BENGALA #124 - NELLA VITA CONTANO SOLO LE PALLE
Speciale Juergen Teller - Jacopo Farina Antipop - L'eletto - Fan di Zinne -
From the beginning, I told them their work should be about loving life. To take photos, you have to love life – then you can photograph anything.
Juergen Teller
Di solito faccio l’editoriale, ma questo Bengala è tutto un lungo editoriale. L’ho suddiviso in paragrafi. Eccoli.
Mi arrivano 511 euro per la bolletta del gas. 5-1-1. Quando mi si scaleranno automaticamente dal conto sarà come una pugnalata.
Avevo preso una multa mesi fa, l’ho pagata. Dovevo mandare la fotocopia della patente per far scalare i punti e me ne sono dimenticato. Altri 200 euro di multa. Se non li pago entro 5 giorni sono 300. La colpa è mia ma l’ingranaggio burocratico dell’inculata mi uccide ogni volta. La freccia di una divinità invisibile ogni volta si conficca nei pensieri prima e nell’anima poi di chi subisce queste angherie, e lo fa viver male.
Sono milioni, forse miliardi le persone che ogni giorno soffrono per questi soprusi.
In Italia uno stipendio medio mensile è di circa 1600 euro. 300 euro di multa sono 1/5 dello stipendio, non è troppo? Voglio dire, porco di quel mondo bastardo, perché nessuno parla di cose del genere? La nostra pubblica amministrazione è giusto che ci inculi un quinto dello stipendio per una pratica? Perché non c’è un politico uno che parla di questa merda?
Io la capisco la gente che evade le tasse e incula lo stato, questo Stato. Sono disperati in primis. Capisco quelli che cedono alle piccole mafie, agli strozzini, quelli che cominciano a delinquere, quelli che spacciano. Tutti disperati. Non li giustifico, ma capisco perché lo fanno. Io non ne avrei il fegato, tutto qui. Non c’è un minimo di giudizio morale in questo, io mi lamento ma pago tutto, da Equitalia alle multe. Infatti vivo al verde, in rosso, sotto al tavolo.
Lo stato li mortifica rendendoli solo colpevoli, perché lo sono, ma loro vi risponderanno solo che hanno iniziato a farlo per stare a galla.
Così mi astraggo, lavoro il legno, passo i pomeriggi a fare le croci: le compro per pochi euro al mercatino e poi le dipingo. Al massimo mi faccio arrivare online qualche adesivo di pregio o qualche cosa da applicarci.
Io mica ce l’ho con quell’ebete di Chiara Ferragni, alla fine nemmeno con Fazio. Li vedo come due impiegati del mondo della celebrità che cercano di tirare a campare, non farei mai a cambio con le loro vite. Ce l’ho col fatto che né io né voi assieme a me abbiamo ancora fatto irruzione nello studio durante l’intervista per mostrare il culo in diretta nazionale e prendere a pacche ‘sti quattro ricchi coglioni che dettano legge e fanno i gagà mentre noi paghiamo le multe e puppiamo.
Voglio dire, ho questo problema della multa da 200 euro, chissà quanti altri analoghi ne avete voi, e mi tocca sorbirmi stronzi che fanno finta di parlare di politica e sceneggiate varie. Non c’è un minimo di speranza per noi comuni mortali soggiogati ogni giorno dalla macchina burocratica. La nostra vita è fatta per pagare le tasse e basta, a noi non tocca quasi niente della fetta della torta. L’unico privilegio che abbiamo è che non siamo ancora in un paese in guerra o in un’economia da terzo mondo in cui mancano i viveri e le medicine, ma per il resto la nostra vita non si è evoluta dall’800 ad oggi. Prima eravamo operai, oggi siamo sudditi. Comunque viviamo per reggere in piedi il sistema e siamo così abituati a farci inculare che nemmeno fa più male.
