Bengala arriva sempre di sabato ma non a questo giro. A questo giro è una messa e si celebra il giorno della scomparsa del compianto.
Trent’anni fa, oggi, nel capanno degli attrezzi della casa di Seattle, Kurt Cobain si spara in bocca e muore. Per tre giorni il corpo rimarrà steso sul pavimento, nonostante detective e amici andassero a cercarlo a pochi metri. Lo trovò un elettricista la mattina dell’8, accedendo alla rimessa per fare dei lavori.
Sono uscite diverse cose a tema Cobain in questi giorni, tutte buone (un numero di Robinson, uno speciale di Rumore), voglio vantarmi di aver messo assieme un Bengala che non ha niente da invidiare ai grandi magazine. Perché Bengala non ha davvero niente da invidiare ai grandi magazine.
Bengala è un magazine a tutti gli effetti e al tempo stesso è del tutto indipendente da editori, pubblicità e stronzate varie. Per questo spacca.
Troverete un bellissimo pezzo di Luca Buoncristiano (Il Kart Cobain dei Parioli), un pezzo mio e tanti contributi con penne maestre tipo: Davide Bregola, Edda, Jacopo Masini, Valentina Cesarini, Alessandro Mannucci, etc…
La cosa più interessante che ho letto è stata un pezzo di Farabegoli su Rumore in cui faceva riferimento a un articolo di Vice del 2013 sui danni fatti dai pezzi tipo “io e Kurt”. oggi ne avrete visti a decine e ne vedrete anche qui e secondo me è cosa buona e giusta perché succede quasi solo per Cobain. Proprio questo bisogno di dire “io c’ero”, “io lo amo” lo rende diverso da tutti gli altri, collettivo e di tutti. Va celebrata una cosa del genere.
L’adolescenza non è un periodo migliore, è solo un periodo lontano. Come tutto ciò che è ricordo non puoi che buttare giù un amo e tirarne fuori impressioni. Peschi nella rete della memoria tra i cocci tuoi e delle tue vite precendenti. Io ci trovo il mio sguardo basso che fissava gli schizzi delle pozzanghere e le scarpe che solcavano i marciapiedi, l’odore della pioggia a novembre e dell’erba bagnata, il profumo del lucidalabbra alla frutta delle ragazze e i miei sguardi trionfali nello specchio. Avrei voluto un gran funerale in cui tutti ascoltavano una lista di canzoni scelte da me e pensandomi dicevano quanto gli mancavo, e poi avrei voluto premere il tasto Pause e tornare in mezzo a tutti ripremendo Play a patto che loro avessero perso la memoria di quell’evento e gli fosse rimasto soltanto la voglia di stare con me. Jenny era una ragazza molto diversa dalle altre, sembrava sempre nel suo mondo ed era stramba, come se le battute non la facessero ridere o ridere non le interessasse, ma era serena, felice. Non avevo una cotta per lei ma intuivo che ne sapeva molto più di me su tutto e così cominciai a parlarle a ricreazione. Poco dopo mi incise una cassetta con la copertina rosa fluo e una foto di Cobain con gli occhialoni rossi ritagliata da una rivista. Era la prima volta che lo vedevo e tornando da scuola la ascoltavo in motorino. Era roba strana, mi piacevano solo i pezzi acustici e tutto quello che c’era prima che partisse il casino della batteria. Non mi piaceva la distorsione e mi faceva paura la voce di quello che cantava. Gracchiava. Fui il primo ad avere la ragazza, fui quello che disse “facciamo una band” e per colpa mia scartarono Nicola che era nel gruppo da mesi prima di me e sapeva suonare, ma aveva dei vestiti ridicoli e un atteggiamento da gattino spaventato. Io arrivavo con uno sguardo sicuro e mia madre mi aveva comprato una Stratocaster messicana e nessuno ce l’aveva e questo bastava. Mi sentii in colpa e mi ci sento ancora se penso a lui che se ne va dal garage e Antonello che dice «andiamo avanti». Quanta sciocca supponenza che dovevo mettere in pratica per sentirmi sicuro. Non sapevamo suonare e non sapevamo niente di niente, facevamo troppo rumore per farci notare da tutti ed eravamo stupidi come tutti gli adolescenti. Io ero il più stupido. I Nirvana mi facevano paura e mi deprimevano ma li suonavamo perché c’erano meno accordi, i batteristi si divertivano e per i bassisti i giri armonici erano semplici. Solo in rari momenti da solo e quasi in segreto riuscivo a godermi la compagnia di quella voce gracchiante nelle cuffie. Non sapevo niente dei testi e quando leggevo delle traduzioni ne sapevo ancora meno. Dumb e All Apologies mi colpivano. Maybe I’m just happy diceva una. Maybe. I think I’m just happy. Il mio cuore è spezzato ma ho della colla e robe così e mi pareva abbastanza.
Montecatini Terme capivo che era un posto senza niente dentro, solo case e strade che continuavano fino a quando non c’era un cartello che ti diceva Margine Coperta, oppure Pieve a Nievole. Ed erano un po’ più brutte di Montecatini ma erano pur sempre la stessa cosa. Era difficile a quel tempo capire chi fossero le persone con cui ridere o parlare seriamente e un punto di svolta nei rapporti era sempre quello in cui qualcuno premeva play e ascoltavamo la musica. E se trovavo anche uno solo che apprezzava quei pezzi allora significava che c’era qualcosa da dirsi e si andava avanti. Ancora oggi, che è passata l’altra metà della mia vita, se mi metto in macchina con Maurizio e parte un pezzo di Nevermind siamo subito tutti e due rilassati. Non c’è un perché ma è come tornare in un territorio consono, comune. Hey wait I got a new complain, cosa accomuna me e i miei amici a riconoscersi in un frase del genere? Non ne ho la più pallida idea, ma quelle atmosfere con le urla e la voce disperata erano l’unico suono che avevamo per spiegare a tutti quanto ci facesse schifo la nostra città di puttanieri e negozianti, dove c’era un solo negozio di dischi e 106 farmacie per davvero e nella sezione A del liceo c’erano i ricchi e nella F i figli del muratore come se da A ad F si dessero dei cartellini per la vita che poi non ti potevi più togliere. E quelli della A erano tronfi di soddisfazione a sapere che avrebbero avuto belle ragazze e soldi da spendere in bei vestiti e soddisfazioni mentre noi ci copiavamo le cassette così tanto fino che non si smagnetizzavano e ci vestivamo male. Però andavamo a suonare alle feste nei circoli arci o a situazioni assurde e quando ascoltavamo Nevermind in camera o guardavamo la vhs del Live Tonight! Sold Out! Ci sentivamo come una piccola cerchia ristretta, come un enclave, una setta potentissima e aspettavamo i giorni della rivalsa.
