BENGALA #138 - RICORDA: NON SEI IL TUO LAVORO!
e i poveri non sono da includere? - Quit your daily job - Lee Friedlander - La cannibale Santacroce di Buoncristiano
Uh com’è difficile restare calmi e indifferenti mentre tutti intorno fanno rumore…
Mi è arrivata la bordata di settembre così come ti arriva una multa. Non me l’aspettavo.
C’è un grosso orologione nel cielo che scandisce il tempo, sembra fare tic tac continuamente. Mi risento improvvisamente in affanno.
L’estate è ottima per nascondersi e sparire, per rimuginare, per annoiarsi, per sentirsi cuocere. Ti sei squagliato al sole sugli scogli del Tirreno, hai sentito evaporare la fatica dei mesi prima, hai pensato -una volta illuminato- di risplendere di luce nuova. E ci sei pure riuscito.
Non di meno, Settembre è il disincanto.
Mica lo decidiamo noi, lo decide il Mondo.
Ho deciso di dedicare questo numero al lavoro, l’amico/nemico che ci tiene sul pezzo tutta la vita. Il soggetto che a settembre torna a battere cassa.
Io sono diventato un cowboy. Abito la mia frontiera con la routine. D’estate di solito son precario e vado giù di morale, chi mi conosce in estate pensa sia un depressone. Poi a settembre mi danno un contratto e riparto. Ma mentre ero prossimo a riceverlo, senza nessuna garanzia di riceverlo, con delle beghe belle grosse da risolvere ho pensato:
Vi è mai capitato di avere 8,98 euro sul conto corrente? Seriamente.
Mi sa che ho realizzato che il mondo si divide tra quelli a cui una cosa del genere è capitata (o capita spesso) e quelli a cui non capiterà mai.
Sarà che sono venale, ma forse è tutta solamente una questione di soldi. Se hai 8,98 euro sul conto non ti puoi permettere di pensare a tutta una serie di argomenti, tipo chi votare, la politica, etc. A cosa è giusto e cosa è sbagliato. Meloni, Boccia, sono entità astratte, personaggi di una serie tv…
Viviamo in un mondo che è tutto basato sul fatto che siamo da soli e contro lo Stato sin da quando si nasce. Se sei povero, ce l’hai con il Mercato, con il Capitale, con lo Stato, perché ti escludono, ti impediscono di avere quello che desideri anche se ti nutrono rimpinzandoti gli occhi e i sogni di roba da desiderare.
Se sei ricco, ce l’hai con gli stessi soggetti perché cercano di arricchirsi tramite te.
Piersilvio Berlusconi vuole degli spot sull’inclusività che ormai è sdoganata, è solo un argomento per posizionarsi sui social. La vera inclusività riguarda i poveri, loro si che sono discriminati. Non esistono per lo Stato che non li aiuta, per la Sanità, per l’opinione pubblica. Non hanno manco un influencer di riferimento che parla di loro. Eppure sono in grande espansione.
Nonunodimeno che si occupi dei diritti dei morti di fame, fa così poco colto…
Ci son cose di cui proprio non ci frega nulla, che decidiamo di non vedere. Tipo i carcerati. Ogni volta che qualcuno invoca il carcere per altri esseri umani mi chiedo se sappia cosa siano le carceri italiane, una condanna a morte sarebbe più soft.
Ora, siamo a settembre e questi pensieri vengono a galla in quel momento dell’anno che è preparatorio, al percorso emotivo-economico che dobbiamo affrontare. Di solito settembre è un momento di conti.
Un momento operativo.
Settembre è un pò il mese del lavoro.
Però vorrei ricordare a tutti, che noi non siamo il nostro lavoro, o almeno non solo quello.
Alla fine qui vi parlo di libri, di cose che ci piacciono. Per fortuna gli scrittori sono quasi sempre abitanti di territori maledetti e possono permettersi lo sproloquio, il non rispetto delle linee guida della community, il viaggio nel disastro (preparatevi a un numero su Cioran e uno su Bernhard), però per farlo devo stare bene.
Cazzata, bene non si sta quasi mai per più di un certo tempo.
Bisogna quindi imparare a vivere quel breve tempo, a ricaricarci di quel breve tempo che vale migliaia di tempi bui. Che Bengala vi serva a questo.
