BENGALA #121 - Ho il ciclo e sono un uomo
Il basso sfasciato - Scatole e scatoline - Speciale fotografia: Mary Ellen Mark!
«Veramente per la noia non credo si debba intendere altro che il desiderio puro della felicità; non soddisfatto dal piacere, e non offeso apertamente dal dispiacere. Il qual desiderio, come dicevamo poco innanzi, non è mai soddisfatto; e il piacere propriamente non si trova. Sicché la vita umana, per modo di dire, è composta e intessuta, parte di dolore, parte di noia; dall'una delle quali passioni non ha riposo se non cadendo nell'altra».
(Giacomo Leopardi, Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare)
Mi sa che ho il ciclo, solo così lo riesco a definire. Se vogliamo veramente parlare di parità dei sessi esigo che si cominci a parlare anche del ciclo maschile. Su internet non si trova quasi niente però ormai son certo: l’uomo non ha le mestruazioni, ma a livello ormonale qualcosa deve succedere per forza.
Magari non mensilmente, su periodi più lunghi, ma qualcosa succede, me ne accorgo perché entro in pre-ciclo. Sono altalenante di umore, ho il cervello che viaggia a mille, voglio mangiare solo la cioccolata e sono abbastanza inconsolabile.
Mi servirebbe un bel Lamentodromo, un luogo in cui andare per aver qualcuno che mi dice: “bellino, dai sei bravo. Non sei un disastro come credi” e mi batte pat-pat una pacchina sulla testa.
Invece no, sono proprio quel disastro. Da me si dice: chi è causa del suo mal, pianga se stesso. Mah… Siamo tutti un po’ causa del nostro mal. Anche del nostro ben, eh.
Mi ritrovo che l’hanno è iniziato e riparto con Bengala, non ero pronto ma che faccio, passo? Ero ancora nella mia tana a leccarmi le ferite e sperare di vedere una cometa nel cielo che mi indicasse la via.
Che poi penso sia la stessa fatica che fate voi col ritorno al lavoro, con gennaio, con l’anno che ricomincia pieno di scadenze e col carico di tutte le nuove maledette aspettative. Le aspettative ci sono nemiche, non dovremmo mai averne invece ne siamo dipendenti.
Quando son così scrivo e voi mi dite che sono i Bengala migliori. Il motivo è semplice: penso che cerchiate qui, quello che altrove non trovate. Consigli di lettura da un luogo sperduto. I consigli di lettura del Corriere e della stampa mainstream sono prevalentemente marchette, quelli di Bengala no.
Bengala è la Resistenza, a cosa non si sa. Al cedere. Guai! Cedi un pezzettino un giorno e dopo poco ti ritrovi gambe all’aria, che hai ceduto tutto. Leggere è una forma di resistenza, chi ci prova lo sa proprio per le tante volte in cui fallisce.
Sarà che sono un individualista, un egoista, un ista, ma a me dei problemi del mondo, più invecchio e meno me ne frega. Mentre il mondo affoga in preoccupazioni io mi rifugio in altri mondi, quelli pensati e raccontati, creati, dai giganti del pensiero. È sempre stato così e continuerò a farlo. Poi mastico e sputo, quello di buono che trovo lo metto qua.
Faccio una cosa che non faccio mai, metto qui un pezzo che ho scritto sull’Espresso. Quelli della redazione un po’ mi odiano, non ripostano quasi mai i miei pezzi, mi ritengono un corpo estraneo, ma io a voi posso farlo leggere.
«Ma la televisione ha detto che il nuovo anno, porterà una trasformazione e tutti quanti stiamo già aspettando». Dite la verità che ci sperate tutti. Anno nuovo, vita nuova, invece sotto c’è sempre l’insidia che niente cambi veramente.
Me ne sono reso conto l’anno scorso quando, a gennaio, ho iniziato ad appuntarmi in agenda gli avvenimenti importantissimi che accadevano tutti i giorni. Solo a metterli in fila c’era da rimanerne impressionati. Mi ero fatto l’idea di farci un progetto editoriale, un piccolo libro di testi e foto, un racconto come quei fantastici volumi enciclopedici tipo «1994: il libro dell’anno» che mio padre non vuole assolutamente butti via per far spazio ad altri volumi.
