BENGALA #123 - ELOGIO DEI PRESI MALE
Risposta a Ghemon e all'industria musicale - più dark di Leopardi: Bernhard - Alec Soth - Rust Cohle
Rust: Io mi considero una persona realista, ma in termini filosofici sono quello che definiresti un pessimista.
Marty: Vabbé! Ok! Che cosa significa?
Rust: Che non sono uno spasso alle feste!
(True Detective, season 1, dialogo tra Marty e Rust)
Ragionamenti a freddo dopo il post di Ghemon.
Ha fatto molto rumore in un mondo dove il rumore è ormai assente ed è stato sostituito dai coretti instagrammabili, il post di Ghemon contro l’industria musicale. Ha fatto rumore ed è un bene ma a freddo cosa resta?
C’era qualcosa che non mi tornava già mentre lo leggevo e non perché come prevede il suo autore nasavo un pensiero rosicone alla base di tutto ma per tutti quegli asterischi sui generi dei nomi. Esclus*, tutt*, quell*, ma che è un post di un influencer?
Si vuol lanciare un pensiero di rottura e ci si avvilisce a lisciare l’algoritmo, usando diciture come “fAllit0”, “gu3rr3” o “g3noc1d10” rispettando il nuovo culto delle parole proibite per non essere penalizzati nelle visualizzazioni? Proprio così si cerca di svettare in quel regime culturale che ha paura delle parole e le oscura rendendo gli artisti delle marionette, lo spoglio mondo delle idee di Palo Alto che ci ha consegnati nelle mani di gente la cui vetta del pensiero è Mark Zuckerberg.
Una cosa vorrei chiedere a Ghemon: dove è l’underground? Dove è la scena alternativa? Come mai soprattutto non conta più niente?
Si è artisti solo se si è mainstream e poi si finisce in un tritacarne che divora e porta alla depressione come già succedeva trent’anni fa ai tempi di Cobain. Prima però esistevano locali sfigati con musicisti sfigati che suonavano per venti persone, si creavano scene culturali legate a realtà piccolissime che erano enormi per chi ne faceva parte (il grunge, l’hip hop, la techno, i rave, tutto), la gente stampava dischi autoprodotti e fanzine e esisteva tutto un mondo di localini e micro festival e scene alternative che creava correnti culturali CONTRO il mainstream e che, oggi, semplicemente non c’è più.
Fino a qualche decennio fa andavi a vedere una band perché il chitarrista era un figlio di puttana pericoloso che sputava in faccia al pubblico e volevi far parte di una band per: scopare, essere pericoloso a tua volta, vivere il sogno del maledetto in una società di colletti bianchi. E non parlo dei seguaci del rock and roll ma di tutti gli appartenenti alle sottoculture, le mille sottoculture vivaci e contagiose che avevamo. Oggi sotto non c’è niente, tutto deve stare sopra, in superficie.
Attualmente la scena musicale è stata capitalizzata dall’industria culturale ed è solo un’ascensore per la scalata in società. Cantante, chef, calciatore, attore, tutti sullo stesso piano.
Inutile rattristarsi: le cose cambiano. Oggi la musica non è più il mezzo espressivo dei giovani contro il sistema che è stato negli anni ‘60 ma nemmeno quello dei ‘90 e dei 2000. Oggi la musica è IL SISTEMA o un modo per farne parte. Oggi la musica è lo stramaledetto Spotify per cui gli artisti sono costretti a vivere in tour come scimmie ammaestrate perché la vendita dei dischi è a zero. Spotify ha ucciso la musica e prima di lui l’ha fatto internet, il download illegale, i governi che non l’hanno fermato, noi che abbiamo scaricato i dischi.
Questo momento con i mezzi tecnici alle stelle e l’iperconnettività (chiunque con un telefonino può far un disco da solo) dovrebbe far sorgere nuove realtà come MySpace, dovrebbe far nascere nuovi festival non autorizzati e non sponsorizzati, dovrebbe far proliferare concerti abusivi nelle zone industriali e raduni spontanei invece non succede. Segno, lo dico a Ghemon ma a tutti voi, che in questo momento la scena musicale è solo una branca dell’industria del divertimento come le serie tv, le app, lo shopping online.
Lo stesso vale per la carta stampata, per l’editoria, per la controcultura in generale. Per ogni pensiero controverso e non capitalizzabile mi verrebbe da dire. Fa riflettere appunto l’artista di rottura che dialoga con gli asterischi per non offendere o discriminare i generi.
