«Ho sentito degli spari in una via del centro
quante stupide galline che si azzuffano per niente».
Franco Battiato, Bandiera bianca
***
«Com’è vero che non tutte le speranze mai dileguano
dal cervello che si ostina su sciocchezze.
Cerca, avido, tesori
tutto allegro se gli capita un lombrico».
Goethe, Faust
THIS IS HAPPENING!
Hola Cabrones,
vi siete squagliati al sole?
Estate del caldo, meganucleare. Estate dell’escalation, dei record, della fine del mondo prossima. Oppure: stocazzo! è già tutto dimenticato, tutto superato, proiettato all’inverno. La sfangheremo. Ricominceremo da buone api operaie, addomesticate. A volte forse siamo semplicemente così tanto drammatici… no?
Sai perché capisco che questa non sia assolutamente la fine? Prima di ogni apocalisse l’aria diventa elettrica, l’ordine costituito crolla e la civiltà perde i freni inibitori. Non ci sono bande di predoni che viaggiano nudi senza regole, non è Kenshiro, non è nemmeno La Strada di McCarthy. L’umanità accende il climatizzatore e si fa un nuovo look, stanno tutti così attenti a non infrangere le regole della community per non essere bannati… Compra profumi estivi, va in vacanza, posta, clicca, spara cazzate. Insomma non c’è niente di più ordinario.
La fine del mondo invece non può essere ordinaria.
Il futuro sono campi di purificazione dalle stronzate degli altri. Te li venderanno in blocco, delle cellette bianche senza intrusioni. Come virus gli altri ci entrano dagli occhi i bisogni indotti che ci traviano dal nostro percorso. Per i complessati e gli insicuri è la fine. Anime di dio, loro si perdono nella ricorsa a somigliare a qualcosa o qualcuno, per poi rimanere sempre uguali a se stessi. Accettati, al massimo innocui invisibili facenti parte dello sfondo.
Il vero ribelle oggi non vuole sparire dalla massa: ci vive dentro e si chiede: come è che siamo così noiosi? Perché non ci stiamo DIVERTENDO? Perché dobbiamo stramaledettamente andare a lavoro e pagare le bollette per questa merda che abbiamo ogni giorno? Perché siamo tutti schiavi mosci così sottomessi e servi? Me lo spiegano i miei libri, me lo spiega Byung-Chul Han: «il diffondersi della depressione è una conseguenza del perduto rapporto col conflitto. L’attuale cultura della prestazione e dell’ottimizzazione non ammette alcuna gestione del conflitto, perché essa richiede molto tempo. L’attuale soggetto di prestazione conosce soltanto due condizioni: funzionare o rinunciare. In ciò somiglia alle macchine. Anche le macchine non conoscono conflitto, o funzionano perfettamente o sono guaste»
(Byung-Chul Han, L’espulsione dell’Altro, Edizioni Nottetempo)
Mi fermo all’ennesimo Autogrill e fa schifo. I prodotti pacco venduti in massa a prezzi folli, il malessere di chi ci lavora senza pause, di quelli che si fermano perché costretti e si sentono derubati, la benzina a due euro e gli stipendi fermi dal ‘91… insomma non c’è un segnale buono uno di salvezza. E gli attori vanno al Festival del cinema con la maglietta della Palestina e i giornali li riprendono, ce ne fosse uno diomio uno che si mette la maglietta con ALZATE I CAZZO DI STIPENDI POR°*IO.
Le pagine della cultura continuano a vendervi Premi Strega che parlano di tumori, frociaggine, presomalismo. La Cultura che dovrebbe essere l’orgasmo del cervello per elevarsi si trasforma in una marchetta instagrammabile e anche questo non mi fa che venire una sola domanda: come è che non sfasciamo tutto? Come è che non abbiamo creato un internet alternativo a Meta, come è che non abbiamo preso a calci in culo Milano e colonizzato che ne so Benevento e ci abbiamo fatto una mega comune per artisti che non vincono bandi che non sono nei festival che non sono di Stato?
Non lo so. Ma se da qualche parte comincerà, vorrei che fosse da qui.