Ogni singolo giorno sembrava il più importante da un sacco di tempo. Sentivi il grande passo della Storia scandire il tempo, sentivi di farne parte.
Faccio un esempio: 31 dicembre morte di Papa Ratzinger, 8 gennaio morte di Gianluca Vialli, 9 gennaio il Brasile preso d’assalto dai fan di Bolsonaro (si temeva il colpo di stato), 16 gennaio arresto di Messina Denaro, 19 gennaio diventa virale la storia della bidella che fa Napoli-Milano ogni giorno, 21 gennaio viene ufficializzata la presenza di Zelensky a Sanremo. Sono solo alcuni degli eventi del mese di gennaio del 2023 ma fanno un certo effetto messi in fila.
Ero partito con tutte le buone intenzioni su questo progetto, mi immaginavo già a presentarlo nelle librerie di tutta Italia, ma già a febbraio avevo calato l’intensità con cui appuntavo gli eventi. Succedevano cose importanti si, ma avevo sempre meno voglia di continuare, a dir la verità me ne scordavo. Ero troppo distratto da far parte di quell’anno, dal conoscere persone o dare una direzione alla mia vita. Non avevo tempo di fare l’amanuense, infatti nel diario ci sono dei vuoti, poi ogni tanto uno sprazzo, che ne so: 27 febbraio Elly Schlein diventa segretaria del PD (mi parve importante, vedete a volte la fretta?). Così un giorno smisi. Solo quando morì Berlusconi mi tornò in mente che avrei dovuto scrivermi la data, ma ormai era troppo tempo che non lo facevo e preso dal senso di colpa, evitai.
Il mio progetto era naufragato.
Eppure adesso, come ogni anno, rischio di cascarci e mi dico: e se lo riprendessi in mano? Solo gli eventi delle ultime settimane sono clamorosi: Elon Musk ad Atreju, Chiara Ferragni e la satoria del milione di euro.
Il progetto è lì, che mi fissa, ma già so che non lo seguirò. Mi viene in mente una canzone di Manuel Agnelli: «i geniali progetti che sono tutti uguali/ ed i geniali discorsi diventano banali/ ma la cosa più strana, della nostra vita è che ci scivola tra le dita». Alla fine dell’anno abbiamo tutti questa smania di progettare in vista del nuovo inizio ma l’1 gennaio continui solo quello che avevi cominciato il 31 dicembre. Le diete da iniziare dopo le feste; la promessa di andare in palestra visto che si è anche pagato in anticipo un anno; il nuovo abbonamento a una rivista in inglese che vogliamo leggere per migliorare la lingua; tutti buoni propositi che ho deciso di non fare più per non subire il senso di colpa di sabotarli.
Non abbiamo bisogno di grandi progetti per gennaio. Abbiamo bisogno di grandi progetti per la vita, questo scriveteci in agenda.
Buon anno.
15,31 al bar
briai immersi nel sole giallo
fiati di Molinari e discorsi loffi
basterebbe un secondo a scatenar la scintilla.
Uno gli manca un dente e beve birra
l’altro tracanna caffè col rum
Rayban e bombetta, toltalnente no sense
entra una co’ un cane. Nobile. Secco. Co’ capelli, il cane.
Ecco i briai far mille feste alla bestia
che li fissa immutata, attonita.
«Ehhhh issa» uno si china per porger carezza
e il cane si scansa
e la padrona imbarazzata: “non gli piace”
anzi inorridita
“‘Ellina” fa il briao
e ride roco, tutto rosso, loco
completamente ignaro di esser respinto
perché nel sole giallo caldo di gennaio
col vento contro, per 4 euro e 50,
egli ha vinto.
Mi lavano la macchina
io scelgo sempre loro perché son bravi
albanesi, musi duri, mai un sorriso
mai una parola un gesto
e io continuo a venire
e loro non vedono l’ora che me ne vada
mi metto in attesa su una panca in legno l’auto passa sotto le turbo spugne
un cane lupo triste non amato
secco, coda tra le zampe, dramma,
viene a porgermi il capo,
ci gioco, lo accontento lo lascio sparire
con andatura monca dietro le lamiere,
è solo vuole solo giocare,
io e lui siamo uguali.
Tempio Maskio,
mio zio Uber Maschio.