Primo e unico concerto serio in un pub per turisti: noi che portiamo gli strumenti al secondo piano, attacchiamo Aneurysm e a metà ci interrompono. Troppo casino. Concerto finito, noi con gli strumenti in strada poco dopo a trattenere le risa e a galvanizzarci «ci hanno cacciati, vi rendete conto?». Avevamo rotto i coglioni per una volta a quella città di morti viventi. Eravamo noi contro di loro e perdendo avevamo vinto e vincere allora era tutto e stavamo vincendo giocando tutto su un gran perdernte. Io non sapevo nemmeno di cosa parlasse il pezzo, ma faceva lo stesso. Eppure per tutta l’altra musica che ascoltavo il testo era importante lo andavo sempre a tradurre. Con i testi dei Nirvana anche se traducevo non capivo allora tanto valeva non farlo proprio. Non serviva quasi il testo per capire che quelle atmosfere erano un coltello. Allora cominciammo ad ascoltare quella musica al pomeriggio mentre ci allenavamo a fumare sigarette e a suonare la chitarra. Non volevo essere una rockstar, volevo essere a capo di un esercito, volevo sfondare il muro invisibile che proteggeva Montecatini e non faceva entrare niente dal mondo esterno. E volevo farlo con sotto il ritmo incessante di Territorial Pissing. Mi ricordo lucidamente che prima di entrare in classe e appena suonava l’ultima campanella volevo sentire la musica. Ci pensavo anche durante le lezioni quando le lavagne si riempivano di segni numerici incomprensibili e alcuni professori annoiati ci trascinavano nel loro piattume senza passione. Sentire la musica era ritornare in quel territorio consono. Oggi è passata davvero metà della mia vita e so molte più cose su Kurt Cobain e i suoi 27 anni ma questo non cambia niente. Ogni volta che ho bisogno di ascoltare questa roba è sempre per gli stessi motivi: appartenenza e bisogno di allontanarmi dalla mediocrità, anzi di trovare i miei amici, nella mia testa. È un richiamo all’ordine e al tempo stesso il corno dell’adunata di tutti i fedelissimi, la musica che unisce me e le persone per cui metterei a rischio la mia vita in un’unica grande foto di gruppo.
Quando Cobain è andato in coma a Roma nel 1994, pochi mesi prima della sua morte si era ingoiato 60 pasticche di Roipnol. Stava rompendo con Courtney Love che lo trovò riverso a terra col sangue che gli usciva dal naso. Accanto al corpo un biglietto in cui Cobain diceva a sua moglie “Non ce la faccio a passare per un altro divorzio” alludendo alla pessima piega che stava prendendo il loro matrimonio. I genitori di Cobain si erano separati quando lui era un bambino e da quel momento la sua infanzia felice aveva preso un’altra piega. Il ragazzino amato da tutti, entusiasta, infervorato, illuminato che era si trasformò presto in un problema da gestire. La sua vita divenne un’odissea tra i nonni, la madre, il padre, per un breve periodo anche la casa di un pastore di Aberdeen la sua città natale. Rileggendo questi fatti mi sono ricordato di una notte in cui ho camminato da casa mia al centro di Montecatini per arrivare prima dell’alba nella piazza vuota. Facevo ancora le medie credo e mi ero fatto sei chilometri a piedi da solo. Ero nella piazza che la sera era piena di gente ed ero arrivato prima degli spazzini, in un’atmosfera surreale e di scoperta, di fronte a un futuro silenzioso e pieno di presagi da adulto, come di fronte a un grande evento cerimoniale insomma, così mi misi su una panchina. Da quel giorno capii che ero solo al mondo. Avevo un blocchetto e una penna e disegnai quello che vedevo e ne venne fuori un piccolo schizzo impressionista, neppure malaccio, i lampioni la piazza vuota il Caffè Biondi. Forse scrissi anche qualcosa. Ero fuggito da casa dove vivevo solo con mia madre con cui avevo litigato fino a tarda notte perché bussava alla mia porta fuori di se e continuava a non farmi dormire e a volere informazioni sulla nuova donna di mio padre. Ora lo ricordo con distacco e perdono ma al tempo era dura da capire. Qualche ora dopo mio padre andò a fare un prelievo in banca prima di colazione e passò davanti alla mia panchina sulla quale ormai dormivo. Mi ricordo i suoi occhi sconvolti, che ci fai qui? E poi andammo a fare colazione. Quando ho saputo che il ponte di Something in the way esisteva davvero è tornata alla memoria quella fuga, perché avevo letto che per qualche giorno Kurt bambino dopo esser stato buttato fuori dalla casa del pastore bivaccò sotto a quel ponte. È un episodio oscuro di cui non si sa troppo ma di certo il nomadismo divenne la sua situazione principale. A vent’anni, dopo aver scoperto che non avendo i soldi per l’affitto stava dormendo in un cartone del frigorifero, Novoselic lo fece dormire sul suo divano. I figli dei divorziati hanno tutti gli stessi problemi, roba da manuale. Non ho più ascoltato seriamente i Nirvana fino ai 28 anni perché pensavo a tutto questo e soprattutto perché Cobain era un suicida e avevo paura a farmelo entrare troppo nella testa. Così come non ho mai il coraggio di leggere i diari di Pavese. Da grande, forse invecchiando, provo sempre più commozione per quanto riguarda l’argomento, forse perché a un certo punto ognuno di noi ha bisogno di votarsi a una forma d’amore superiore. Penso alle sue collezioni sterminate di oggetti, alla sua allegria, alla sua bellezza, a lui che arriva alle feste dove nessuno lo conosce e dice here we are now, entertain us e tutti che ridono. E più leggo i suoi diari, più osservo le opere d’arte che disegnava o creava assemblando le migliaia di cianfrusaglie che comprava ai mercatini di città e più mi rendo conto della vastità della sua sensibilità. Non me ne frega un cazzo di parlare del suo genio, di quello non c’è nemmeno bisogno. Non voglio essere blasfemo né ironico, ma per me la figura di Cobain è quella di un martire. Per carità è morto miliardario e all’apice del successo e riconosciuto dai suoi stessi miti e maestri già in vita come il più grande, ma ciò non toglie quello che appunto gli deve essere costato lasciare tutto questo. Lasciare la speranza di cambiare e soprattutto la sua piccola figlia. «No ve lo giuro non ce l’ho una pistola» canta in Come as you are già anni prima di spararsi nel capanno degli attrezzi. Tutti sapevano che sarebbe successo, il suicidio era il suo tema principale sin dall’infanzia e solo l’ultimo anno credo fosse andato in overdose quasi dieci volte. Quindi non è un martire per tutti noi, anzi per voi, diciamo piuttosto il mio martire personale e a volte ho quel pensiero peccaminoso, quel senso di colpa che mi fa pensare che con la sua morte e la paura che mi ha fatto forse mi son salvato io. Quando è morto mio nonno ho pianto ma quando rifletto alla morte di questo ragazzo di ventisette anni la sento come qualcosa di molto vicino alla mia vita, alla mia storia, la sento davvero come un lutto. I’m worse at what I do best and for this gift I feel blessed. Ovvero: sono il peggiore in ciò in cui eccelgo/ ed è un dono questo per cui mi sento benedetto (da Smells like teen spirit).