Cito Bukowski, il più grande poeta del ‘900
«Il problema, naturalmente, non sta nel sistema Democratico
sta nelle
parti vive che formano il Sistema Democratico.
prendi la prima persona che incontri in strada,
moltiplica
lei o
lui per
3 o 4 o 30 o 40 milioni
e capirai
immediatamente
perché le cose continuano a non funzionare
per la maggior parte di noi.mi piacerebbe avere una cura per i pezzi di scacchi
che chiamiamo Umanità»da “Democrazia”, in Ce l’hanno tutti con me, Guanda
Ci metto sempre un pezzo personale all’inizio, di solito bello tirato sull’attualità, ma a ‘sto giro son come appena uscito da un tunnel. Mi ha stupito molto l’idiozia di certa gente che pensa che la donna di Viareggio abbia ucciso lo scippatore perché, poverina, era sotto choc. Schifo anche solo che una parte della politica usi questo caso per fomentare gli analfabeti funzionali.
Siamo a un punto in cui il dialogo è impossibile perché è sparita del tutto la contemplazione. i fatti non si guardano, si vivono come se fossero mosse che ci servono a posizionarsi.
La Rivoluzione è stare zitti, fermi, immobili. Vivere dentro. Connettersi con gente per bene e basta. Non farsi contaminare dall’esterno.
Difficilissimo.
Abita uno spazio sacro
Proprio quando sei fuori dalla grazia
Appenditi all’estetica del rito
Giusto perché non ci credi
Mima una speranza
Recita una salvezza
Tutto, per non darti disperso
Fanculo i media e le loro news deformate. Sono così felice che L’Espresso stia andando a fondo. L’altro giorno ho visto l’account Instagram della testata che postava vere e proprie fake news sulla reunion degli Oasis e poi ho letto un pezzo di Padellaro in cui si diceva che il giornale è ormai il lontano ricordo di ciò che è stato. Io lo so bene perché mi hanno fatto fuori senza preavviso perché stavo sul culo alla caporedattrice, che comunque non gli serviva il preavviso poiché sono gente che parla di diritti e giovani e lavoro ma io mica avevo nessun contratto. Per carità, piccolezze, ma godo. Il karma lavora per me. La vendetta non è morale ma sono anche io un uomo di carne. Lasciatemi sbagliare.
un pezzo di Paolo Woods, fotografo e direttore artistico del Cortona on the move.
Mentre scrivevo questo testo introduttivo per la mostra di Chauncey Hare, mi sono reso conto che la dichiarazione quasi epigrafica che lui ha imposto accompagni ogni utilizzo delle sue immagini dice praticamente tutto:
“Queste fotografie sono state realizzate da Chauncey Hare a scopo di protesta e come monito contro la crescente dominazione sui lavoratori da parte delle multinazionali e delle élite che le dirigono e le posseggono”.
All’apice della fama, Chauncey Hare ha abbandonato il mondo dell’arte e ha rinunciato al suo posto nel pantheon fotografico accanto a figure di spicco come Diane Arbus, Lee Friedlander e Garry Winogrand. Aveva deciso di incenerire il suo intero archivio ma, per nostra fortuna, ha finito per donarlo alla Bancroft Library (Berkeley, CA), stabilendo che il suo contenuto non potesse essere venduto o esposto come “arte”. Si tratta di una decisione estremamente rara, dettata da un’incrollabile integrità e onestà intellettuale.
Hare non voleva che le sue fotografie venissero decontestualizzate e viste solo per il loro valore formale, nemmeno nel contesto di una tanto ambita mostra personale al MoMA di New York. Nutriva una sincera avversione per il lato commerciale del mondo dell’arte. Ciò che interessava a Hare, invece, era documentare il modo in cui il sistema aziendale americano abusa dei propri dipendenti, e lo ha fatto sia come fotografo che, successivamente, come terapeuta. Come fotografo, lo strumento che usava era l’“interno”. Che si tratti delle case dei lavoratori o degli uffici delle grandi aziende, le immagini di Hare possono sembrare a prima vista banali, ma sono piene di dettagli rivelatori, di poesia e persino di umorismo. Sono le prove che Hare intendeva raccogliere nella sua indagine sulle colpe del capitalismo. Quando ho iniziato a selezionare le immagini per il tema di quest’anno, More or Less, mi è stato subito chiaro che il lavoro di Hare non poteva mancare.
tratto da Internazionale:
La classe media va all’inferno
di Giovanna D’Ascenzi
«Nel 1985 Chauncey Hare dona il suo archivio fotografico alla biblioteca Bancroft dell’università della California. La condizione è che ogni sua riproduzione riporti questa didascalia: “Queste fotografie sono state realizzate da Chauncey Hare per protestare contro il crescente predominio delle multinazionali, i loro proprietari e manager sulla forza lavoratrice”.