Giro per i mercatini da anni ormai e concentro le mie spese compulsive su oggetti del passato. Piatti e tazzine di solito, ma le scatole hanno un posto d’onore.
Ne ho poche rispetto al resto della mia paccottiglia, solo perché negli ultimi anni si è creata una bolla speculativa sulle scatole di latta. Prezzi assurdi, altissimi, pure nei mercatini. Motivo? Sono troppo belle, nessuno può resistere. Cioè osservi una scatola di latta di sessant’anni fa e non puoi che rimanere ammirato dall’arte del packaging, dalla grafica, dalla cura del dettaglio. Che ne so i Biscotti Krumiri… già erano buoni da morire quelli, poi con la scatola in latta acquistavano un valore aggiunto.
Le scatole delle cose diventano poi scatole di altre cose. Io non voglio andare dai cinesi e comprare delle fucking scatole di plastica per metterci dentro le vecchie foto, i miei anelli, delle lettere. Io voglio le scatole di latta, perché sono preziose e rendono anche le cose che ci metti preziose.
Non sono un nostalgico a priori del passato ma spesso mi trovo a sognare un isolazionismo commerciale in cui smettiamo tutti di comprare su Amazon i prodotti confezionati in plastica e schiere di grafici e designer italiani si rimettono a lavoro per creare una custodia di carta per una saponetta o uno spazzolino. Il motivo? Erano meglio. Il mercato globale non ha stile, i prodotti sono tutti uguali e vanno a impestare visivamente gli scaffali dei supermercati. Voglio dire, abbiamo vincoli paesaggistici nel Paese del Bello? Beh dovremmo applicarli anche ai prodotti di consumo. In Italia il Brutto andrebbe combattuto seriamente, qui non può proprio entrarci. Amche ioo vado dai cinesi, ma diciamocelo: cascano un po’ le palle in quel plasticume.
Senza scadenza, il libro di Camilla Sernagiotto, è il regalo perfetto per tutti quelli che amano questa roba. È anche un libro di storia dell’arte e del design, un libro sull’illustrazione italiana nella sua era d’oro, un libro su come tante aziende con una storia secolare hanno saputo rimodernarsi e attualizzare se stesse. Secondo me un libro molto adatto anche da essere usato nelle scuole, magari alle superiori.
Ci sono i nomi dei brand e la loro storia, con tanto di foto vintage.
Le storie raccontando un’imprenditoria rocambolesca, visionaria. Un mecenatismo culturale per cui gli industriali contribuivano coi loro prodotti, a fabbricare dei sogni o soddisfare dei bisogni, piuttosto che - come oggi- indurne di nuovi.
Alcuni esempi per farvi salire l’hype? Cristal Ball, Formaggino Mio, Idrolitina, Liquore Strega, Mutti, Nutella, pastiglie Leone, Proraso, Prep, Ramazzotti, Venchi, Zigulì.
Qualche esempio?
Questa delle Zigulì mi tocca il cuore, col concetto che la caramellina di zucchero che fa bene alla salute. Completamente fasullo ma che bellezza.
Poi le storie delle aziende italiane sono epiche, vittoriose, così lontani dal mondo moscio e pieno di slide delle start-up di oggi. Tipo, la Tassoni ha più di 200 anni. «questa bevanda venduta in vetro è il fiore all’occhiello di Tassoni, realtà nata a metà del Settecento come piccola spezieria nel centro di Salò.
Nel 1793 la spezieria diventò farmacia, continuando la produzione di distillati a base di cedro. Nel 1868 la proprietà passò al Marchese Nicola Tassoni, che le diede il suo cognome. Nel 1884 fu acquisita da Paolo Amadei, il quale non volle però cambiare nome alla ditta, perché già all’epoca Tassoni era sinonimo di cedrata. Nel 1921 nacque lo Sciroppo Cedrata Tassoni da miscelare con l’acqua, ma solo negli anni Cinquanta, quando iniziarono a diffondersi le bibite gassate, arrivò la Cedrata “pronta da bere nella sua dose ideale” (come recitavano le pubblicità dell’epoca e come si legge ancora sulla bottiglietta), proposta nella celebre bottiglietta a buccia di agrume che è tuttora il meraviglioso vestito della bibita».