Bengala resta sempre il top. Gli altri copiano e sucano.
Continuerò a spacciarvi la roba migliore, senza marchette, non sono La Stampa o Rivista Studio o Ale Cattelan o i podcast puttanata etc.
OASIS
Mi scrive Luca e infrange un po’ l’atmosfera di sogno che ho in testa: a noi che ce frega? In realtà penso: perché li vorrei assieme? Cioè in che modo li vorrei assieme? Li vorrei che ci godono, che si vogliono bene, presi bene, che ridono sul palco. Sarei distrutto a vederli assieme solo per soldi, come dei fantocci, trasportati dai rispettivi autisti fino a bordo palco e frettolosamente riportati in albergo dopo lo show. Ma è uguale, non me ne frega un cazzo. Ci andrò, farò di tutto per andarci. Stiamo tutti andando alla messa, mi spiego?
Lo facciamo per noi, per risentire quello che sentivamo vent’anni fa. Penso ai miei amici, a chi ha figli e non si muoverà, a chi lavora troppo, a chi non ha i soldi per un biglietto. Chi è di noi millennials pronto a salire su un’aereo per andare in Inghilterra a vedere un concerto? Sorbirsi posti di merda, lotteria Ryanair, gente brutta in fila al gate, bancarelle, prezzi folli, hotel, ressa, teste che ti coprono la visuale, inglesi sbronzi che ti versano la birra addosso, una vista da metà prato che ti condanna a vedere i fratelli solo dal teleschermo che a quel punto tanto valeva comprarsi il dvd? Siamo diventati tutti un po’ addomesticati, mettiamo i giudizi ai bnb quando ci dormiamo, ci scandalizziamo se troviamo una macchia sulle lenzuola e diamo di matto se non va il wifi. Abbiamo un po’ perso i superpoteri dell’adolescemenza, quando eravamo iridescenti e indistruttibili. Ora se cambiamo dieta non caghiamo più, prima digirevamo anche l’uranio impoverito.
Andremo a ricordarci chi eravamo, saremmo sicuramente un po’ più tristi per il tempo che è passato, per gli amici con cui ci vediamo meno, per le vacanze che non facciamo. Ci andremo e ci commovueremo anche per sentire una tristezza che facciamo di tutto per reprimere, ogni giorno. Faremo l’esperienza della tristezza per instagrammarla e vederla su uno schermo, che rende di più in effetti. Freddy dice: «non ci credo più nemmeno io a loro, ma metterò la sveglia apposta per prendere il biglietto perché ho bisogno di crederci».
Eppure è un eterno ritorno del passato quello che stiamo vivendo. Non il passato della reunion degli Oasis o dei CCCP, ma il nostro. Questi soggetti ci ricordano come eravamo ed eravamo una versione di noi un po’ più agguerrita. Ogni vecchio rimbambito che si rispetti nel mondo vi dirà sempre e solo una cosa: ai miei tempi era meglio! Quando sentirete il magico refrain state certi che siete di fronte a un vecchio, non anagraficamente perché può dirlo anche un giovane, ma mentalmente.
Se rimpiangi il passato in nome di un presente, sei nostalgico di te stesso.
Rifiutare il presente a priori è un po’ un pacco. Vero è che c’è poi la storia. Che ne so se prendiamo la storia della musica degli anni ‘20 del 900 non è che sia così affascinante. Diciamo che abbiamo avuto un mezzo secolo di sottoculture buone e musica di massa melensa e canzoncine fino agli anni ‘60. Le decadi non son tutte buone. Come per i vini…
La decade del 1990 invece è qualcosa di perfetto, irripetibile. Non si butta via niente, manco i jingle pubblicitari. Dire che anche una scoreggia dei ‘90 è meglio della musica del nostro attuale decennio non penso sia da vecchi rimbambiti, ma da studiosi.