Fermi tutti perché godo.
Scorro le pagine di questo piccolo e preziosissimo volume di Minimum Fax e mi rendo conto che volano. Il primissimo Kurt, quello povero in canna ed entusiasta di potersi pagare l’affitto ogni mese senza salti mortali spiega al mondo che a lui va benissimo la vita che fa. Non gli interessa di diventare un burattinaio milionario, ma solo di far musica che piace alla gente e divertirsi.
Firmano con la Geffen e un giornalista dice che un’etichetta ha investito su di loro “tre quarti di milione di dollari”.
Cobain spiega subito che di quei soldi il 33% son le tasse, il 15% dell’avvocato, il 10% al manager, 70.000 dollari alla Sub Pop e 20000 restanti ai tre membri della band. «In questo momento io non ho una casa».
Il rapporto coi beni materiali di Kurt è sempre emblematico. Registra Nevermind e ha un commercialista che gli emette una sorta di paghetta mensile di cui forse non sa nemmeno la reale cifra. Poi diventa milionario e spende senza misura nei gadget di feti e organi interni che ritroveremo nella cover di In Utero.
Più pesante del cielo è famosissimo. È LA biografia per eccellenza, quella scritta da Charles R. Cross che è stato l’unico giornalista ad avere accesso agli archivi privati di Cobain, ai diari, agli oggetti personali. Era stata pubblicata anni fa in Italia e adesso Il Saggiatore con una grande mossa (come al solito) la riporta in libreria con una nuova cover.
Secondo uno degli aneddoti che Kurt Cobain amava raccontare, a diciassette anni avrebbe rubato i fucili del patrigno e li avrebbe barattati per una chitarra elettrica. In questo episodio dai contorni mitologici è condensata buona parte della sua storia: i rapporti difficili con la famiglia (la madre lo cacciò di casa, con il padre non parlò per anni), il desiderio di evadere dall’anonimo paese di taglialegna in cui era cresciuto, la sfrontatezza venata di candore; il bisogno di fare musica, il più grande degli amori e l’ultimo dei rifugi.
Charles R. Cross segue il percorso personale e artistico di Cobain passo dopo passo, attingendo a documenti inediti e ricordi di prima mano: il liceo mai concluso, i lavoretti per sopravvivere – tra cui quello di inserviente nella sua stessa scuola –, i primi concerti davanti a una manciata di collegiali ubriachi, il primo album, nel quale non credeva nemmeno l’etichetta. E poi il successo con Nevermind, improvviso e più grande di ogni cosa, con cui divenne la voce di una generazione vendendo milioni di dischi; ma anche la turbolenta storia d’amore con Courtney Love, un disagio interiore invadente e distruttivo, le attenzioni morbose dei paparazzi, la tossicodipendenza, il suicidio.
Charles Cross è il suo biografo ufficiale, quello che ha scritto Più pesante del cielo, l'unico autorizzato da Courtney Love ad accedere a tutti gli archivi, gli oggetti, la paccottiglia di Cobain.
Per alcuni questo è un deterrente, di solito sono i complottisti dell'omicidio voluto dalla ex moglie, ma io credo che non ci sia un libro completo come questo per capire i Nirvana.
Dentro trovate la riproduzione fedele dei suoi mixtape, i ritagli di giornale, le polaroid, le scarpe a grandezza naturale, gli svarioni, le collezioni di scimmiette, i modellini, le chitarre rotte.
Uno dei libri più belli che ho in casa, anche non riguardanti Cobain.
Non importa quanto costa, compratelo.
Quella in copertina era la sua foto preferita, gliela aveva scattata Courtney Love.
Pubblicato mille anni fa da ISBN questo è un piccolo gioellino.
Foto di copertina presa da un servizio scattato il giorno stesso in cui aveva avuto l'ennesimo coma per overdose. Roba così.
È chiaro che Montage of Heck sia il documentario più bello su di lui perché può vantare un sacco di video di famiglia mai visti, come Kurt bambino che gioca in giardino e il parlato del padre e della madre, ma tutto quello che è in Montage era già stato fatto dieci anni prima in questo piccolo capolavoro.
Imperdibile, tutto narrato da Kurt in prima persona che aveva registrato ore e ore di confessioni con l'autore. La sia voce che parla sulle immagini di Aberdeen è impagabile.
di Luca Buoncristiano
Kurt Cobain si è sparato in testa il 5 aprile del 1994. Me lo disse mio padre mentre ero in bagno a cacare. Ero sulla tazza del cesso e mio padre entrò con il giornale in mano. Mi disse “è morto Kurt Cobain”, ma lo disse male, pronunciò male il suo nome. È morto KART Cobain. Detta male la cosa fece meno male. E comunque il 5 aprile è il compleanno di mio padre.
Ero all’ultimo anno del liceo. In classe, con i pochi con cui condividevo l’amore per Kurt, ci si abbracciò più o meno commossi. “Vabbè” dissi io. In fondo lo sapevo, lo sapevano tutti, tutto il mondo non aspettava altro. Ci aveva provato poco prima, Kurt, a farsi fuori a Roma, a colpi di barbiturici e champagne in una suite dell’Hotel Excelsior di Via Veneto.
Il 22 febbraio del 1994 i Nirvana suonarono al Palaghiaccio di Marino, io e miei amici andammo. Come degli stronzi non eravamo andati a vederli al Castello, nel 1991, quando avevano fatto un concerto splendido immortalato da Videomusic che registrai su una videocassetta che consumai più dei porno con Angelica Bella. Più avanti, invece, scoprii che nel 1989 i Nirvana avevano suonato sotto casa mia, al Piper, in via Tagliamento 9, il che non è un modo di dire, era proprio l’ingresso della mia prima casa. Esiste anche una foto di Kurt seduto in via Paisiello a pochi metri da dove di solito andavo a mangiare la pizza. Volendo potrei dire di averlo conosciuto, Kart, ai Parioli.
Quello di Marino fu un concerto triste. Cobain era spento, probabilmente era già morto dentro, non quella sera, ma in tutte le innumerevoli sere della sua breve vita. Un pezzo alla volta.
Andavo al Mameli, il liceo classico più pariolino di Roma, io figlio della borghesia romana non potevo che andare lì. Odiavo quel posto e le persone che lo frequentavano. I gaggi. “Dieci, cento, mille gaggi del Mameli”, era la scritta che non dimenticherò mai e che troneggiava su un muro nei pressi della scuola. Gente che non capiva un cazzo di musica e passava i sabati al Much More o al Gilda, con le polo Ralph Lauren, i jeans con la cimosa o i pantaloni della Carhartt e le Stan Smith ai piedi. Tutte cose che avevo indossato anche io nell’inutile tentativo di essere un pariolino superficiale come loro, di rimorchiare una delle tante tipe bionde dagli occhi azzurri che popolavano le aule di quel liceo. Anche se alla moda, mi stava male tutto e stavo male con tutto. Stavo male e basta.