Leggo un articolo di Claudio Biazzetti su Lampoon che critica i CCCP e accusa i suoi fan di retromania, citando Reynolds. Il pezzo si chiama “Abbiamo sempre frainteso i CCCP” ed è un titolo quasi perfetto se non per un assunto sbagliato iniziale: il plurale. Io credo che proprio l’autore abbia sempre frainteso i CCCP.
Giudicare qualcuno per quello che vota è come farlo per la musica che ascolta, una roba che va bene quando hai 14 anni e fai il liceo.
Biazzetti si chiede: «Siamo noi maliziosi a pensare che la band anti-consumista, che sfoggiava provocatoriamente il logo Enjoy CCCP con le grafiche della Coca-Cola, si sia poi effettivamente venduta?». Io rispondo: ma chi se ne frega se si sono venduti? Ma chi lo sa? Ma anche se fosse (cosa voglia dire poi vendersi… qui abbiamo dei musicisti che fanno un tour e vengono pagati. Diciamo che è il loro lavoro, non ci vedo un vendersi) cosa cambierebbe mai del loro lascito artistico?
Biazzetti chiede: «Come mai Scanzi si è preso i fischi ma nessuno ha mai osato dire nulla a Ferretti delle sue simpatie neofasciste?». Evidentemente Biazzetti non conosce i fan dei CCCP, tutta gente che odia il governo Meloni e che critica aspramente Ferretti, che alle cene si infervora a dire quanto sia rincoglionito. Poi però GLF rimette su la band e che fai non ci vai a godere di quello spettacolo fantastico? Non ci vai perché GLF vota Meloni? Ma anche qui: ma chi cazzo se ne frega?
Giudicare qualcuno per quello che vota è come farlo per la musica che ascolta, una roba che va bene quando hai 14 anni e fai il liceo. Se non sai accettare chi la pensa diversamente da te sei in una setta e il presente infatti è una grande setta in cui la massa è convinta di essere nel giusto proprio in quanto massa. Assurdo, prima la massa non sapeva di esistere, ora si sente legittimata da un’esistenza omologata. Come se poi essere nel giusto contasse qualcosa...
Non sta in piedi questo raffronto con Scanzi, che nella vita non ha fatto niente di equiparabile a ciò che ha fatto Ferretti, che è anzi il prototipo di tutto quello che è giusto disprezzare in quanto ha costruito la sua celebrità sul parlare male degli altri ed elogiare se stesso. Poi a Ferretti Scanzi piace e quelli sono cazzi loro. A me Scanzi fa cagare e il fatto che GLF gli faccia aprire il concerto sapete quanto conta? Niente.
Biazzetti dice: «Come una versione italiana di Nick Land, abbiamo idolatrato un pensatore disruptive, che ha creduto con tutte le sue forze in un futuro che non si è mai avverato. Quando questo però è successo, a prevalere è stato un tetro, arrabbiatissimo sentimento reazionario, che ha spostato definitivamente nelle zone dell’ultradestra una persona che credevamo alleata».
Io non l’ho mai creduto alleato, l’ho sempre preso alla lettera quando urlava: «Non fare di me un idolo mi brucerò/ Se divento un megafono m'incepperò/ Cosa fare non fare non lo so/ Quando dove perché riguarda solo me». A me dell’ultradestra non me ne batte niente, nemmeno di questi teoremi presi male (difatti Biazzetti cita Bifo Berardi che è preso malissssssimo), a me basta cantare Live in Pankow. A me se Ferrettu è fascio ( e Ferretti non è fascio), non me ne frega niente.
A Pescia c’è queste porte medievali, sembra che ci siano chiuse le anime dentro, calcificate. Tutto sbarrato. Ci farò un lavoro mai?
Cosmo mi è sempre stato sul cazzo, senza nemmeno averlo mai ascoltato. Mi urtava di lui tutto, l’immagine che mi arrivava e poi il racconto di lui che mi avevano fatto persone diverse che lo avevano conosciuto. Strano, questa cosa di solito non mi influenza in quanto scindo sempre l’artista dalla persona.
Comunque… Questo come premessa.