«Gianduiotto Caffarel, il primo cioccolatino incartato della storia La svolta arrivò nel 1865, quando Caffarel incominciò a produrre il primo cioccolatino incartato della storia: il Gianduiotto. La ricetta originale prevede il 28% di Nocciola Piemonte I.G.P., sapientemente miscelata con cacao pregiato e finissimo».
TESTO: Disappunto
FOTO: Paolo Proserpio
In senso stretto oggi nella musica non serve così tanto essere un gruppo, nel senso che le tecniche di produzione musicale sono molto cambiate rispetto a quando, non so, i Led Zeppelin si sono trovati per la prima volta assieme in sala prove. La massima manifestazione di questa cosa è il pop odierno e potete controllarla agevolmente in qualunque servizio di streaming. Non ne faccio una questione di qualità, che anzi è indiscutibile -alcuni dei dischi superpop del presente (non tutti) sono capolavori assoluti, pieni di intuizioni musicali stupefacenti e suoni che non si sono mai sentiti prima.
Il punto è che un disco finito può elencare nella massima tranquillità il contributo di due-trecento persone, perlopiù cottimanti di medio e basso livello, perché alla fine bastano tre linee vocali di Beyoncé per identificare un pezzo come ‘di Beyoncé’. Traslato ad un livello più basso, tutto questo significa che se io fossi un chitarrista e volessi produrre un disco in autonomia, nel garage di casa, avrei gli strumenti per poterlo fare senza dover sopportare i problemi psichici del batterista e il bisogno di scopare del bassista, e il disco che uscirebbe fuori sarebbe molto più rappresentativo di me e della mia musica di quanto lo sarebbe un disco realizzato in tre, con una dinamica di gruppo e dei compromessi che ognuno dovrebbe accettare per il bene della band. Questo, ovviamente, non significa che i “gruppi” siano destinati a finire.
Lo dico perché le analisi della stampa mainstream sono tutte di questo stampo apocalittico. Faccio un esempio stupido: nell’era dello streaming si è scoperto che fare un “disco” (cioè una raccolta di canzoni che potevi comprare in cambio di un tot di soldi) non era più così necessario, che gli artisti avrebbero potuto correre meglio incontro al mercato centellinando i pezzi e facendoli uscire man mano come singoli, così da incrociare gli algoritmi ed essere più ascoltati e bla bla bla. Questo ha fatto fiorire centinaia, migliaia di previsioni di un futuro prossimo nel quale il cosiddetto “album” o “disco”, la raccolta di canzoni che esce a un certo punto e contiene tot minuti di musica, sarebbe diventato un concetto obsoleto. Era naturale già allora che fosse una fregnaccia, ma del resto alla critica musicale non si chiede alcun tipo di acume. E infatti, a dieci anni e passa dall’esplosione dello streaming, non solo il formato “album” è ancora vivo e in salute, ma è piuttosto comune assistere all’uscita di “album” che superano in tranquillità le due ore di musica, sia nel mainstream più becero che nell’underground più oscuro. Segno intanto che c’è qualcuno che continua a voler produrre questa roba, e poi che c’è pure qualcuno che la vuole ancora sentire. In altre parole: generalizzare è sbagliato.
Un altro esempio classico è la previsione che il cosiddetto “rock”, in senso lato, sia un genere in punto di morte. È dovuta al fatto che i dischi rock non entrano più in classifiche sempre più dominate dall’hip hop, e al fatto che i concerti rock sono perlopiù popolati da quarantenni obesi con più barba che capelli (d’altra parte l’esistenza di Ray Banhoff ci rivela che essere magri e avere i capelli lunghi non è necessariamente indice di benessere). Dall’altra parte mi pare evidente che l’hip hop stia attraversando, al di là di un mucchio di analisi entusiaste e (sospetto) molto frettolose, un periodo di evidente stanca in cui le opere di gran lunga più chiacchierate (penso a JPEGmafia, Travis Scott, Danny Brown, Earl, Slowthai, forse perfino noname e siamo tutti in attesa del nuovo Kanye) abbracciano la pantomima/autoparodia come cifra stilistica fondamentale e la sensazione sembra essere che al momento nel cestino non sia rimasto letteralmente NIENT’ALTRO -è una sensazione e spero sia sbagliata, ma è per dire che in una realtà così complessa e sfaccettata l’interpretazione di ognuno è quasi più importante che i fatti.