Non ero un gaggio, non ero un fico, ero uno sfigato, un loser avrebbe cantato Beck più avanti. Soffrivo e in quel mondo artificiale non c’era spazio per la sofferenza. Quello era il giro degli appartamenti felpati dei Monti Parioli e delle vacanze a Punta Ala o al Circeo. Degli amori accessori. Dei falsi abbracci e dei colletti tirati all’insù. Si stavano sul cazzo tra di loro, figuriamoci a me. Si salutavano tutti dicendo “Bella”.
Bella de che? A 16 anni la vita, per me, era già una merda.
Venivo dalla loro stessa classe sociale ma non c’entravo nulla, odiavo tutti e tutto. Anche gli SH su cui i pariolini sfrecciavano tra Vigna Clara, Corso Francia e Piazza Euclide. Io soffrivo, soffrivo per ogni cosa e la mia sofferenza mi rendeva inadatto in mezzo ai filippini in livrea o tra i banchi con le celtiche incise. Nell’agio ero comunque un disadattato. Non che non avessi moti di gioia ma c’era sempre un fondo nero dentro di me. Un buco. Al riso si doveva comunque accompagnare il pianto.
Mi piacevano cose che in quell’ambiente nessuno apprezzava. Gli Iron Maiden, i Guns n’ Roses, i Ramones, i Cure e, in un contesto in cui la massima trasgressione era sentire i Queen, ero quello strano. Ma Freddie Mercury morì di AIDS e arrivarono i Nirvana e divenni quello ancora più strano. Di quella stranezza prima me ne vestii e poi me ne appropriai. A proposito di AIDS, all’epoca fece scandalo il libretto di Lupo Alberto sull’educazione sessuale, prima distribuito nelle scuole e poi sconfessato dallo stesso Ministero della Sanità. Erano anni cupi in cui anche scopare metteva angoscia. Ed io l’angoscia ce l’avevo a prescindere. Venni presto arrivando tardi pure in quello.
Vittima della sindrome dell’abbandono, ovviamente le ragazze erano il mio problema principale. Erano bellissime nel loro ariano splendore e non mi cacavano di striscio. Gli altri, braccia tese, a giocare a fare i fasci, mentre io invisibile, invedibile, soffrivo per amore pur non amando. Soffrivo in prospettiva. Già che c’ero mi portavo avanti.
Emblematico fu il rapporto con Laura Settembrini. Quando entrò in classe, il primo giorno di quarta ginnasio, fu come l’apparizione della Madonna. Nostra signora dei Parioli. Io e il mio compagno di banco Tommaso, cui devo una cicatrice sul braccio dopo che mi ci conficcò una penna dentro, a quella visione saltammo sul banco.
Un viso incorniciato da una massa di riccioli biondi e occhi ovviamente azzurri, Laura indossava una camicia, un maglioncino e una gonna plissettata come quelle delle tenniste. Sembrava uscita fuori dal film Cruel Intentions. La amai per quattro anni, quattro anni in cui io mi strussi e mi distrussi d’amore e lei mi rimbalzò. A lei piacevano quelli più grandi, a tutte piacevano quelli più grandi e io non ero mai quello più grande. Non si è mai abbastanza grandi. Al quinto anno, quando ormai non me ne fregava più un cazzo e il mio cuore fragile era stato calpestato molteplici volte da quella troia di Elena Giustiniani, lei mi confessò il suo amore perché non ero come gli altri.
Ma guarda un po’.
Non ero come gli altri, ero come Kurt Cobain. Lei invece era al terzo aborto.
Chi ha la mia età una rivoluzione culturale l’ha vissuta, magari non tutti l’hanno percepita, ma c’è stata. Quantomeno lo è stata prima di diventare moda: l’avvento dei Nirvana.
La prima volta che ne sentii parlare ero al San Bellarmino, la parrocchia di piazza Ungheria, dove si andava a cazzeggiare e a guardare le tipe, tutte le domeniche dopo la messa delle 12. C’era un ragazzo, un metallaro un filo più grande, l’unica persona che conoscessi all’epoca col chiodo, in un quartiere dove tutti portavano il Barbour o, se proprio volevano indossare un capo in pelle, era lo Schott, con cui io e i miei pochi amici intrippati di musica si parlava. Fu lui che ci disse che c’era ‘sto gruppo fico, nuovo, che era diverso dalle altre cose e ci diede una cassetta. Era la copia di Nevermind. Questo avveniva prima del “botto”, dell’esplosione commerciale del disco.
Ora, non mi addentrerò nell’aspetto sociologico dell’impatto dei Nirvana, su quello che si sono portati dietro, ma solo in quello autobiografico, lasciatemi però dire che loro rappresentano l’ultima onda di quello che fu l’ultimo momento o movimento culturale che la mia generazione ha vissuto. Quando, per una strana congiunzione astrale, tutte le arti si sono toccate e sono confluite vicendevolmente l’una nell’altra senza confini di spazi. Gli anni ‘90 saranno gli anni dei fratelli Coen e Tarantino, di Hannibal Lecter, di Assassini Nati al cinema, di Laura Palmer in tv e dei cannibali da noi. Musica, cinema, e letteratura raccontavano un mondo scuro, violento, perverso e disperato. Due su tutti, in Italia, sapranno raccontare questa vuoto generazionale in cui tutti stavamo sguazzando, Aldo Nove con i suoi Smarties in Woobinda e Isabella Santacroce che beveva birra scura e ascoltava Nirvana nelle disco di Riccione in Fluo. In alcune foto dell’epoca, Isabella indossava una maglia a righe che ricordava quella di Kurt nel video di Sliver e sarà sempre lei a tradurre in Italia i testi di Kurt e Courtney. Quei due libri saranno la cosa più vicina a un disco dei Nirvana che l’Italia produrrà in quegli anni.
Ci sono dei punti di non ritorno nella vita, come la prima volta che ti masturbi, il primo bacio, quando perdi la verginità o quando vieni lasciato dalla prima ragazza. Superati i sensi di colpa, arriva la consapevolezza. La scoperta dei Nirvana, per me, fu uno di quei momenti. La mia rivoluzione. Ha a che vedere con la presa di coscienza. Con un terzo occhio che si apre o meglio una ferita che si allarga. Solo che questa ferita, quando la guardi bene, non fa più male, anzi è un ulteriore modo per guardarsi dentro, per guardare il proprio dolore. Ero triste perché ero triste. Soffrivo perché soffrivo. Quando capii che il tizio che stavo ascoltando non era tanto diverso da me, sentii che quella disperazione era qualcosa.