Le sue immagini, scattate tra la fine degli anni cinquanta e gli ottanta, raccontano la classe media bianca statunitense, quella che lavora negli uffici di grandi aziende e vive nei suburbs, le aree residenziali ai margini della città. Tra quegli impiegati annoiati c’è anche lui, per vent’anni alla scrivania della Standard Oil come ingegnere chimico.
In questo ruolo duplice, di soggetto e osservatore delle vite degli altri, Hare costruisce un discorso che lega l’arte alla politica, riflettendo sugli effetti del capitalismo sulle persone comuni. Nonostante tre borse di studio della fondazione Guggenheim, una mostra al Moma e la pubblicazione di due monografie per Aperture (Interior America del 1978 e This was corporate America del 1984), il fotografo preferisce non inserirsi nelle logiche commerciali del mondo dell’arte e rinuncia al successo preferendo una carriera come psicoterapista. Nel 1997 scrive insieme a Judith Wyatt il libro Work abuse: how to recognize and survive it.
Sebbene per Hare questo percorso nella medicina rappresenti l’antitesi della sua precedente attività artistica, è evidente quanto abbia indagato le stesse tematiche per tutta la vita. Come ricorda Tim Adams sul Guardian, già negli settanta le sue foto erano state accostate, dalla critica Janet Malcolm del New Yorker, al modo in cui uno psicoanalista lavora tramite le libere associazioni; immagini apparentemente banali ma che sembrano “tremare” per la carica di significati latenti, come se ogni cosa al loro interno rappresentasse qualcos’altro.
L’opera di Hare, rimasta dimenticata dopo il successo degli anni settanta, è stata recuperata e approfondita dallo storico dell’arte Robert Sifkin in Quitting your day job (Mack), una biografia critica che con saggi e interviste mostra come le sue foto possano, ancora oggi, parlarci della pervasività delle grandi aziende nella nostra vita quotidiana e della relazione controversa tra arte e potere».
Tra le decine di libri di Friedlander, questo sui lavoratori è un classico. Anzitutto perché rompe lo schema romantico del fotografo anni ‘50 tutto dedito ai minatori e ai desperados, che di fatto introduce una nuova estetica dei disperados: gli impiegati.
Ne ho parlato nello scorso Bengala e lo faccio anche qui. Pazzesco osservare come la fotografia renda benissimo il concetto del tempo che passa. Di fronte alle foto di stallieri e operai sfranti dallo sporco e dalla fatica, non suscita certo meno effetto l’assuefazione e l’alienazione impiegatizia dei soggetti di Friedlander di fronte al computer o ai macchinari industriali.
A cura di Joshua Chuang, con 253 immagini risalenti al 1958, questo è un bel libro per approcciarsi a Lee. Anche se di suo preferisco i Manichini. Ma ne parleremo poi…
My working project was named “Changing Technology”: in 1985-86, I chose to photograph people working at computers as these ubiquitous machines seemed to be the vehicle for that change. The pictures were made in the environs of Route 128, a loop road around Boston, which at the time was considered a north-eastern Silicon Valley.
Lee Friedlander
È un pò di cattivo gusto ironizzare sulla morte, ma alla Morte credo non interessi.
Quell’ironia è il rito dei vivi per posticiparla.
Sotto l’ombrellone a strisce bianche e blu, nella riviera adriatica in cui mi trovo, vengo colto dalla nostalgia che sempre mi prende in questo luogo d’infanzia. Sarà la vicinanza geografica, benché lei sia della riviera romagnola, sarà che a una certa età uno ritorna su ciò che gli è rimasto dentro, mi ritrovo a sfogliare le pagine di Isabella Santacroce, la cannibale.
Rileggo parti di Fluo, Il “Meno di zero” di Riccione, con le sue fotografie nella prima edizione Castelvecchi, “Destroy” che è tutto Baby Grace di Bowie e Courtney Love e walkman Sony Dolby BNR WM-EX 304 e Buffalo made in Spain e “Luminal”, una videocassetta snuff, il cui incipit ormai è storia (A volte penso sia stata la luna a partorirmi tra spasmi di cosce pallide sapientemente allargate tra le stelle proprio in alto. Così appesa sopra un concerto di David Bowie) e che a me ricorda molto “The Downward Spiral” dei NIN e “Zoo”, che sarebbe piaciuto tanto a Lars Von Trier e Haneke ma soprattutto piace a me nel suo rigore stilistico.