Forse al posto della musica sorgeranno altre forme espressive di rottura come lo sono stati Dylan o Tupac. Forse avremo altro. Sticazzi, in qualche modo faremo. Inutile piangerci sopra. Si cambia.
Concordo con Ghemon sull’essere indipendenti, sullo sganciarsi da tutto. È un periodo dove se vuoi essere coerente devi farci la fame con l’arte. Avere il tuo micro pubblico, rinunciare a sputtanarti. Oppure sputtanarti con stile, cannibalizzare il sistema dall’interno come facevano gli Oasis o i Blur, farsi pagare milioni di dollari e dare al mondo dei successi che tutti cantano sotto la doccia, non c’è niente di male. Essere Liam Gallagher, ad esempio (anche se lui di hit non ne fa più ma chi se ne frega almeno esiste). Ma attualmente, dalle hit di Annalisa alla messa lagnosa di Ghali, non c’è niente che possa minimamente lasciare il segno nella storia del pensiero culturale o anche nel costume.
Di questo solo dovremmo rattristarci, perché era figo essere fighi e andare in giro con le magliette dei gruppi, era settario, era un messaggio al mondo. Abbiamo prodotto delle belle colonne sonore, ecco. Ci mancheranno.
Possiamo dire che quelli che in giornali chiamano artisti sono in realtà dei buoni imprenditori di se stessi che: 1) si specializzano nel settore musicale ma potrebbero un giorno sceglierne altri 2) creano personaggi che hanno un valore economico e pubblicitario 3) trattano poi con realtà dell'industria dell’entertainment per creare prodotti di divertimento?
Possiamo dire che in rapporto a questi artisti noi non siamo un pubblico ma solo dei consumatori?
C’era un tempo in cui a Berlino trovavi scritto sui muri: Nicht tv! All lies. Un tempo in cui appunto dovevi andare a Londra per farti stravolgere da un locale puzzolente di sudore e una band che ti sverniciava le orecchie. Oggi, come fecero i padri della cristianità nell’alto medioevo, abbiamo casomai bisogno di nuovi evangelizzatori che portino il verbo dell’espressione nei palchetti sgangherati di Viterbo, a Terni, su un piccolo palco di La Spezia. Che sia musica o meditazione poco importa ma basta coi cantanti vestiti dai brand, basta con quel lusso da manichini, basta con la merda che esce dai talent. Ho letto un trafiletto su Rumore in cui si elogiava Elodie, cazzo su Rumore! Allora che cazzo lo compro a fare Rumore, me lo dice anche Andrea Ufficiostampadeifamosi Laffranchi sul Corriere che Elodie è un fenomeno.
Lo sfogo di Ghemon, visto in quest’ottica, lo leggo più come un rapporto di un emarginato in un contesto ben preciso, che si rivolge ai vertici della società di capitale di cui comunque fa parte. Una mail interna insomma.
Ghemon esorta a essere se stessi, come chiunque oggi dai guru delle frasi motivazionali alla moda, tutti a dirti che sei speciale che sei unico che devi essere te stesso. Due palle. Proprio per sta smania di essere se stessi sono tutti uguali e copiano gli altri preoccupati di non andar bene.
Siamo tutti noi stessi da che usciamo dalla fessa di nostra mamma anche se non ce lo dice nessuno, lo siamo anche quando siamo dei caproni.
Io invece vi esorto a essere qualcosa, quantomeno quello.
Entra l’elettricista
mi fa: «Ma l’impianto è fuori norma dal ‘90!»
Eh lo sapevo, ogni tanto avevo paura
un paio di volte ho preso la scossa
togliendoppiatti dalla lavastoviglie
«Eh ci credo, i tubi son tutti di ferro…
ora vanno in plastica
in ferro ci sta che sei sotto la doccia
e la lavatrice non scarica bene
e rimani foldorato
Non hai neanche il salvavita…
lo scarico a terra… nulla cazzo!