Non so come ma pareva che Kurt dicesse che potevo farcela, che andava bene, che anche io andavo bene, che andava bene stare male, che andava bene essere storti. Essere rotti. Kurt Cobain stava cantando il mio scollamento e quelle urla le misi tra me e il mondo. Mi aiutò a sopravvivere, a me e a molti altri, mentre lui stava solo continuando a morire. Tra lui e il mondo ci mise un colpo di fucile, a noi, ci armò.
Kurt aveva azzerato tutte le distanze tra il pubblico e le rockstar di cui non aveva le pose altezzose. Chi mai si sarebbe potuto identificare con Axl Rose? Nessuno. Con Kart sì. Era diverso dal resto dello show biz, come io lo ero col resto dei Parioli. Aveva tolto trucco e parrucco dal mondo delle star, per ripiegare su una comoda estetica da straccione. Rivendicando il diritto di non essere niente e nessuno in particolare.
I miei capelli diventarono lunghi, cominciai a tagliare i jeans e a indossare sdruciti maglioni a V con sotto la maglietta e le camicie di flanella a scacchi a Roma che non era proprio Seattle, climaticamente parlando.
“Come cazzo ti sei vestito?!” mi dicevano i gaggi poco prima di diventare tutti dei poser del grunge. Vaffanculo. Manco mi fossi messo le calze a rete e lo smalto sulle unghie. Ecco, i Nirvana erano per me un enorme vaffanculo. Lo dicevano loro al posto mio che non avevo le palle. Io ero solo I hate myself and I want to die. Un giorno mi ossigenai anche I capelli. Il giorno dopo avevo I capelli color ruggine. Una merda. Nevermind. Nel frattempo ero comunque diventato “bello e dannato”, più dannato che bello. Un tipo, via. Soprattutto non ero come loro. Vaffanculo a tutti, ai Parioli, a Laura Settembrini, a Elena Giustiniani, a Giulia De Lollis, a Claudia Cafolla, a Teresa Del Drago., a tutte le altre stronze, agli amici che mi avevano tradito e a tutti quelli che amici non lo erano stati mai. Me ne andavo, non fisicamente, ma con i Nirvana nelle orecchie io, dentro, me ne andavo da tutto.
Se Kurt Cobain non fu la mia ispirazione sicuramente fu la mia consolazione come probabilmente lo fu Jim Morrison ai suoi tempi, lui che si portava dietro e dentro Rimbaud e Baudelaire. Jim Morrison fu un altro dei “miti” di quegli anni ‘90. Era uscito il film di Oliver Stone e improvvisamente tutti erano “Jim di qui, Jim di là”. Anche lì non avevano capito un cazzo, non andavano oltre Light my fire o le prime strofe di The end, il resto della canzone no, era troppo lungo. Nelle camerette dei pischelli pariolini c’erano i poster dei Doors, poco dopo per strada ci sarebbero stati quelli degli ZetaZeroAlfa.
Anime affini, Kurt e Jim, delicate, poetiche e piene di rabbia. Erano due depressi. Come me. Se quella cui appartenevo era la Generazione X, io avevo una X in più o in meno. Sicuramente non mi sentivo “normale”. Anormale tra i normali borghesi. Ma la borghesia ha una sua innata mostruosità che manca alle classi popolari che sono più violente ma forse meno crudeli.
“Non credo esista un posto più feroce. Chi è cresciuto a Roma Nord, ha fatto il Vietnam", l’ha detto Pietro Castellitto, nato nello stesso anno dell’uscita di Nevermind.
Pietro, per me vivere ai Parioli è stato come la Guerra di Corea, quella del Vietnam e quella della Bosnia tutte assieme. Mentre mi arrampicavo tra le colline del Fleming, la guerra ce l’avevo soprattutto dentro, come Kurt. Guardavo la scritta “Paolo vive” sui muri e pensavo solo beato te che sei morto ammazzato.
Con la depressione ci devi sapere fare. È una lama che può tagliarti o tagliare. Questo lo imparerò più tardi. Kurt non lo imparerà mai. All’epoca, con il mio amico d’infanzia Cristiano, colui che ha conosciuto meglio di chiunque altro le mie turbe, si decise di mettere su un gruppo, perché, anche questo, i Nirvana avevano mostrato al mondo: che tutto sommato non serviva molto per fare una band. Quantomeno questo era quello che noi credevamo. Sicché, presi lezioni di chitarra da uno del Mameli, un fascio pariolino che mi insegnava gli accordi in camicia e maglione firmati. Era un grande fan dei Mötley Crüe e la sua chitarra se l’era fatta da solo. Gentile faceva di cognome.
In pochi mesi, nacquero e morirono gli Washer, io ero la chitarra ritmica e una pippa colossale. Facemmo tre concerti, il primo e l’ultimo gloriosi, pieni di gente. Una cosa che ancora non ci credo. Non andammo più in là di lì, non rimorchiammo, non diventammo nessuno ma da quell’esperienza così fallimentare ognuno di noi, sono certo, pose le basi per qualcosa. O quantomeno quell’esperienza chiuse qualcosa. Si era già fatto tardi.
Oggi, che vesto in giacca e cravatta, e sono diventato un comune borghese e lavoro nell’ambiente più immorale al mondo e delle arti ho scelto quella più borghese, la scrittura, se mi guardo indietro e ripenso a quei tempi, a tutto quello che è stato, a quello che è stata questa mia rivoluzione interiore di cui i Nirvana sono stati miccia e colonna sonora, mi rendo conto di una cosa, di una cosa sola, e cioè che, al di là di tutta la bellezza che si può dire di Cobain, al di là di tutta la ficaggine della musica dei Nirvana, mi rendo conto che, innanzitutto, io non ero Kurt e lui non era me. Che dire “era come noi” è una grande cazzata. Quello che, invece, mi appare chiaro, in tutta la sua sconcertante evidenza, è che Kurt aveva solo 9 anni più di me e che quando si è sparato era solo un ragazzo e anche io ero un ragazzo e allora quello che capisco oggi e che non capivo allora, tutto preso dalla mia sofferenza, è quanto difficile sia essere ragazzi e di come ci sia sempre una bellezza insita nell’essere giovani e come questa bellezza in alcuni, quelli più fragili come Kurt, risplenda ancora di più, risplenda talmente tanto che ti brucia o ci si brucia e, anche se uno ce la fa, si muore lo stesso perché si muore sempre da giovani.
Perché la giovinezza è una stagione della vita che o si supera o si muore. O ti fa fuori lei o la facciamo fuori noi, ma in ogni caso svanisce. Perché tutte le grandi rivoluzioni sono come l’amore e finiscono come l’amore ma lasciano dei segni indelebili in chi le ha vissute profondamente. Delle cicatrici che non si vedono ma si sentono e che ti ricordano di quando si era giovani e si ascoltavano i Nirvana e quanto di bello tutto questo poteva significare anche nella lancinante sofferenza di non sentirsi mai a posto con niente e con nessuno. Semplicemente perché eravamo giovani, innamorati e violenti, come Kurt.
