensione e il disastro a cui il reporter assiste. In poche parole Black scrive tanto bene quanto scatta. Ed è raro, vi assicuro.
Alturas, California © 2021 Matt Black
Per un occhio non avvezzo al racconto, un lavoro del genere può sembrare un po' paraculo, volutamente strappalacrime, troppo Salgado o McCurry in bianco e nero. Beh non è così. Queste foto nascono da un'esigenza anzitutto stilistica. La precisione con cui Black scatta, il pathos delle sue atmosfere e la serialità del suo lavoro ci dicono che anzitutto quest'uomo si trova in ogni singolo istante nel posto in cui vuole essere.
Ancora più belli e potenti sono gli still life degli oggetti che si è portato a casa dal viaggio. Scontrini, pezzi di giornale, brandelli di vite altrui che diventano eterni sul fondo bianco in cui sono scattati.
Black non sta facendo un commissionato per quei magazine patinati dei fighetti della east coast (che ameranno questi scatti ma questo è un altro discorso), non vuole inebriare l'elettore democratico o puntare il dito contro il repubblicano, non cerca il World Press Photo. Quest'uomo scatta perché come tutti i grandi fotografi è anzitutto un'occhio in avanscoperta che cerca di portare a casa qualcosa di unico. Un guardone con un'alta dose di morale diciamo.
Ed è per questo che il suo lavoro è bellissimo.
In ordine di pubblicazione:
Madawaska, Maine © 2021 Matt Black;
Lindsay, California © 2021 Matt Black;
El Paso, Texas © 2021 Matt Black
SABATO, 10 GENNAIO 2016
GALLUP, NEW MEXICO
Neve e ghiaccio. LA ferrovia di Santa Fe che attraversa la città ha tagliato di netto una donna in due "come un pesce" mi racconta un uomo col giaccone pesante e il cappuccio tirato sulla testa, che osserva in disparte le macchine della polizia e i camion dei pompieri accorsi sulla scena.
E il titolo della prima pagina di un giornale locale, "la tempesta semina morte", riporta la notizia di un uomo morto in un vicolo il cui corpo è stato ritrovato il giorno dopo coperto di neve. La città ha assistito a "17 decessi per assideramento lo scorso anno, 130 volte la media nazionale", stando all'articolo.
Sto per prendere la corriera per Tulsa, a quasi 1.300 km da qui. La fermata si trova all'autonoleggio U-Save lungo l'autostrada, a 13 chilometri dalla città. Ci metto più di un ora per arrivarci a piedi.
La sala d'attesa della fermata consiste in tre sedie pieghevoli sul retro dell'autonoleggio. Un vecchio con un cappello e uno zaino militare siede accanto a me. un uomo rovista nel bidone della spazzatura accanto all porta e recupera quella che sembra una fetta di torta.
La corriera arriva e saliamo a bordo. C'è un'atmosfera opprimente, ostile. Il conducente sbraita nell'altoparlante di prendere posto e fare silenzio. "non capisco perché deve dirmi cosa posso e non posso fare", brontola un passeggero. "Non siamo mica in prigione".
Di dirigiamo a est sull'interstatale, i binari della ferrovia corrono paralleli alla strada, due linee nere che attraversano insieme il deserto e lo racchiudono come fossero cinghie".
SFRUTTA LA PAUSA PRANZO
Questo libro purtroppo è introvabile e chi se ne è accaparrato una copia adesso in mano ha un oggetto da più di mille euro. Il consiglio? Vendetelo e andate a farvi un viaggio. Oppure usatelo come un oracolo.
Charles Traubb, dal 1977 al 1980, ha girato all'ora di pranzo per le strade di Ney York e Chicago, tirando fuori un magico lavoro di ritratti. Tema: la gente in pausa.
Luce zenitale, composizione in quadrato, colori sgargianti e una definizione limpida.
Ecco il capolavoro.
Ecco l'atto psicomagico: trasforma un tempo morto in qualcosa di vivo.
BACI PERUGINA
foto Walker Evans, i lavoratori anonimi degli uffici di New York
Walker Evans, “Labor Anonymous,” su Fortune, novembre (11), 1946, pp. 152–153
Questo è un pezzo del primo capitolo di Steinbeck.
Niente da fare, resta sempre uno dei migliori.
“Il mio piano era chiaro, conciso e sensato, credo. Per molti anni ho viaggiato in molte parti del mondo. In America, io vivo a New York, capito a Chicago o a San Francisco. Ma New York non è America, allo stesso modo in cui Parigi non è Francia e Londra non è Inghilterra. Così scoprii che non conoscevo il mio paese. Io, scrittore americano, che scrive sull'America, lavoravo a memoria, e la memoria è, al meglio, una cisterna fallosa e contorta. Io non avevo sentito la lingua dell'America, non ne avevo annusato l'erba e gli alberi e il concime, non ne avevo visto i monti e le acque, il colore e la qualità della luce. Conoscevo i mutamenti solo dai libri e dai giornali. Ma peggio ancora, da venticinque anni non toccavo il paese. In breve, io stavo scrivendo di qualcosa che non conoscevo, e a me sembra che questo, in un sedicente scrittore, sia criminale. I miei ricordi erano distorti da venticinque anni interposti.
Un tempo io me ne andavo in giro su un vecchio furgone scassato, con un materasso sul pavimento. Mi fermavo dove si fermava la gente, o dove faceva gruppo, ascoltavo, guardavo, toccavo, e così facendo ”
“avevo un quadro del mio paese la cui precisione era menomata solo dalle mie carenze.
Fu così che io decisi di guardare ancora, di cercar di riscoprire questa terra–mostro. Altrimenti, scrivendo, io non avrei saputo dire le piccole verità diagnostiche che sono fondamento di più grandi verità. Si presentò una sola secca difficoltà. Nei venticinque anni frapposti, il mio nome era diventato abbastanza noto. E l'esperienza mi insegnava che quando ha sentito parlare di te, favorevolmente o no, la gente cambia; diventa, o per timidezza o per altre qualità suscitate dalla notorietà, una cosa che non è in altre circostanze. Così stando i fatti, il mio viaggio richiedeva che io lasciassi a casa nome e identità. Io dovevo essere occhi e orecchi peripatetici, una specie di vassoio di gelatina in movimento. Non potevo firmare registri di albergo, incontrare persone a me note, intervistare gente, nemmeno far domande pressanti. Inoltre, due o più persone disturbano il complesso economico di una zona. Dovevo andare solo e dovevo essere autonomo, una specie di casuale tartaruga che si porta la casa sulla schiena.”
Ok è tutto. Ci vediamo la settimana prossima. In fondo a Bengala troverete sempre e soltanto una frase di Charles Bukowski. Sappiatelo.