Ci vuole il muratore bisogna spaccate tutto
Sarà 10mila euro minimo di lavori
sei seduto su una bomba»
Sì ecco, seduto su una bomba. Ecco la mia vita
Il pallottoliere dei disastri
è fatto di schegge di osso
che rintoccano a vuoto con l’eco
suona campane a secco
in questa terra arsa cementificata
Sotto il palo della corrente
le luminarie vecchie
il vento sposta niente
il Taiti alle 7,29 inizia:
«Son frastornato: un mio amico…
Emorragia celebrale…
Era contro le medicine…
gli rimarrà due giorni…»
schivo il disastro come fosse contagioso
mi concentro su: culo barista,
paste alla crema,
cartello apericena.
E sono in una spiaggia del Vietnam
a Singapore, a Guadalajaria
col mio completo hippie coloniale
che scappo dal male che da sempre mi insegue
ma io non gli appartengo!
Holulu arrivo, me l’ha insegnato Merlino
Che poi è un mio grande maestro assieme altri tre o quattro:
Rambo, Rocky… no son due, ora non me ne viene altri.
Ray Manzarek: Jim era uno sciamano.
Danny Fields: Jim Morrison era uno stronzo patentato, un uomo meschino e un prevaricatore. Portai Morrison al Max's e si comportò da carogna, da vero bastardo. E la sua poetica faceva schifo. Voleva far passare il suo rock and roll per letteratura ma erano solo cazzatine da liceale, a eccezione forse di un'immagine o due.
Iggy Pop: la prima volta che ascoltai il disco dei Velvet underground trovai quel sound insopportabile: «COME SI FA A FARE UN DISCO CHE SUONA COME QUESTA MERDA? È DISGUSTOSO! QUESTA GENTE MI FA VOMITARE! DISGUSTOSA MERDA HIPPIE! FOTTUTI BEATNIK, LI AMMAZZEREI TUTTI» Poi all'incirca sei mesi dopo capii: «Oh mio Dio! Questo è un disco fantastico!»
Lou Reed: Tesoro, sono un succhiacazzi. E tu, cosa sei?
Angela Bowie: Era così facile fare colpo su David perché l'Inghilterra è così retrograda. Voglio dire, la sodomia era contro la legge. Dovete capire da dove veniva David, così quando Lou Reed parlava dei travestiti di New York,per David voleva dire che l'America era il posto più meraviglioso del mondo.
Joey Ramone: Quella fu la prima volta che incontrammo Lou Reed. Lou continuava a dire a johnny Ramone che non stava suonando la chitarra giusta, che doveva suonarne una diversa. La cosa non venne presa bene da Johnny. Voglio dire, quando trovò la sua chitarra non aveva molti soldi - l’aveva comprata per 50 dollari. Inoltre gli piaceva l’idea di avere una Mosrite perché nessun altro usava Mosrite- quindi era una specie di marchio di fabbrica. Johnny dunque pensò che Lou fosse un vero stronzo.
Queste sono cinque frasi prese a caso dallo storico libro di interviste Please Kill Me di Legs McNeil e Gillian McCain, gli inventori della fanzine Punk, da cui ha preso il nome il movimento.
Se qualcuno non lo avesse ancora letto, può rimediare. Così anche solo per ricordarsi cosa sono le battaglie di pensiero, gli artisti gli uni contro gli altri e non al modo di Bugo e Morgan che nella loro piccola faida ricordano più due condomini che litigano per il parcheggio e si fanno causa.
Se il linguaggio è un virus allora questo libro mi ha infettato. Mi è rimasto dentro, l’ho dovuto leggere nonostante le resistenze che il mio corpo ci metteva.
Sono rimasto folgorato dal suo protagonista, dal suo carattere, dalla profondità del suo pensiero, una filosofia nera e senza speranza talmente affascinante da essere rischiosa. Va presa a sorsini altrimenti si diventa pazzi come il pittore Strauch. Altrimenti si fa come il protagonista, che nelle ultime pagine del libro si trova a dover uscire dalla stanza, nel gelo della neve, e urlare che non lo sopporta più. Anche solo la sua vista lo altera terribilmente, gli diventa insostenibile.
Adelphi porta in libreria l’esordio del king dei presi male Thomas Bernhard e lui ci regala un personaggio che in confronto Rust Cohle di True Detective gli spiccia casa.
Io non racconto la trama, non lo faccio mai, non sono uno di quei creator che vi dice i librini da leggere e fa gne gne. Questo libro è peso, è vietato, è un’avventura nella mente di un folle. Cosa ne ricaverete? Nulla, se non l’ebrezza di esservi fatti un giro in un cervello speciale. Potrete curiosare una mente geniale, ci penserà lui a lagnarsi per tutte le cose che voi non volete più nominare per non esser pesanti.