I miti vanno sempre smontati, a un certo punto vanno combattuti e demitizzati. Solo a quel punto diventano reali. Quindi adesso operiamoci in questo.
CI STA TUTTA
Un pezzo di
Valentina Cesarini
Ero una delle poche adolescenti negli anni Novanta disinteressate ai Nirvana, però di Kurt Cobain posso confermare la delizia estetica e la bellezza di quel famoso MTV Unplugged. Il resto è grunge, e a me il grunge ha sempre fatto ribrezzo.
Una sera in cui avevo bisogno di input per ispirarmi a scrivere, ho creato una chat WhatsApp specifica, con un gruppo di amiche (se ne avessi fatta una con gli amici maschi, mi avrebbero risposto alla domanda con i soliti pipponi tecnico filosofici musicali).
E invece ecco le soddisfazioni delle amiche femmine:
La conversazione con Daria (nome di fantasia, preso da MTV) è poi proseguita privatamente. Ma già qui profumava di provincia, divani bruciati da tizzoni di canne e feromoni aciduli.
V- Ma che voleva dirci Kurt con "Heart Shaped Box"?
D- Secondo me è il suo modo di definire l'utero
V- Si torna sempre lì, quindi
D- Sì. Poi avevo letto qualcosa riferito a un aneddoto su Courtney Love
V- Ah già, uno dei tanti musicisti promettenti rovinati da quelle stronze cattive diaboliche che avevano al fianco
[vocale registrato imitando il frignare degli uomini quando vogliono raccontarsi che i loro idoli si sono uccisi o hanno smesso di fare ciò che i fan volevano per colpa delle isteriche pazze delle fidanzate/mogli, ignorando il fatto che questi fossero felicemente innamorati e drogati]
D- Jeff Buckley
V- John Lennon
D- Rapporti difficili con le madri, etc
V- She eyes me like a Pisces when I am weak, cazzo vuol dire?
D- Astrologia, il tuo forte
V- Ok mi piace. I wish I could eat your cancer when you turn back, cosa cazzo sto leggendo
D- Vabbè ma i testi dei Nirvana avevano senso solo per uno psycho 25enne. Hanno più senso i primi testi dei Red Hot, non so se mi spiego
V- Mai sopportati. Pensa che vita di merda ho fatto in provincia, da adolescente, negli anni Novanta. Dove tutti ascoltano solo sti due gruppi e ci sono circa 4 cover band ogni 10 abitanti
D- A me i Red Hot piacevano, ma perché suonavo e avevo una cover band
V- Ecco, appunto. L'unica cosa bella dei Red Hot era la cover band di Empoli: Le docce di Beppe
D- Cosa?
V- Sempre stimati per l'originalità del nome. Nessun gioco di parole di Calcutta può competere con Le docce di Beppe
D- Devo ammettere che li avrei stimati anche io.
Volevo sfogare un po' di stress lavorativo della settimana sui fan dei Nirvana, calcare la mano sulla mia insofferenza giovanile verso il grunge e il metal, poi però nella mia ricerca è uscita fuori tutta quella storia di Kurt Cobain antisessista, antirazzista, anti-omofobia e niente. Mi ha sconfitta.
Era giusto così.
Forever in debt to your priceless advice
Jared Leto
diretto da Gus Van Saant. Colonna sonora dei Sonic Youth. Con Michael Pitt. Pure Asia Argento. Bello.
grazie a tutti voi
Mercoledì 20 novembre 1991 i Nirvana suonarono tra Ferrara e Bologna al Kryptonight di Baricella. Era uscito da 2 mesi Smell Like Ten Spirit. Io tempo prima acquistai "Bleach", ma al concerto non andai. Di Cobain mi piacevano i cardigan sfatti, di ciniglia. Da qualche parte, in vecchi mobili, devo avere il vinile colorato di rosso del primo album.
Davide Bregola
Nell'infanzia eri il mio uomo ideale x voce e capelli, da teen x la droga, oggi per la depre
Alessandra Lanza
Avevo 19 anni, motorino, disagio e procinvia. Kurt era morto e io pure non scherzavo.
Cava.31
Avrebbe dovuto contattare uno psichiatra
Francesca Paluan
Nel 94 quando Cobain è morto mi trovavo nel bel mezzo di un break down, andavo 3 volte a settimana da un neuropsichiatra infantile, avevo una quantità di nevrosi che mi invalidavano la vita in maniera sostanziale e concreta. Non ho mai subito la fascinazione del “come as you are” in quel video dove Kurt aveva quello scialbo maglioncino beige e nemmeno per quella mitizzazione fatta di adolescenti con le sue magliette e l’aria disagiata. Non mi ha mai interessato, a posteriori l’ho trovato come una spettacolarizzazione ambivalente del dolore diluita da riflettori e storytelling funzionali ad un’intera generazione. Lui era un perfetto telo bianco dove proiettare i disagi percepiti dei giovani degli anni 90.
Emiliano Ponzi
Pensare ai Nirvana mi fa pensare al bipolarismo di Kurt. E a un'anima che soffriva. Ho sconfitto il doc...ci ho messo cinque anni per uscire dal mio isolamento e a non avere paura di contaminarmi. Cinque anni per non avere paura di toccare le cose, le persone (prima del Covid: il momento in cui tutto il mondo si chiudeva in casa, disinfettava compulsivamente ogni cosa e evitava ogni contatto fisico. Proprio come me da qualche anno). Ne sono uscita da sola, se tralasciamo psichiatra, psicologo e psicofarmaci.
Cinque anni per tornare a vivere e reimparare a abbracciare, baciare. Sto ancora reimparando molte cose.
Il mio primo bacio dopo il doc è stato uno shock. Le labbra, la saliva, il sapore. Senti tutto in una maniera così intensa e potente dopo che per cinque anni hai provato solo paura. Non lo dimenticherò mai il mio nuovo primo bacio, dato a 34 anni.
Ma tornando a Kurt, il bipolarismo è diverso perché non ne esci e ci puoi solo convivere prendendo le medicine. Forse non posso nemmeno lontanamente immaginare e sono solo una fottuta egocentrica che vuole parlare di sè. Ma in ogni caso di malattia mentale non se ne parla mai abbastanza. Non intendo i discorsi generali contro lo stigma, parlo di storie. Quelle vere. Mi sa che sono andata fuori tema…ma quando sopravvivi alle tue ossessioni te ne sbatti, e diventi arrogante.
Francesca Barbero
Che certe volte vorrei imitarlo
Marco Novarese
Chissà quante ne avrei chiavate se fossi stato così bello. Il più bello.
Marzio Toniolo
Con lui nuoti sul fondo, come il bambino di Nevermind. Stai in basso con te stesso: in apnea
f_menini
Di Kurt Cobain sapevo solo che era un cantante americano figo e un po’ drogato che ascoltava la mia amica Arianna al Lido di Spina. E io, per volere materno, dovevo avere poco a che fare con Arianna, e quindi anche con Kurt.