Altra cosa: ai fan degli Oasis di solito piacciono anche i Blur, ma meno. E non c’entra nulla la musica. Damon Albarn è bello, bravissimo, dolce. Liam Gallagher lo amavamo perché era un cazzone come noi che non sentiva il bisogno di far canzoni intelligenti o mostrarsi alternativo. Gli piaceva fumare, camminare come un bullo e fare il figlio di puttana in un mondo dello spettacolo fatto di bambocci e di dichiarazioni da bambocci. “Aiutiamo l’Africa”, “suoniamo per i diritti umani”, sucate! THIS IS HISTORY dice Noel Gallagher a Knewborth. ROCK ‘N ROLL c’ha scritto Liam sul palco a ogni concerto.
Poi ci siamo ammorbiditi, abbiamo imparato a dire di si al capoufficio subumano che ci umiliava, abbiamo cominciato a fare le cose in regola, a comprare a rate (scegli la vita, scegli un maxitelevisore del cazzo, etc). Quando ascoltavamo gli Oasis eravamo Liam Gallagher (I need to be myseeelf, i can’t be no onelse, I’m feeling supersonic, give me gin and tonic). Avevamo tutti diritto a sentirci supersonici.
E i ‘90 per noi bianchi occidentali lo sono stati. È stato l’ultimo momento di spensieratezza prima che arrivassero gli attentati, le crisi, le paure missilistiche, prima che la nostra moneta perdesse valore, prima dei social network, prima del Corriere che scrive le stronzate con la schwa, prima che i nostri stipendi calassero, prima dell’inquietudine insomma.
Torniamo sempre nei ‘90 perché è la nostra comfort zone, la versione di noi mezzi sudici e sudati ma a qualche festivalino, prima della paura delle malattie, del dormire scomodi, dei calli, delle emorroidi.
Si rideva anche meglio. Mirabolante questa versione pugliese degli Oesais con Solfrizzi e il suo amico, Toti e Tata. Guardatela coi sottotitoli, commuovetevi.
Se vuoi farti due risate e ricordarti la scena discografica degli anni ‘90, se vuoi una copia fatta bene di American Psycho, questo libro non ti deluderà.
Entro in casa c’è puzza
La gatta ha cagato
Arranco tra i vani scalzo aprendo finestre
Pesto del bagnato
La gatta Aveva vomitato
È sabato
Ho lavorato
Ho fatto shopping e al momento di pagare
La carta diceva fondo insufficiente
Ho finto che sarei tornato
Ma cassiera e gente in coda sapevano che mentivo
sentivo la strisciata della vergogna sulla schiena
nei loro occhi di pidocchio appicciati a spiarmi
Posso incassare qualsiasi colpo
Posso andare sotto di due reti
Posso essere un fondo insufficiente
Così come sulla vetta dei tuoi pensieri
Posso driblare ostacoli
E aggirare la diga
Nonostante loro siano di più
Più glaciali
Più riusciti
Più affermati
Posso incassare qualsiasi colpo
M'hanno forgiato dal ferrivecchi
«la dietrologia mi scoraggia per i suoi determinismi e la sua mancanza di ironia»
Filippo Ceccarelli
Se avessi chiesto all’intelligenza artificiale “fammi godere” non avrebbe saputo accontentarmi tanto quanto ha fatto Filippo Ceccarelli con B. Una vita troppo, edito da Feltrinelli.
Funziona un po’ come la violenza: ci sono delle dinamiche in essa che ti conquistano. I sequestrati si innamorano del loro sequestratore, il tuo aguzzino può diventare Dio. Berlusconi, per chi come me l’ha vissuto in politica dal giorno 0 e ha sperimentato lo sfascio delle istituzioni, delle politiche sul lavoro, della giustizia già malandata; per chi ha assistito alla sparizione della classe politica sostituita da personaggi presi al Twiga e nei villaggi vacanze con le mignotte, rappresenta questo. Perché lo guardi e non riesci comunque a non rimpiangerlo, a non volergli quasi bene come a uno zio di famiglia.
Questo libro, un libro di storia e di cronaca che ripercorre l’Italia meglio di Augias, Piero Meli e compagnia, è un ibrido tra Blob e Paolo Sorrentino, col valore aggiunto della ricostruzione giornalistica. I personaggi minori dell’epoca ritornano tutti a galla attorno al totem umano Silvio.