Questa è la storia di un suicida e io i suicidi non li leggo mai perché mi fanno paura, faccio eccezione solo per Kurt Cobain ma già per esempio Pavese mi uccide. Adelphi porta in libreria l’esordio del king dei presi male Thomas Bernhard e lui ci regala un personaggio che in confronto Rust Cohle di True Detective gli spiccia casa. Se la gente sapesse qualcosa di letteratura smetterebbe di dire leopardiano e lo sostituirebbe con benrnhardiano. Ma la gente in questo momento storico è impegnata sui gratta e vinci, la ludopatia e le lagne dei cantanti con le loro depressioni e i loro drammi ricchioni. Ma va bene così, la letteratura è sempre stata esoterica e settaria, una roba per pochi, Bernhard è per pochissimi. Lasciate ogni speranza voi che entrate perché è come andare al cinema a vedere Interstellar, è un’esperienza. Questo libro susciterà immagini in voi che non pensavate di poter sopportare, questo libro tira fuori il pittore Strauch che è dentro di noi e che ci fa paura perché la sofferenza è una bestia con cui viviamo dall’inizio alla fine.
La storia si svolge nel lugubre paesino di Weng, dominato dalla fabbrica di cellulosa e dalla centrale elettrica. La popolazione: «uomini piccolissimi. Non più alti di un metro e quaranta di media, camminano barcollando tra muri pieni di crepe e cunicoli, concepiti nell’ubriachezza. Pare che siano tipici di questa vallata».
Forse Kafka ne Il Castello o McCarthy in Suttree hanno queste atmosfere. «Qui tutti hanno voci da ubriachi, voci infantili e stridule che arrivano fino al do acuto, ci passano da parte a parte» Qui non «esiste una sola cosa davanti alla quale ci si potrebbe levare il cappello. Non c’è limite alla bruttezza e un prezzo si paga per ogni cosa. Qui lei può fare un mucchio di osservazioni che si trasformano solo in gelo, in antipatia verso se stessi».
La gente fa paura, «la maggior parte di loro non ha mai fatto altro che caricare e scaricare, stare in piedi nell’acqua con gli stivali di gomma e conficcare pali nel terreno». «In questa valle il benessere non riesce a entrare. È troppo stretta e sporca e brutta per il benessere». Non vi ricorda la zona industriale di Milano?
La storia è scarna, la trama minima. Ci sono due fratelli: un medico e un pittore. Il pittore è pazzo e ripudiato dalla famiglia, solo, vive a Weng camminando nei boschi e delirando ed è un genio. Il medico che non ha rapporti con lui chiede a un collega di andare a studiare il fratello. La voce narrante è quella di questo dottore, giovane, che parte alla volta di Weng e tiene un diario giornaliero degli incontri col pittore che si svolgono tutti a passeggio o nella locanda, l’unico locale della città. Un posto di gente cattiva e malata di sesso, che scopa e architetta sotterfugi. Sembra una realtà post industriale di quelle di oggi ma immersa in una grande foresta gelata e inutile dove gli animali muouiono assiderati e le persone scompaiono senza che nessuno le reclami. Il gelo è così invitante che al pittore e ai suoi istinti suicidi viene spesso di lasciarsi andare all’assideramento. Alla fine ci riesce.
Chissà che ne penserebbe il pittore Strauch della vita lenta e del ritorno nei paesini di montagna abbandonati. Ah no, ecco:
«È davvero un errore ritenere che la gente di campagna valga di più: la gente di campagna, già! La gente di campagna è gente subumana! I subumani di oggi! In generale la campagna è corrotta, decaduta, caduta molto più in basso della città. Gli abitanti delle campagne non sono che vecchio ciarpame. E poi mi dica quando mai la gente di campagna è stata così meravigliosa?
La gente di campagna forse è più riservata, ma è questo il lato diabolico, indecente, il lato miserevole della gente di campagna. Questo loro mondo di pensieri assolutamente rudimentali e brutali di cui la dabbenaggine e l’abiezione contraggono un matrimonio stupido e arrogante, distruggono tutto. I villaggi! Questo cretinismo in maniche di camicia. Io arrivo a parlare di “peste delle campagne”.