Un giorno mi scrive Jacopo Farina, uno stimato regista e artista che non ho mai incontrato dal vivo né ci ho mai parlato ma so chi è, so che fa, e mi piace pure tanto. Mi scrive e mi dice che ha fatto un film su Cosmo e che vorrebbe lo vedessi in anteprima. Premetto anche a lui che Cosmo non lo reggo e lui mi fa: a maggior ragione. Così mi arriva il link e mi sparo il documentario: Antipop.
Quanto è triste avere quarant'anni, essere nel pieno delle forze, e non avere dei manigoldi con cui fare le scorrerie? Perché di questo si tratta.
Mi dispiace non averne scritto appena ho finito di vederlo ma ero troppo emozionato. Non dico che mi sono commosso perché non mi commuovo mai, però questo lavoro mi ha davvero toccato nel profondo.
La storia di Cosmo (che non conoscevo e che direi non importa riferire a lui personalmente in quanto è universale) è davvero la storia di tantissimi di noi millennials nati negli anni ‘80 e ‘90. Il video da subito mi ha riportato in un tempo fatto di sale prove e palchetti, di amici intrippati col sound dei Sonic Youth e i cannoni, che non volevano cambiare il mondo con la musica ma solo divertirsi, magari farcela. Non ce l’ha fatta quasi nessuno e di quella schiera di bellissimi sognatori magri e affilati, di quelle coraggiose energiche femmine da rave, poco rimane se non un esercito di consumatori ingrigiti e un po’ spenti, che poco fanno, che ricordano i tempi andati, che non vanno più ai concerti. I nostri amici insomma.
Chi ha avuto figli, chi non c’ha nemmeno provato, chi ha messo su famiglia altrove e non suona più. Che poi non c’è niente di male, sono stagioni della vita, si cambia, ma quanto spezza il cuore non avere più compagni di avventura? Quanto è triste avere quarant'anni, essere nel pieno delle forze, e non avere dei manigoldi con cui fare le scorrerie? Perché di questo si tratta.
Solo due categorie di quarantenni si possono permettere il lusso del gioco: gli artisti e la gente libera. Di questo parla il documentario, film, non so nemmeno come chiamarlo. Quello di Farina è un lavoro che mi ha ricordato Teoria della classe disagiata, anche quello un saggio su di noi, uno dei pochi a mio avviso in questi anni di narrazioni più o meno su tutto tranne che su noi stessi.
Cosmo viene da Ivrea e vive praticamente fino all’esordio solista col pallino di mantenrsi facendo il musicista. Era una roba a cui tanti di noi pensavano a fine anni ‘90. con la musica, con la scrittura. Chi voleva fare il giornalista, chi il tour manager. nessuno voleva lavorare in una fottuta agenzia di comunicazione. Erano altri tempi, ed era solo ieri.
Cosmo ci prova e lo fa allo scavallare del millennio, quando tutto comincia ad andare in declino. Il senso di fallimento è gigante, lo schiaccia. Decide che il suo esordio debba chiamarsi “L’ultima festa” perchè segna il suo ritiro dal mondo della musica da professionista. Non ci campa, sta per avere un figlio, si sente un fallito. non sopporta l’idea di dover salire su un palchetto per cinquanta persone, quel senso di disagio familiare solo a quelli che ci sono andati vicino ma non ce l’hanno fatta. Quello che ha fatto mollare molti di noi in punti diversi di destini simili. Chi ha appeso le scarpette al chiodo, chi non ha fatto l’università che voleva, chi ha sposato l’uomo che faceva contenti i genitori, chi si è spento.
Il film scorre da dio, Farina boh non lo so come faccia ma ogni cosa che fa la guarderei senza annoiarmi. È bravo, punto. E ha tirato fuori un film generazionale, ottimo da vedere anche se non si conosce Cosmo che infatti non appare che in fondo e fa la voce narrante per tutto il tempo. Se un giorno i nostri figli (per chi li avrà) ci chiederanno come vivevamo, gli dovremmo far vedere Anti pop.
Straconsiglio a tutti.