Molti anni dopo, ho letto un pezzo di Ray Banhoff su Cobain.
E mi ha fatta piangere.
Mi ha mostrato tutto quello che avrei voluto essere a sedici anni.
Mi ha rivelato tutto l’infernale disagio della mia adolescenza.
Avrei voluto essere come Kurt, come Courtney Love, come la mia amica Arianna, lasciare uscire il mio tormento, fanculo gli altri.
E avrei voluto un Ray Banhoff che fluisse con me sulle note di Heart-Shaped box, a limonare sotto un pino marittimo e un cielo grigio, immaginando di essere a Seattle.
Elena
"Darei la pena di morte a chi si mette in bocca il nome di Kurt Cobain con quel finto rammarico di circostanza che solo chi non ha capito un cazzo del dolore può avere. Metti pure la maglietta dei Nirvana, ascoltati i Nirvana solo per fare festa e chiudila lì -lontano da me grazie-. Dei morti non devono restare icone ma solo i fatti. In tre atti (1989,1991,1993) quantifico la grandezza di Kurt Cobain e ringrazio per come il suo dolore si sia tramutato per me in comprensione."
Marcel Swann
[17:31, 7/4/2022] Stefanotsws Edda Rampoldi: Preferivo i Pantera
[17:33, 7/4/2022] Stefanotsws Edda Rampoldi: Sono arrivati quando già eri uscito di casa
PROFUMI DOZZINALI
Giocavo a calcio in Interregionale e così mi vestivo più elegante dei miei amici, quelli della mia età – avevo diciassette o diciotto anni – ma anche più elegante rispetto a quelli della compagnia che frequentavo in quel periodo. C'era anche una tipa che aveva venti o ventun anni, andava all'università, io al liceo e un paio di volte ci siamo beccati al bar davanti alla biblioteca dove andava a studiare nella settimana in cui avevo deciso di fare fogone da scuola, come si dice a Parma. Volevo scoparmela, lei voleva lo stesso, ma poi alla fine non se n'è fatto niente, non so perché, e al sabato sera andavamo tutti a ballare, compresa lei, in quella campa assurda di una dozzina di persone, io più elegante, col fisico allenato da giovane portiere, nel 1991, d'inverno, in discoteca, mentre lo spazio dei corpi che ballavano si riempiva di fumo, sudore, ormoni che esplodevano come supernove, tra pezzi di Michael Jackson, residui di house e acid music, e altra roba che non ricordo, all'improvviso partiva sempre Smells Like Teen Spirit. Tutto si fermava per un attimo, come se l'aria, gli ormoni, il fumo, l'alcol dei cocktail di merda desse uno strattone e cambiasse tutto, poi saliva una botta di energia micidiale ed erano grida scalcagnate e una specie di pogo maldestro di alcuni, mentre nella mia testa vedevo il video del pezzo, l'aria da disperato biondo con la maglia a righe di Kurt Cobain, quel tizio assurdo e sgranato che nel video sembrava voler urlare a tutto il mondo del cazzo che mi aveva convinto a vestirmi più elegante dei miei amici perché giocavo a calcio e mi pagavano per farlo che era tutto finito prima di cominciare, il muro era caduto ma non stavamo meglio, eravamo solo più imbottiti di profumi dozzinali, alcol dozzinale, fumo, e avevamo solo diciassette anni, ma avevamo comunque una faccia come la sua, anche quando ci vestivamo più eleganti e tutto il resto. Era tutto in quell'urlo che faceva esplodere la discoteca e io mi sentivo coglione, ma liberato da quel grido di Kurt. Dov'è finito quel grido?
Jacopo Masini
Mi hai sempre fatto patire e ti ho sempre amato follemente lo stesso
Tania Innocenti
Kurt non ho ancora ben capito cosa fosse quel sogno con te dentro ma non me lo scorderò
Paola Dadone
Ricordo benissimo di quando i Nirvana entrarono nella mia vita la prima volta. Era una domenica mattina del 1992, faceva abbastanza caldo e avevo la televisione accesa su Superclassifica Show, programma televisivo musicale condotto da Maurizio Seymandi, di fatto una sorta di Top Of The Pops versione autogrill anni ‘80. Sfilano una serie di artisti italiani e stranieri mentre mi schiaccio i brufoli assonnato, poi arriva il turno dei Nirvana: già il nome mi parve una figata totale ma il pezzo, che alternava distorsione violenta a momenti di quiete punteggiati da lineari note di basso mi fece esplodere il cervello. E che dire dell’immagine? Il bassista era un perticone dinoccolato, Il batterista una specie di picchiatore unno dalla potenza devastante (il fatto che i capelli gli coprissero completamente il viso mentre suonava lo rendeva fico e misterioso) e il cantante e chitarrista biondo, bello in modo sofferto e sinistro, cantava e urlava parole che non capivo. In inglese sono sempre stato bravo, tanto da afferrare i testi di migliaia di canzoni che ascoltavo in radio al primo colpo. Ma ora non capivo un cazzo, avevano una pronuncia indecifrabile. Questo, unito a un sound primitivo e melodico insieme, alternanza di quiete e tempesta, mi fece credere che non potessero essere americani. Kurt era biondo quindi pensai che fossero svedesi per settimane, prima di racimolare i soldi per comprare Rockerilla (o era il Mucchio Selvaggio) con loro in copertina e scoprire che erano di Seattle, un posto in America che non avevo mai sentito ma che sembrava un buco di culo dove piove sempre e la gente si ammazza. A quell’epoca non c’era internet e la musica di un certo tipo, anche in una città come Milano, la ascoltava una sparuta minoranza. Almeno a me sembrava così. Era nato un amore ma ancora non lo sapevo. L’avrei scoperto un mese dopo, quando i miei mi mandarono a fare una di quelle devastanti vacanze studio dell’EF per imparare l’inglese. Oggi, retrospettivamente, penso che l’unico motivo di infliggere al proprio figlio una di queste degradanti e traumatiche esperienze per dei genitori sia quello di levarselo dai coglioni per 10 giorni: nella devastante cornice sociale dei sobborghi di Brighton nessuno perfezionó il suo inglese, qualcuno limonó (non io), qualcuno rischió di farsi menare da autoctoni assetati di sangue, qualcun altro venne bullizzato. Io vidi il video di Lithium al Pier Pub, quello realizzato con footage dei loro live in cui spaccano gli strumenti e Kurt si lancia sulla batteria. L’amore si trasforma in devozione. Quando torno a Milano i Guns’N’Roses mi sembrano i New Trolls rispetto ai Nirvana. Vado al mercato e per 5mila lire compro la cassetta tarocca di Nevermind: sarebbe stata la mia colonna sonora per anni. Quando vennero in Italia per il loro terzultimo concerto di sempre al Palatrussardi avevo risparmiato abbastanza per comprare il biglietto. Il concerto non fu memorabile ma in cuor mio sapevo che avevo fatto bene ad andare, che qualcosa del genere non si sarebbe ripetuto. Un mese dopo Cobain si spara in testa. Fui colpito e deluso ma quel ricordo resta da sempre indistticabilmenye legato a quello del mio amico Sandro che, quando gli chiedo se vuole venire al concerto con me un mese prima mi risponde: “nah, ho pochi soldi e poi devo già andare a vedere i Megadeth. Tanto tornano tra un anno”. Non sarebbero tornati mai più.