E quindi il mio disco dell’anno appena trascorso è quello delle boygenius. Sicuramente è il disco che ho ascoltato di più, ma anche quello a cui più in generale ho teso, quello che mi mancava quando non potevo ascoltarlo. È un disco molto semplice, a dire il vero. Le boygenius sono tre musiciste sulla soglia dei trenta, di notevole successo da soliste, che hanno fondato un gruppo per passare più tempo assieme. Cinque anni fa avevano pubblicato un EP, una cosa un po’ estemporanea, poi ci sono state le carriere soliste e il COVID e tutto il resto. Il 2023 l’hanno passato assieme: il loro disco è uscito a marzo, ha fatto sfracelli, i loro concerti si sono riempiti di gente. Suonano con una backing band paurosa, spettacoli intensi e molto spontanei in cui portano una quantità di queerness insensata e le peculiarità delle singole protagoniste (a grandi linee: Julien Baker l’animo punk rock, Lucy Dacus è la miglior scrittrice di canzoni, Phoebe Bridgers è la personalità più forte). Al di là della bontà oggettiva dei pezzi, da un punto di vista critico il loro disco non è niente di che. Non è un album a cui rivolgersi se si è in cerca dell’inascoltato, non è un album che spicca particolarmente per intensità o dramma o violenza, e nessuna delle caratteristiche delle boygenius potrebbe essere isolata e utilizzata per descrivere la loro peculiarità. La cosa migliore del gruppo è una casuale concatenazione di eventi che l’ha portato ad essere enormemente importante per un certo numero di persone di cui faccio parte e da cui sono accomunato solo e soltanto dall’ascolto compulsivo di queste canzoni. Credo che sia dovuto anche a un bisogno interiore del periodo, e cioè di essere appassionato di musica in una maniera un po’ più basilare e dozzinale del solito.
Ma dall’altra parte c’è qualcosa di profondamente oggettivo nella bontà di questo disco: funziona a un livello inedito. Prende a prestito da un centinaio di immaginari diversi, che hanno tutti più o meno a che fare con il rock’n’roll, senza piratarne nessuno di specifico, e cerca di alzare l’asticella abbassando quanto più possibile le pretese (anche perché, soprattutto nel caso di Dacus, parliamo di gente con una scrittura molto sofisticata), una filosofia del meno che sembra reggersi in qualche modo su un modello socialista (vincente, tra l’altro: al momento il brand boygenius vale più della somma dei tre brand individuali) di annullamento del singolo in funzione del collettivo, un modello che trascende la macchina promozionale attorno alla band e sembra puntare a una nuova forma musicale che sembra, a tutti gli effetti, l’opposto del disco pop di cui parlavo sopra: un team ridotto di persone dalla personalità molto forte che esiste solo in funzione della sua identità collettiva, contrapposto a team ultra-allargati e organizzati intorno a un nome forte. Non è l’unico caso nella contemporaneità (per molti versi anche gruppi come Sault fanno la stessa cosa in modi diversi), ma sembra comunque quello più entusiasta e aperto a possibili sviluppi futuri. FINE DEL PIPPONE.
Alcuni, quelli che non leggono la bio su Instagram, non sanno che Farabegoli è anche la mente dietro @Ilbassosfasciato, una delle pagine che più amo.
La sua conoscenza momunentale dell’anedottica legata al mondo della musica si concilia quel suo stile di scrittura incalzante in un match perfetto. Ricordate il claim: imparare giocando? Ecco, ilbassosfasciato per me è questo. Seguitelo.