Guardo il cazzo di Juergen Teller stampato gigante in Triennale a Milano e non penso mai che sto vedendo un cazzo. Mi pare la cosa più normale del mondo… Poi guardo Juergen Teller col buco di culo all’aria e l’onnipresente cazzo fuori che rotola su un pianoforte suonato da Charlotte Rampling e mi sembra altrettanto normale, persino bello. Penso: guarda che bel culo pulito che ha.
Vorrei postare la foto sui social ma so che verrei bannato e ritorno in quel confine di menate e puritanesimo arretrato che è Instagram, che è ormai il barometro per l’eticità della nostra vita e anche il solo parco giochi ammesso. Penso: questa roba la stiamo rinchiudendo nei musei che sono gabbie dorate, per eventi esoterici di micro massa che riguardano i pochi, la stiamo rendendo ancora più di nicchia. Nel mondo che voglio io, l’uccello telleriano dovrebbe essere su una pagina pubblicitaria del Corriere della Sera. Invece niente, invece sul Corriere ci mettiamo robe molto noiose e vecchie, confessioni di Chiara Ferragni che chiamiamo “imprenditice digitale”.Imprenditrice. Digitale. Sul Corriere. (le palle ora giù a terra).
Penso: tanta sensibilizzazione sul corpo femminile e zero progressi sul cazzo. Le femmine vanno bene grasse per esser contro il body shaming, sono nude ovunque, il cazzo non si vede mai nel mondo di oggi. È bandito.
La mostra di Teller va molto consigliata a chi non sa niente di fotografia in primis, si considerino i suoi occhi puri e vergini dal giudizio. Memorabile la sezione dedicata a Notes about my work, in cui l’artista tedesco ha ripreso e pubblicato decine di commenti riguardanti il suo lavoro, di solito del tenore di “questo lo potevo fare anche io”, teorema caro anche uno dei maggiori sostenitori di Teller, Francesco Bonami che con questo titolo ha nominato uno dei suoi libri più celebri.
E che c’è di male se lo potevi fare anche te? La convinzione che l’arte debba sempre innovare è quanto di più stereotipato ci sia da dire sull’arte. L’arte esprime qualcosa e lo fa con i mezzi che ha a disposizione. Come dice Houellebecq: di innovatori ce ne sono due per secolo, quando va bene. Dopo una campagna su W in cui il coglione popolo del web insultava la rivista per i ritratti scialbi di Teller, il nostro invece che offendersi, ci marcia sopra e ci fa un libro, vantandosi di non essere stato accondiscendente e di non essere stato capito. Ecco la differenza tra un artista e un fotografo.
Juergen Teller non ha innovato niente rinnovando tutto. Grazie a lui la moda come la conosciamo oggi è la moda come la conosciamo oggi. Scatta col telefono, o in jpeg, non ritocca nemmeno le foto che sono tutte grigie o blu, sminchiate, spixelate, non gliene frega niente della qualità, della risoluzione, del file e proprio per questo è sempre così viscerale, così semplice e funzionale. «Nella vita cerco sempre l’avventura. Voglio fare cose che non ho mai fatto prima. Se nello star system sono tutti attentissimi alla loro immagine, quando io entro nelle foto c’è la natura più selvaggia». Incontra Scharwzenegger in albergo e gli chiede se può mettere la testa dentro un coccodrillo. Certo Juergen, per te farei di tutto risponde l’attore.
A Teller tocca lo stigma del famoso: siccome è famoso si pensa che sia sputtanato o che il suo lavoro valga meno. Invece è famoso proprio perché è un fenomeno. Ogni tanto qualcuno ci tocca, per fortuna. Di solito siamo circondati da gente che è famosa perché è famosa, senza che abbia fatto niente se non essere ricca o vantarsi di qualcosa. Tra qualche decennio avremmo solo Salt Bae e sti freak da baraccone almeno nel circuito mainstream. Se il circuito indipendente sarà ancora in piedi, anzi se ci si metterà visto che attualmente di indipendente non c’è niente, forse avremo degli altri Teller.