Per me Premio Strega, premio tutto. Un libro sulla leggerezza, il segno evidente che la storia è davvero fatta di corsi e ricorsi e che tutto si ripete di continuo. Costa 30 euro perché oltre alle sue 600 e passa pagine, contiene un apparato fotografico notevolissimo. Li vale tutti. Compratelo!
Quello che segue è un mini cutup di testi presi da “B. Una vita troppo”, di Filippo Ceccarelli, edito da Feltrinelli
Lo stesso Toni Servillo, che nel cavaliere si è calato sul set dopo interminabili sessioni di trucco, ha detto che per “cogliere il mistero bisogna estrarlo dalla dimensione pubblica e collocarlo in un luogo in cui agiscono i sentimenti».
Walter Siti: “È riuscito a diventare più di se stesso facendo dell’Italia la propria scimmia”. In un’altra occasione, sempre Siti, che in suo romanzo si è divertito a definire Berlusconi “Peroncino” evocando il tappo di una birra e l’esperienza di Juan Domingo Peron, non banalmente ha sostenuto che “il cavaliere ha fatto il male volendo incessantemente il bene”, il che in parte spiega come egli si reputasse innocente e come mai moltissimi italiani, al suo posto, si sarebbero comportati come lui.
Nel suo primissimo comizio dopo l’annuncio della discesa in campo, alla vecchia Fiera di Roma, nel febbraio 1994, l’homo novus della politica italiana cominciò con queste parole: “Mentre venivo qui pensavo, lo penso ancora, che c’era un matto che stava andando a incontrarsi con altri matti…”.
Sarà che il carisma è un dono divino, ma una circostanza che mi ha sempre colpito è come dovunque fosse atteso, come attrratta da un irresistibile magnetismo si formava una folla entro la quale subito si notava la più cospiqua e variopinta varietà di “matti”; essendo questi ultimi molto più espressivi e a volte anche interessanti della gente cosidetta normale, ecco che attorno a lui con impressionante regolarità finiva per agitarsi e condensarsi una specie di corte dei miracoli, l’Italia degli affreschi medievali: fiamme, purulenze, strli benedetti, in fondo, rifletteva Guido Ceronetti, la più autentica.
Il sospetto è che nessuno meglio di lui riuscisse a leggere nella psiche dell’italiano moderno il rifiuto di crescere; e che nessuno più di lui abbia sfruttato tale competenza.
“E ricordate” raccomandava spesso ai suoi venditori, poi ai dirigenti delle reti televisive e infine agli esponenti di Forza Italia, “che il pubblico è composto in massima parte da persone che hanno fatto la seconda media e spesso nemmeno ai primi banchi”.
Il cavaliere era aiutato da una piena e innocente coscienza della propria superiorità che in direzione del prossimo suo esprimeva con gesti perfino gentili: il buffetto, il cioccolatino, la mano posata sulla spalla; ma se si cede all’insostituibile valore dei particolari, la vocazione paternalistica berlusconiana sta tutta nell’uso reiterato e ben dislocato di una paroletta tanto più illuminante perché di solito rivolta a qualche bimbo: “birichino”, autentica perla semantica di benevolenza e dominio, degnazione e buonumore. Con accortezza la riservava a quanti partecipavano delle umane debolezze, dal vicepresidente del Consiglio Tatarella, “Pinuccio birichino”, paparazzato a baciarsi su una panchina con una signora della Bari bene, ai meno rassicuranti faccendieri della cricca degli appalti pubblici, pure detti “birbantelli”.
Ma dietro quell’ego istrionico, dietro all’affanno di farsi riconoscere nella cerchia dei Grandi come il più grande simpatico di tutte le epoche, traspariva la convinzione e perciò la volontà di riuscire utile all’Italia, di svolgere un servizio, di essere uno statista all’altezza del tempo pop- e come tale si può anche pensare sia vissuto e sia ricordato all’estero.