Scrivere in quel modo lì, senza punteggiatura, interrotto come le ragazze di cui parla sempre, è come una canzone di Kurt Cobain. Pare semplice ma falla te.
Rileggo anche “Il Diario di Claudine”, opera uscita solo nel cyberspazio e da esso inghiottita come nelle migliori pagine di William Gibson e mi appare evidente la sua indiscussa grandezza come scrittrice.
C’è qualcosa di indiscutibile e, al tempo stesso, molto discusso, nello stile della Santacroce.
In molti si sono spesi sul suo linguaggio, Cesare Garboli, Alessandro Baricco, Renato Barilli, Barbara Alberti, Pietrangelo Buttafuoco, e altri ancora, ma forse è nei detrattori più accaniti che si cela la verità. La verità che agli occhi di chi la vuole morta, come ai tempi del suo blog su Splinder, dove si fece anche una cosina insieme con una bambina capricciosa da me disegnata, è scandalo e ciò che fa scandalo vuol dire che ha centrato il segno. Per scandalo non mi riferisco, chiaramente, a quando indignava il raffinatissimo pubblico del Decadence di Bologna indossando una svastica mentre faceva suonare “Der Mussolini” dei DAF. La svastica l’avevano già indossata Siouxsie e Sid Vicious, senza apologia ma col gusto sincero della decontestualizzazione e, in fin dei conti, stava semplicemente bene con l’abito nero di Isabella. Fa scandalo ciò che non si accetta perché ci spinge dove abbiamo paura di andare o di amare. Se, come disse Isabella imbracciando un fucile, l’alfabeto è pieno di proiettili lo scrittore è un cecchino. Non starò a descrivere cosa è la scrittura della Santacroce, per la quale sono stati usati infiniti aggettivi, certo è che c’è una capacità estetica che è una cifra ben precisa. Gli occhi spalancati chiusi di Isabella sanno raffigurare bulimiche immoralità di violento lirismo. È anche molto divertente Isabella e questo non l’ho letto scritto da nessuno.
Scrivere in quel modo lì, senza punteggiatura, interrotto come le ragazze di cui parla sempre, è come una canzone di Kurt Cobain. Pare semplice ma falla te.
La Santacroce è l’unica vera cannibale, lei che di quel famoso volumetto Einaudi, nato dopo un film, Pulp fiction, che aveva mostrato come si potesse essere violenti, divertenti e romantici non faceva parte. C’è una frattura profonda in Isabella che pare la stessa di Jeffrey Dahmer: dove non v’è soluzione si va avanti massacrando e divorando. Con amore. Ma cosa? Chi? Sé stessa in primo luogo. Poi tutti gli altri che da lei si farebbero mangiare volentieri, in particolare chi la detesta.
Chi si illude di aver capito Isabella come continua messa in scena non ha inteso che il gioco di maschere che ella indossa, dentro e fuori la pagina, è un modo per autoescludersi. Isabella non esiste se non come fenomeno performativo e estetico della pagina scritta e del corpo che la produce. Capace di apparire velata, in una versione rovesciata di Madonna in Like a Virgin e prima di Lana Del Rey, o con maschere fetish, oppure mostrando il proprio culo come affronto alla trascuratezza del Salone del Libro di Torino che non la considerava, infine semplicemente sparendo, la Santacroce ha saputo annullare il quotidiano sostituendolo con un’in-esistenza altamente seduttiva.
Una volta mi raccontò della disciplina alla Mishima con cui andava in palestra e con cui si applicava alla pagina scritta, chiusa nel suo convento personale circondata da cervi di gomma, avvolta dalla musica di Satie e di Burzum, tra sogni di Laika e Emily Dickinson. Perché quello stile lì non lo si inventa e non lo si costruisce in un attimo. Ci vuole dedizione, sacrificio e amore per divenire null’altro che “un'impalpabile emozione, una dislessica professionista del nulla”. E il nulla appartiene solo alla generosità dei santi e della Santacroce.
Ok è tutto. Ci vediamo la settimana prossima. In fondo a Bengala troverete sempre e soltanto una frase di Charles Bukowski. Sappiatelo.