La mostra in Triennale è bellissima, si chiama I need to live e chiunque può vada a vederla. Si tratta di una grossa antologica del lavoro di Teller dalla moda all’autobiografia che poi in lui coincidono sempre. Guardo un pezzetto di una sua intervista in cui dice una cosa semplice: io non lavoro con chi non vuol lavorare con me, non faccio tutti i commissionati.
Il contrario di quello che di solito si pensa debba fare un fotografo.
Teller ha pubblicato tanti libri, quasi tutti con Steidl. I più belli sono sold out e rarissimi, quindi vi consiglio qualcosa a buon mercato.
In Auguri, i Teller costruiscono letteralmente il loro futuro assieme. Ecco un piccolo tesoro, le foto pre matrimonio e la cerimonia dell’artista tedesco. Questo merita di essere comprato.
Altri libri che amo di Juergen sono i The Master, delle piccole fanzine in cui raccoglie i ritratti dei suoi idoli col classico stile ironico e minimale. Tipo va da Araki, il maestro del nudo giapponese, e gli stampa il flash sulla pelata. Oppure passa il tempo con William Eggleston e lo fotografa come lo zio snob degli anni ‘70 al pranzo di Natale: sempre che sfumacchia o sbevacchia, o delira. Insomma c’è tanto brio.
Se c’è una cosa che amo è l’autoironia, qualità che raramente trovo negli artisti intorno a me. Teller ha preso alcuni dei suoi scatti più iconici e li ha replicati con la figlia piccola, Iggy. Substack mi mette le foto in quadrato quindi a volte le taglia male, ma vanno viste una accanto all’altra. Per chi volesse godersi il formato naturale il link è questo.
Semplicità e cripticità vanno di pari passo in quest’opera che ho divorato.
Il mega-ufficio del direttore intergalattico è ammantato di mistero, l’azienda e i suoi personaggi altrettanto. Il segno per distinguerli è una penna, ma distinguere cosa? Nel comunicato stampa del libro si parla di un noir aziendale e credo che la definizione sia esatta. C’è mistero senza che si capisca il mistero.
Tolte le faccende di trama, su cui non mi soffermo mai, ho adorato la costruzione del libro. Sono poesie messe in scena, nel senso che sono stati scritti dei testi poetici che poi gli autori hanno disegnato e ambientato. Pochi riferimenti temporali, pochi appigli logici, la forza de L’eletto è che, come la poesia, è inafferrabile. Conquistano però quelle tavole quasi metafisiche, quei colori dolci, quei cieli lontani.
Sharon vive vicino a una campagna e ha un gatto che si chiama Piccolo Bot. Non ho mai visto un gatto come Piccolo Bot. Non muove le zampe dietro, ha i condotti lacrimali bloccati, mille problemi eppure è dolcissimo. Vive perché l’ha salvato Sharon quando anche il veterinario lo dava per spacciato.
In questo eremo campagnolo di confine, la nostra è solita fotografarsi (prevalentemente nudi e autoscatti) e farsi fotografare.
Dalla sua ricerca è uscita una fanzine che si chiama Midfall per Cavie Project e che è andata subito sold out. Sono foto semplici, senza lavorazioni complesse, molto silenziose in cui domina la natura e il corpo.
Non so cosa abbia di diverso questo lavoro da altri lavori affini, non conosco la fotografia di nudo, non ne ho i codici, però a sfogliarla mi è arrivata la stessa impressione sincera di quando ho conosciuto e fotografato questa giovane romagnola dal nome esotico.
Le foto a volte sono in bianco e nero in un modo quasi piatto, zero pretenzioso, con poco contrasto, così poco instagrammabili. Vedo nel lavoro di Sharon, senza critica, una vena amatoriale che lo rende sincero. Poteva essere più paracula, usare bianchi e neri contrastati, trucchetti e non l’ha fatto. Non solo posa bene, per me ha anche qualcosa da dire quando scatta.
Ok è tutto. Ci vediamo la settimana prossima. In fondo a Bengala troverete sempre e soltanto una frase di Charles Bukowski. Sappiatelo.