Una volta nel ricevere una delegazione cinese che gli aveva recato un vaso prezioso, fece finta di farlo cadere, oooops!, per poi recuperarlo all’ultimo e spiegare poi in privato: “Mi hanno promesso che me ne porteranno un altro, stavolta spero senza i fiorellini, ma con il kamasutra” (che, si perdoni il tono saccente, ma con la ciona non c’entra un piffero).
Nominò la Cecoslovacchia che non esisteva più; quindi creò dal nulla o meglio ibridò uno stato baltico, l’”Estuania”, evocò il “Consiglio superiore” dell’Onu, pure producendosi in un arditmentoso baciamano alla moglie di un presidente islamico, gesto che da quelle parti equivaleva ad un’autentica sconcezza.
Ma ci pensò Bossi a riportare tutto sotto il terreno delle sottigliezze: “Meglio uno di destra che va con le donne che quelli di sinistra che vanno con i culattoni”.
Berlusconi ne fece un’altra; mentre il corteo delle delegazioni procedeva a piedi, lui all’improvviso si fermò, si nascose dietro a una colonna, aspetto che Angela Merkel si guardasse attorno chiedendosi dove fosse finito, poi a sorpresa le spuntò a fianco comee si fa con i bambini: “cu-cu"!”.
A onor del vero, riguardandosi lo storico filmato, c’è da dire che lei non sembrava così dispiaciuta, anzi gli fece un bel sorriso mormorandogli a braccia aperte “Oh Silvio!”.
Uno appena uscito per La Nave di Teseo, l'altro con Il Saggiatore.
Cacciate i soldi e comprate i libri buoni! Non pagate le fottute bollette!
Appena uscito Wild God. Io lo sto ancora ascoltando. Non so dire ancora niente a riguardo se non che i singoli mi erano piaciuti. Aspetto Farebegoli su Bastonate per avere una bella illustrazione del disco. Intanto puppatevi lo speciale su Nicola Caverna, un tipo tutto preso male di Pontedera, che la sera suonava a Santa Croce sull’Arno e il giorno faceva il barbiere per i vecchi. Secco come un chiodo. Lui la parrucca non se l’è mai messa, gli è bastato tirarsi indietro i capelli.
A Nick Cave non piace più fare le interviste, dice che gli fanno schifo. Ha ragione. Per rimediare pubblica 400 pagine di chiccherata con O'Hagan che non so chi sia, credo un giornalista musicale, ma insomma di sicuro è uno che stima. Il risultato è bello, una vera conversazione piena di spunti profondissimi.
La nave di Teso pubblica questo volume stupendo che vi porta nel flusso di pensieri di un uomo sterminato, uno in grado di fare delle cose che gli esseri umani comuni non possono fare. Ecco un estrattino in cui si parla della sua passione per la Bibbia, della spiritualità, insomma del niccheiveismo puro.
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estratti da Fede, Speranza e carneficina (La nave di Teseo)
Forse possiamo esplorare questa cosa più avanti. Ma stai dicendo, per ciò che concerne fede e credenze, che sei essenzialmente un conservatore?
Sì, è sempre stato così, e non soltanto per ciò che riguarda la mia fede. Penso di essere caratterialmente conservatore.
È una parola piuttosto pesante.
Be’, è pesante per te, forse.
Sicuramente. Ma intendi che sei un tradizionalista?
Ok, tradizionalista, se la preferisci come definizione. Non sono affatto interessato alle idee più esotiche di spiritualità. Sono attratto da quelli che molti considererebbero tradizionali principi cristiani. Sono particolarmente affascinato dalla Bibbia e nello specifico dalla vita di Cristo. In un modo o nell’altro, ha avuto un’influenza potente sul mio lavoro sin dal principio.
C’è di certo un elemento di nostalgia dentro, lo ammetto, e questo probabilmente risale all’epoca in cui mi accostai per la prima volta alle storie della Bibbia. Quando ero ragazzino frequentavo la chiesa un paio di volte a settimana, perché facevo parte del coro della cattedrale. E imparai molto andandoci. Acquisii familiarità con quelle storie, le amavo molto. Ero incredibilmente attratto da tutta la faccenda. Ricordo di aver comprato una piccola croce di legno al negozio della cattedrale con sopra un Gesù d’argento, sai, per mettermela al collo. Avevo più o meno undici anni. C’era un pezzo di carta attaccato che diceva “Fatta con il legno della vera Croce”. Pensai “Wow, la vera Croce”.