Richard Rush voleva fare lo scultore. Aveva anche studiato a una scuola d’arte, ma il padre era più pragmatico e l’aveva convinto a laurearsi in ingegneria. Una volta entrato nel mondo del lavoro, nel 1939, si era ritrovato a fare entrambe le cose: modellini per l’industria, qualunque cosa fosse in grado di realizzare. Aveva realizzato tazze del cesso e mobili per jukebox. Era stato ingegnere per l’esercito, costruiva modellini in 3D per aiutare a progettare le battaglie. Aveva preso una medaglia, era tornato a Chicago e aveva riaperto uno studio. Negli anni successivi era diventato il leader del settore, lo studio principale a cui si rivolgevano i grossi clienti in cerca di modellini realistici. Tra i vari un indiano, una sorta di santone-scienziato che gli aveva commissionato una statua umana trasparente, con un sistema circolatorio realistico al suo interno. Rush aveva preso l’idea, l’aveva sviluppata e nel 1968 aveva brevettato il TAM, Transparent Anatomical Manikin: una figura umana iperrealistica con la pelle trasparente e un sistema di organi che si illuminavano per scopi didattici. Ci terrà sempre a puntualizzare: io sono uno scultore, non uno scienziato. Ma la sua scultura verrà richiesta da decine di musei in giro per il mondo, e la sua foto verrà pubblicata su un’infinità di riviste scientifiche e manuali. Tra cui un libro che a un certo punto finirà in mano a un bambino di Aberdeen, nello stato di Washington. Un biondino col pallino dell’anatomia. Che qualche anno dopo è diventato un uomo di 25 anni, suona la chitarra in una band e ha bisogno di una copertina per il suo nuovo singolo. La canzone si chiama Lithium ed è estratta da un disco che sta facendo impazzire i ragazzi di tutto il mondo. L’idea ce l’ha in testa da un po’: un TAM femmina con due ali d’angelo. Ma Robert Fisher, il grafico, non riesce a farlo: c’è un problema coi diritti, l’autorizzazione non arriva, tocca orientarsi su un altro progetto. Ma qualche tempo dopo l’OK arriva, e l’idea verrà dirottata su un altro progetto: il nuovo disco del gruppo. Doveva chiamarsi I Hate Myself and I Want to Die, ma la band ha cambiato idea. E il nuovo titolo sembra perfetto per quella copertina.
I’m a documentary photographer...What I’m really great at is looking- that’s my forte- to be able to pull things from reality, to see what’s strange and real
Mary Ellen Mark
TESTO: SARA OCCHIPINTI
La prima volta che sentii parlare di Mary Ellen Mark fu grazie al mio amico Antoin che mi disse:”Ma come? Non puoi non conoscerla? Lei è la fotografa di noi freaks!”. Spinta da ignoranza e curiosità mi andai a documentare e scoprii una delle fotografe più influenti del suo tempo, del nostro tempo. Perciò quando Steidl pubblica “Encounters” in occasione della più ampia retrospettiva presso Co-Berlin (16 settembre 2023-18 gennaio 2024) prenoto di corsa alcune copie.
Mark nasce a Filadelfia nel 1940 e prima di arrivare alla fotografia studia pittura e storia dell'arte nel 1962. Prosegue poi l’anno successivo con un Master in foto giornalismo in Pennsylvania, sotto la guida esperta e il sostegno del suo insegnante, Lew Glessman (Art Editor di Holiday magazine).
Dopo la laurea grazie ad una borsa di studio Fulbright arriva in Europa e qui viaggia per diversi paesi, ma fin dall’inizio la sua intenzione è quella di andare a fotografare la Turchia; "Lì", dice,"trascorrerò un po' di tempo in ogni villaggio, conoscendo le persone, fotografando loro e il loro modo di vivere. Faccio fotografie solo da un anno e mezzo...So di aver molto da imparare e molta strada da fare”, rivelando in queste parole, seppur ancora acerba, la sua attitudine fotografica.
In seguito si trasferisce e stabilisce a New York e qui trascorre i decenni successivi lavorando come foto giornalista per alcune importanti testate come LIFE, New York Times Magazine, The New Yorker, Rolling Stone e Vanity Fair. Mark intraprende questo lavoro in una fase particolare, di crisi e di cambiamento del mondo del giornalismo, in cui in un primo momento si era imposto un nuovo stile detto "New Journalism" che privilegiava il testo alle immagini; successivamente si era riassegnata centralità alle fotografie, ma non ricalcando il passato, bensì tentando un superamento dei vecchi standard, come i “war reportage” o quei servizi che focalizzavano sulle ingiustizie sociali. Ai fotografi adesso si richiedeva che fossero più immaginativi e spregiudicati e che raccontassero la realtà così com'era senza tentare di "addolcirla". Questo clima aprì le porte delle testate ad autrici come Leibovitz, Plachy, Mark per l’appunto, ma anche a nuove giornaliste, come Joan Didion ad esempio. Così alla fine degli anni '60 una nuova generazione di giornaliste/fotografe accedeva e riusciva a imporsi in un un sistema che fino a quel momento era stato “male dominated”.