Alessandro Mannucci
È implicita la voglia che ho di andare avanti e non lasciarmi andare nei meandri delle passioni flaccide delle donne moderne . Il concetto di irriverenza l’ho imparato da Masini nelle mie turbe da 11 enne frustrato . Negli anni seguenti sono nati gli emuli di cannette svogliate tra una lezione e l’altra di zootecnia con gli accenti catatonici provenienti da discoteche del fine settimana piene di pasticche buca cervello. Siamo rimasti soli in aula io e il mio Walkman con la cassetta di Neil Young ( il padre di Kurt ,ma a quel tempo ero sfigato perché lo ascoltavo . Fottetevi adesso voi e le vostre famiglie ) , like a hurricane un gioiello per le mie orecchie, una melodia costruita su tipiche armonizzazioni della musica popolare , cadenza andalusa , un girovagare intorno a me di passive e pessime ideologie alla moda . Mi ritenevo fortunato di essere solo , che la droga non facesse per me perché i tossici veri e bla bla …. Anziano lo ero ascoltando musica vecchia , anziano lo sono ascoltando adesso Kurt e company con quel fighetto modo di fare . Chi se ne fotte se la professoressa mi ha dato 6 al compito perché era bellissimo ma non era un compito da esame . Io che all’esame d’italiano ho preso tre perché la rivoluzione era appena cominciata in procinto di scoppiare in provincia . Siamo stati scialbi e contenti amici miei , vi perdono per il nonnismo che vi hanno insegnato i vostri nonni e mi compiaccio del vecchio bullo di classe oggi calvo che mi vede mi riconosce e mi gratifica perché io studiavo e lui no ….e avrebbe voluto fare come me . Il fucile io ce l’ho sempre avuto dalla parte del manico e me ne accorgo soltanto adesso. Kurt ha avuto il coraggio ,io ho avuto il doppio giochismo del borghese che cerca il riscatto . La mia pallottola ha sfondato più della sua . Continua a girovagare nell’aria della banalità
Stamberg
Il lascito di Cobain sta nei meandri della sua esistenza, e non nella siccità che lo ha prosciugato: tutta interna ai testi, alla personalità, alla musica, agli scandali, agli eccessi, ai diari, i capelli unti, i jeans sporchi strappati, l’emicrania, l’eroina, la sua Fender…
Non conta il tempo, la quantità od ogni entità degna di misura. C’è chi ha vissuto un secolo con sorriso di noia, e chi ne ha combattuto un quarto confessando i suoi demoni.
Sempre grazie a Kurt, oltre le apparenze ed ogni stigma.
Leo Masi
C'è un prima e un dopo Kurt Cobain. Un prima fatto di estremi musicali, da metal più complesso al punk più elementare, e un dopo, fatto di un alternative rock sempre più edulcorato e accessibile, ma anche pensato. La prima volta che ho ascoltato i Nirvana mi sono sentito violato. Sono stato graffiato dai suoni striduli e dalla voce distorta. Ne porto ancora le cicatrici. 367 settimane fa avevo pubblicato su Instagram una foto orribile nella quale ero immerso in una piscina con la testa accanto al bordo e i capelli che calavano dritti fino a lasciarsi cadere sulla superficie dell'acqua. Il mio sorriso era sornione, quasi ammiccante. Avevo sovrapposto la mia foto a quella famosa dei Nirvana. Per la prima volta ero parte di qualcosa. Avevo scritto "il quarto dei Nirvana dimenticato". E proprio in questo atto mi sono sentito memorabile. Ho realizzato il fascino del margine. Se il punk ci ha insegnato il "posso farlo anch'io", Kurt Cobain ci ha spiegato il "posso esserlo anch'io". Le camicie a quadri e i capelli medio lunghi sono diventati un modo di essere. Un semplice modo per sentirsi partecipe. Kurt ha urlato la rabbia definendone le peculiarità, e lo fa ancora. Quando incrocio dei ragazzini con i capelli scomposti e unti, che indossano magliette di band troppo larghe e Converse anacronistiche riacquisisco un po' di fiducia nell'umanità. Non nego che mi commuovo. Che noto la persistenza di una timida lotta silenziosa contro l'infighettamento generale e il maranzismo imperante. Cobain è stato capace di poppizzare l'alternative rock e quindi arrivare ai più, superando i gusti musicali e facendo breccia sulla tristezza. Sull'emarginazione. Su quella sensazione di rabbia e di stanchezza. Ci ha fatto capire che ciò che per anni si nasconde dietro alla ribellione non è nient’altro che depressione. Un disagio mascherato da sovversione. "È solo una fase" mi dicevano, ma una delle poche convinzioni che ho mantenuto da ormai più di 10 anni è proprio il fatto che quella fase non è mai passata. Persiste ancora oggi e affiora nel quotidiano, quando mi ricordo di avere la copertina di In Utero incisa sul braccio o quando dalla mia confusionaria playlist di Spotify emerge una canzone dei Nirvana alla quale mi abbandono inerme. O ancora, quando passo accanto alla mia chitarra e mi riaffiora il motivo per cui l'ho acquistata. Forse per materializzare la malinconia. Dopo trent'anni dal gesto estremo di Kurt, realizzo quanto sia stato romantico, nel senso letterario del termine. La spinta sentimentale ultima. Verso l'altrove. I suoi ultimi giorni sono raccontati delicatamente da Gus Van Sant in Last Days (2005), dove Micheal Pitt interpreta un Kurt stanco che si aggira tra i boschi, esile e sottile come gli alberi tra i quali si confonde. E suona, o meglio, genera un rumore inconscio, mentre inciampa nelle ultime dosi. È un film teneramente affascinante, capace di mostrare la stanchezza della realtà. Rappresenta un padre ideologico piegato dalla fama creata dai figli che ha generato. Inconsapevole dell'eredità che perdura tutt’ora, perché ci sarà sempre una comunità unita dalla rabbia dei tempi in cui vive.
Prima di questa lettura non mi ero resa conto di quanto fossi anche io dentro a quella temperie. Di certo mi ricordo quanto amavo i suoi capelli a ciocche disordinate che non riuscivo a rifarmi e quei cardigan strazzati. E quella voce che urlava aiuto, ma era troppo tardi. Ray, tu e le tue penne colleghe avete toccato le più alte vette del Parnaso, dove immagino Kurt insegnare ad Apollo l’attacco di Come as you are. Generazione disagio, presente.