Mi pare che in futuro la campagna perderà la propria importanza. La campagna non è più zona di sorgenti, ormai non è altro che una miniera di brutalità e d’idiozia, di lussuria e di megalomania, di spergiuri, omicidi e morte sistematica.Non ha più neanche il monopolio della tranquillità»
Strauch è un pittore che dipinge solo al buio e che ha bruciato tutti i suoi quadri perché gli ricordavano quanto grande fosse il suo fallimento. Eppure la critica e le gallerie lo amano ma lui non sa raccontarsi bugie. «E come apparirà diversa ogni cosa ogni volta che avrò cercato di metterla su carta. Tutto diverso. Poiché ciò che ho messo sulla carta non corrisponde al vero. Non corrisponde mai al vero». «Non era altro che il tentativo fallito di far qualcosa che mi aveva trattato a pesci in faccia, che non valeva nulla, nulla, nulla!».
Il linguaggio è impossibile, l’arte è un fallimento. E alla fine il nostro morirà mica per questo, ma perché non è stato amato. I suoi veri aguzzini sono i famigliari che lo hanno trattato da corpo estraneo e lasciato allontanare e degenerare nella malattia. Questo è il vero tema del romanzo. Cosa faremo coi nostri vecchi? Con gli ex mariti? Con i malati?
Il cielo del pittore è nero e non c’è il rumore del mondo ma un latrato. «Ascolti questi portatori di tragedie, ascolti: questa genia ostinata di lingue biforcute che si rifiutano di rispondere, questa disgustosa repubblica consigliare dell’idiozia onnipotente, questa vergognosa spontanea ipocrisia parlamentare. Ecco i cani, ecco il latrato, ecco la morte».
Il pittore parla sempre, è un fiume in piena. La gente lo evita: «cosa dicono di me? Che sono un idiota?». Oppure: «non mi possono vedere perché non c’è niente che possano vedere».
Ecco un breve cut up:
«Lo sforzo s’arrampica su per il monte della delusione».
«È l’insicurezza che sprona gli uomini alle grandi imprese, grazie ad essa uomini che in realtà non erano fatti per nessuna cosa, sono diventati capaci di tutto. Gli eroi sono il prodotto dell’insicurezza».
«Le persone fan solo finta di non essere sole perché sono sempre sole. Basta vedere come si rianimano in gruppi quando stanno assieme: oppure sono proprio i gruppi, le associazioni, le religioni, le città a costituire la prova di una solitudine infinita?».
«Devo separarmi continuamente da ciò che mi metteva davanti agli occhi che non valgo nulla. Un giorno ho capito chiaramente che non avrei mai combinato nulla di buono. Ma come tutti, non ci volevo credere e ho prolungato quell’orrore per diversi anni».
«un immenso tribunale si è riunito per processare le grandi idee».
«La fantasia è l’espressione di un disordine, non può non esserlo, l’ordine non tollera la fantasia, non sa neanche che cos’è. Io sono certo che la fantasia è una malattia. Una malatti che non si può prendere per contagio, perché è congenita».
«Le idee spesso ci stupivano ancora dopo anni, ma prima o poi rendevanop sempre ricicolo chi le aveva avute. Le idee venivano da un regno che in realtà non abbandonavano mai. Continuano a restare lì dentro le idee: nel regno dei sogno. Non esiste una sola idea che si spenga, che possa venir spenta. L’idea è tale e lì resta».
«Il dolore in realtà non esiste, è un’invenzione necessaria».
«Durante la giovinezza tutto è ancora molto peggio. Più represso. Più disperato. Più doloroso. In realtà giovinezza è inaccessibile. Nessuno riesce a entrarci».
«Il giurista è uno strumento del diavolo. In generale è un diabolico idiota che conta sulla stupidità di quelli che sono ancora molto più stupidi di lui e i suoi conti tornano sempre. È la giurisprudenza che genera i crimini».
«La giovinezza non ha ideali, non ha ancora quelle fantasie masochistiche che sopraggiungono solo più tardi. La giovinezza è un errore. L’errore della vecchiaia è invece quello di guardare agli errori della giovinezza».
«Nessun oggetto, nulla è muto. Tutto esprime continuamente il proprio dolore. Le montagne sono i grandi testimoni di grandissimi dolori».
«Tutto è inferno. Cielo e terra, terra e cielo sono inferno. Capisce? Lassù e quaggiù sono inferno. Ma l’uomo ama vivere in modo falso e abbandonarsi a false impressioni che gli fanno tenere basso il capo sino a terra».