Lei stessa da un contributo diretto al mondo editoriale, fondando a metà degli anni '60, insieme a Sylvia Plachy, il mensile “Jubilee”, la cui linea editoriale si può riassumere nella richiesta ai fotografi di non avere la pretesa dell'oggettività, ma di essere parte della storia raccontata. I soggetti delle storie, diceva Mark, siamo sempre "noi" e non "gli altri".
Il libro “Encounters” raccoglie ben 19 serie fotografiche che vanno dagli anni ‘60 agli anni 2000. '70 e '80.
Tra questi “Ward 81" (1976) che documenta la vita di alcune donne rinchiuse in un istituto psichiatrico statale dell'Oregon. Per Mary Ellen questo è il progetto che più ha modificato il suo approccio, oltre a essere il suo primo progetto personale e “auto assegnato”. Delle protagoniste di questo progetto dice: “penso continuamente a tutte le donne che ho incontrato all’ospedale statale di Oregon che hanno condiviso le loro vite e i loro momenti più intimi con me”; e ancora: “da loro ho imparato come avvicinarmi alle persone e quanto posso spingermi nel fare una fotografia”.
“Damm Family” (1987-1994) in cui attraverso la storia la storia della famiglia Damm, che vive dentro la propria automobile in estrema povertà ma con tanta dignità a Los Angeles, racconta anche la storia di un intero paese in un momento storico.
“White Supremacists in the United States” (1986-1995) in cui fotografa il mondo dei suprematisti bianchi americani, in particolare i membri del Ku Klux Klan e i resti del partito Nazista -Americano.
Infine, il progetto “Streetwise” (1983), il suo progetto di più lungo termine, in cui racconta la vita dei cosiddetti “runaway children”, i bambini scappati di casa, andati a vivere a Seattle. Mark li incontra la prima volta in Pike Street,nel centro di Seattle dove spacciano, vendono i loro corpi per denaro, droga, per riuscire a vivere. Inizialmente, dice Mary Ellen, i bambini erano sospettosi e pensavano lei fosse un poliziotto sotto copertura, ma quando iniziò a litigare con un poliziotto in loro presenza iniziarono a fidarsi e da quel momento si aprirono e lasciarono ritrarre. “Streetwise” prosegue con “Tiny: Streetwise Revisited” che in particolare narra la storia di Erin Charles, conosciuta come Tiny, per circa tre decenni a partire da quando era una bambina di strada di quattordici anni.
Mark è spinta da uno profondo umanesimo che la porta, sia nei lavori su commissione sia in quelli personali, a ricercare e dare voce a quei soggetti al margine della società americana. E’ anche la fotografa dei movimenti di controcultura, in quel momento erano all'apice quelli dei diritti delle donne. Il suo sguardo, risulta evidente, è rivolto soprattutto alle figure femminili.
Crea delle immagini estremamente attrattive che fanno emergere con forza l'umanità e l'identità dei soggetti ritratti. Sono fotografie talvolta disturbanti o scioccanti, ma sempre in grado di destare curiosità e creare una connessione con lo spettatore.
La potenza delle sue immagini è anche una conseguenza del suo approccio coraggioso.
Mark si mette in gioco a più livelli, mescolando nella sua pratica il rapporto professionale e quello privato con i soggetti ritratti. Si immerge letteralmente nelle loro vite, anche per lunghi periodi, e riesce spesso a mantenere il legame con loro anche dopo, andando oltre l’interesse della mera pubblicazione delle fotografie. La connessione personale è sicuramente un segno distintivo del suo lavoro.
Così non sorprende - anzi è proprio una nota di bellezza nel libro - che, insieme ai testi critici, alle citazioni e alla descrizione dei progetti, ci siano anche numerose immagini private di Mary Ellen in cui lei abbraccia affettuosamente Laurie dell’ospedale psichiatrico dell’Oregon, Madre Teresa di Calcutta ammalata, Erin/Tiny e altri runaway children ormai cresciuti e, per fortuna, sopravvissuti.
Ecco è tutto. In fondo a Bengala troverete sempre e soltanto una frase di Bukowski. Sappiatelo.