Ah, ti mentivano, anche allora!
Ah ah! Sì. E chiesi a mia madre “Mamma, questa è fatta con il legno della croce vera su cui è morto Gesù?” e lei rispose “Forse tesoro”, in un modo tale che capii che non lo era, ma riuscì comunque a conservare in qualche maniera il suo mistero.
Il punto è che ho sempre avuto una predisposizione verso questo tipo di cose. E, poi, quando cominciai a interessarmi all’arte, era spesso a certe opere religiose che mi rifacevo, più che al resto. Sentivo che possedevano un potere ulteriore, un potere che andava oltre l’arte in sé. Erano una porta d’ingresso, anche.
Eppure quando i critici recensiscono il tuo lavoro questa è una cosa poco discussa. Pensi che i giornalisti tendano a evitare l’argomento?
Oh Dio, sì! Sicuramente. Ricordo un’intervista di circa trent’anni fa con il giornalista di una qualche rivista musicale, in cui il tizio si mise seduto e disse, “Prima che iniziamo, il mio editor mi ha raccomandato ‘Non farlo parlare di Dio!’”
Foto Archivio Banhoff nello studio di Enrico Pantani
estratti da Fede, Speranza e carneficina (La nave di Teseo)
Dunque credi nella redenzione in senso cristiano?
Be’, penso che tutti noi soffriamo, Seán, e spesso questa sofferenza non è che un inferno che ci costruiamo da soli, è un modo d’essere di cui siamo noi i responsabili, e ho avuto bisogno, a livello personale, di trovare un qualche tipo di salvezza da questa sofferenza. Un modo in cui lo faccio è provare a condurre un’esistenza che abbia un valore morale e religioso, e provare a considerare gli altri, tutti gli altri, preziosi. Quando compio un gesto che ferisce una singola persona, per dire, percepisco che questo misfatto va a danneggiare il mondo intero, o l’ordine cosmico persino. Credo che quel gesto sia un’offesa a Dio e debba essere in qualche modo corretto. Credo anche che le nostre azioni positive individuali, i nostri piccoli atti di gentilezza, si riverberino nell’universo in modi che non sapremo mai. Quello che voglio dire è che – noi contiamo. Le nostre azioni contano. Noi abbiamo un valore.
Penso ci sia qualcosa d’ulteriore rispetto a ciò che riusciamo a vedere o comprendere, e che abbiamo bisogno di trovare un modo per abbandonarci al mistero delle cose – all’impossibilità delle cose – e riconoscere l’evidente valore che c’è nel farlo, e raccogliere il coraggio necessario a non fare costantemente ritorno alla mente conosciuta.
Stai dicendo che tutte le tue canzoni più belle in qualche modo hanno quell’elemento trascendente – o religioso? O che quantomeno lo ricercano?
Intendo che tutte le mie canzoni sono state scritte da una posizione di desiderio spirituale, perché quella è la posizione che abito costantemente. Questa posizione mi sembra energica, creativa e colma di potenziale.
Nick Cave da ragazzo voleva fare il pittore e veniva bollato come «frocio» assieme alla cricca di suoi amici. Trovò se stesso solo frequentando la scuola d’arte ma rimase malissimo di una bocciatura perché era convinto che sarebbe stato un pittore. La musica, che è parte della sua vita, dice che sia qualcosa che non conosce. Accanto all’appunto tremolante di The Mercy Seat dice: «Mentre cominciavo a scriverla non pensavo che fosse importante o che l’avrei cantata in ogni concerto dei prossimi trentacinque anni o che l’avrebbe incisa il mio mito Johnny Cash. Spesso mi rendo conto che di come si scrive una canzone ne so poco. Le canzoni sanno cogliere il potenziale meglio di me».