«Se questi interventi dell’uomo continueranno per anni ad avere carattere di taglio incontrollato, al mondo non resteranno che queste orribili immagini di boschi morenti che vediamo dappertutto. Questo paesaggio ogni volta che lo guardo diventa più brutto. È brutto e minaccioso e pieno di particelle di cattivi ricordi, un paesaggio che genera lo scompiglio tra gli uomini. Con le sue tenebre, i suoi branchi di animali selvatici, con la sua concetrazione di sciagure laggiù nella valle dove viene perseguitato il mondo operaio».
«Bisogna stare attenti a non vivere più a lungo di quanto si possa sopportare. La vita è una causa che si perde sempre qualunque cosa si faccia o chiunque si sia. Questo era stabilito già prima che l’uomo venisse al mondo. Al primo uomo è capitato quello che capita a noi. La ribellione conduce a una disperazione ancora più profonda».
«Poi ci sono pagine bellissime contro la scuola e gli insegnanti, i grandi nemici che hanno attentato alla vita di Bernhard segnandolo per sempre. E pagine di vera misoginia, roba che oggi sarebbe impensabile anche se pronunciata dal personaggio di un romanzo: «la femmina non capisce nessun gioco».
Come dice l’autore: «il pittore è un tipo particolare che nessuno potrà mai capire. nessuno. È un essere inclassifcabile».
Potrei continuare a lungo ma non voglio. Chi vuole conoscere il pittore e il suo pensiero, anche solo per contraddirlo, per dirgli che invece la vita è un regalo, può farlo leggendo il libro di Adelphi. Costa 20 euro, pochi. Piuttosto dovrete munirvi di coraggio.
Per chi è avvezzo a parlare di fotografia e di libri fotogragici, Sleeping by the Mississippi di Alec Soth è un grande classico (commerciale) del nostro tempo.
Il fotografo americano, maestro del ritratto e del paesaggio col banco ottico ha sempre avuto uno stile molto documentaristico e umano, ha creato fanzine, libri che ora valgono un mucchio di soldi e ha coniato un linguaggio, quello della fotografia ibrida per media e musei.
In gioventù guardavo al suo lavoro come la cosa più bella mai vista e mi ha influenzato tantissimo, crescendo l'ho poi trovato spesso manieristico e un po' forzato ma non c'è dubbio che Mississipi mi faccia ancora impazzire.
Soth ha risalito il grande fiume americano e ha raccontato i dispersi che ci vivono, i loro luoghi, i loro volti. Per colpa sua migliaia di stronzi hanno fatto la stessa cosa col fiumello sotto casa e han dato vita a un filone tremendo: lo storytelling fotografico del fiume. Roba pesa di cui diffidare.
Godetevi invece questi capolavori.
È così da quando una scimmia ha guardato il sole e ha detto all’altra scimmia: “Ha detto che tu mi devi dare la tua cazzo di roba.” Le persone… sono così fottutamente deboli che preferirebbero gettare una moneta nel pozzo dei desideri, piuttosto che comprarsi la cena.
Sentite, tutti sanno di avere qualcosa che non va. Semplicemente non sanno cosa sia. Vogliono tutti una confessione. Vogliono tutti un racconto catartico per descriverla specialmente i colpevoli. Ma tutti sono colpevoli in qualche modo.
Non penso che l’uomo possa amare, almeno non nel modo in cui vuole. L’inadeguatezza della realtà si intromette sempre.
Le persone che non provano rimorso, di solito se la passano bene.
Un vero uomo se lo ricorda sempre quando ha qualcosa per cui farsi perdonare.
Il mondo ha bisogno di uomini cattivi, perché i cattivi tengono a bada gli altri cattivi.
Siamo delle cose che si affannano nell’illusione di avere una coscienza. Questo incremento della reattività e delle esperienze sensoriali è programmato per darci l’assicurazione che ognuno di noi è importante, quando invece siamo tutti insignificanti.
Io non dormo, sogno soltanto.
Rust: Io mi considero una persona realista, ma in termini filosofici sono quello che definiresti un pessimista.
Marty: Vabbé! Ok! Che cosa significa?
Rust: Che non sono uno spasso alle feste!
Ok è tutto. Ci vediamo la settimana prossima. In fondo a Bengala troverete sempre e soltanto una frase di Charles Bukowski. Sappiatelo.