Affascinato da sempre dalle storie della Bibbia, Cave conserva e colleziona santini e vangeli, su cui prende appunti per i testi. E la Bibbia quando cominci a leggerla ti entra nella testa, ti modifica la prosa, la visione. Nelle prime pagine del volume, l’autore scrive cinque piccoli pezzi. Nel primo racconta come: «Nasci, un pezzo alla volta costruisci te stesso», per poi arrivare a descrivere «l’evento sismico che da sempre era in attesa: non sei mai stato cosa pensavi di essere. Tu sei un’illusione e l’evento ti infrange in un milione di pezzi». Solo ricostruendoti in qualcosa che ti sembra estraneo a te stesso e invece si rivela il tuo vero scopo, diventi grande e fai parte di una coscienza collettiva. «Eccoti nuovo. Rifatto. Ma sei un altro. Sei diventato un noi e ciascun noi è l’altro».
Oltre a queste frasi da percorso spirituale c’è una biografia raccontata tramite l’accumulazione e il feticismo e a volte il fatto che dietro anche al più grande intellettualone ci sono delle storie semplicissime. Tipo Papa Won’t Leave You, Henry nacque come ninna nanna per il figlio, per questo era così cantilenante (come The Weeping Song), e lunga: perché addormentare un bambino richiede tempo. Altri dettagli nerd. Una borsa con la scritta “Kylie” che gli venne regalata da un tizio mentre camminava strafatto a Londra nel 1992. Quel nome gli è risuonato in testa per anni, lo richiamava e forse fu il motore che poi lo avvicinò a collaborare con Kylie Minogue nel 2012. C’è pure il testo originale di Red Right Hand divenuta poi la colonna sonora di Peaky Blinders, un pezzo di cui a lui frega pochissimo e di cui apprezza la versione ironica che ne ha fatto Snoop Dogg.
Se vuoi sapere queste cose e anche tanto altro leggi e compra Stranger than kindness de Il Saggiatore
Indeciso se essere the coolest man on heart, un maledetto post hippie sciroccato o un turista americano, qui mi vendo a voi come intellettuale. Chi mi ama mi segua sui social e sparga il verbo. Chi ha lo sbatto venga a sentirmi parlare al festival de ilBlast.
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«Me ne sono accorto in un momento di autocommiserazione lucida: non c’è posto al mondo per essere un fallito che questo paese.
Qui la mediocrità regna su tutto come un incantesimo somministrato lentamente, a dosaggio controllato. Sono tutti dei falliti.
Derelitti con le ciabatte e il suv impestano le strade in cui un tempo camminavano re e conquistatori, i paesini medievali concepiti come meta di ristoro e pellegrinaggio sono abitati da spettri e da vecchi sovrappeso e incattiviti dall’ignoranza. I loro sguardi ti intimano di andartene. Pessime vibrazioni.
Se sei un fallito alla fine non ti dice niente nessuno. La mediocrità e uno standard così affermato di cui fanno parte i tuoi genitori, il migliore amico, il dipendente delle Poste, l’assicuratore, il vigile urbano, l’uomo al banco dell’accettazione del pronto soccorso, il sindaco. Tutti fanno fatica ad arrivare a fine mese, cercano i prodotti in sconto, rateizzano, sognano viaggi che non faranno mai e si lamentano al bar.
Ecco la mediocrità. Te la vendono come una sicurezza.
Te la vendono chi? Chi sono loro? Vedi, è qualcosa che non puoi dimostrare, è l’atteggiamento del nostro tempo: dai la colpa al sistema e tutti gli altri disorientati spiantati ti assolveranno da quelle colpe che invece non ti fanno dormire la notte. Diventano vocine, rimorso, intuizioni segrete che non sussurri nemmeno a te stesso. Vivi nel castello sapendo benissimo che è finto, ma non trovando mai il coraggio per dirlo a te stesso.
A cosa dovrebbe servire la scrittura? A buttare giù questo muro. Ma se non sei onesto non scriverai mai niente di eterno.
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Ok è tutto. Ci vediamo la settimana prossima. In fondo a Bengala troverete sempre e soltanto una frase di Charles Bukowski. Sappiatelo.